alt«Il Purgatorio è un transito. Un passare. Uno sconfinare. E Napoli – come ci ricorda Enzo Moscato – è sempre stata una città di profondi sconfini. Non soltanto architettonici [...]. Si potrebbe dire che Napoli è un’espressione, non tanto metaforica, ma proprio fisica, concreta, della purgatorialità».


Giggino deve averlo capito meglio di tutti: sarà che è un’anima tribolante e per questo corre via veloce, instancabile e disperato (come le sue parole, sempre in affanno, che inciampano nella balbuzie). I dizionari di psicologia definiscono il continuo spostarsi senza altra meta che non sia lo stesso movimento dromomania, attribuendole il significato di fuga dall'angoscia. Giggino ha 50 anni, dice che lavora nel ramo “poesia”, ma sopravvive di mille piccole truffe (il necessario per mangiare, pippare, e farsi fare un blowjob dalla puttana di fiducia); abbandonati moglie e figlio è tornato in casa col padre.

Quello da cui scappa, forse, è l’orrore assoluto del quotidiano, coi suoi riti inautentici, ripetitivi, che costringono in un limbo dove nulla sembra aver luogo; del resto è già condannato a correre senza scopo in un nonluogo: Bagnoli, ad Ovest di Napoli, zona vicina ai “Campi Flegrei”, che rinunciò alla sua vocazione di villeggiatura per diventare quartiere operaio, ripensandosi attorno agli altiforni dell’Italsider. «Ma nel 1992, – racconta il regista, Antonio Capuano – lo “stabilimento” venne chiuso, dismesso, venduto, rimosso... sicché anche Bagnoli, e i suoi abitanti, vennero dismessi, venduti, rimossi... E oggi il quartiere ancora si estenua a trarre, dalle sue ruggini, da quelle infamie, nuove ruggini e altre infamie... Ne è riprova l'immensa area svuotata, a ridosso del mare, che dopo più di 20 anni, e tanti programmi, è rimasta una “steppa” inquinata, desolata e vuota».

Giggino, nell’antropologia delle anime in pena (che sono gli abitatori tradizionali del purgatorio proletario napoletano), è lo sradicato, rappresentante di quella generazione (si pensi, ad esempio, a quell'altro suo coetaneo, anche lui artista naïf – pittore d'appartamento –, che incrociamo mentre la moglie lo sta cacciando di casa, stanca di mantenerlo e di sopportare le sue assurde copie dei personaggi Disney) che più ha patito la sconfitta, la dismissione, che ha perduto un senso del vivere e non è più stata in grado di reinventarsi. A controbilanciare il suo vagabondare da un lato il padre, Antonio, cantore ed esegeta delle gesta maradoniane, pensionato dell’Italsider, nostalgico della fabbrica e di quel che rappresentò; dall'altro Marco, diciottenne senza studi e professione, galoppino di un minimarket, alla rincorsa del futuro senza sapere però come fare. Tutto attorno un brulicare di monache e malavitosi, “fujénti” in processione e casalinghe discinte o disperate, rapper, squatter e migranti morti di fame.

Le parole di Moscato adoperate per raccontare Napoli dicono di una “città di profondi sconfini”; ecco il termine sconfinamento è ciò che probabilmente dà meglio l’idea del gesto registico di Capuano, forse mai così orgogliosamente fuori dalle convenzioni e dai canoni estetici (e che quindi ci costringe ad andare al di là delle abitudini stereotipate del guardare e del pensare) come con questo film. Per quanto da sempre interessato a strutture complesse (vengono in mente Luna rossa, o La guerra di Mario), qui il regista elabora un dispositivo filmico che non si identifica con la somma delle sue parti (fiction; messa in scena della realtà; cinema del reale; nuovo realismo; post-realismo), bensì ognuna di esse genera collegamenti e movimenti imprevisti.

Quella a cui Capuano dà immagine è una visione grottesca del mondo, dove il termine grottesco va inteso nella maniera proposta da Francesco De Gaetano nel suo studio sul cinema italiano, e cioè come grado estremo del realismo, che «in quanto tale ne costituisce il superamento interno. […] Nel grottesco – sostiene De Gaetano – troviamo il grande paradosso […]: una presenza costante del reale senza alcun realismo, una presenza “de-realizzata” di un reale che si converte costantemente in sogno, incubo, allucinazione» (De Gaetano 1999, pp. 25-28).

Capuano crede nel reale (tutto il suo cinema vive di viva periferia: «Come fai a raccontare un luogo e le persone che ci vivono se non lo conosci? Puoi raccontare l’epidermide, la superficie. Io invece ho l’esigenza di parlare del dietro, del fondo dei fatti. E questo richiede una conoscenza profonda di una realtà. […] La realtà ti fa sentire il profumo delle persone e delle cose») e cerca di coglierne tutte le possibilità espressive, viscerali e vitali, che giacciono inascoltate nelle sue stesse pieghe.


Bibliografia

De Gaetano F. (1999): Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma.



Titolo:
Bagnoli Jungle
Anno: 2015
Durata: 100'
Origine:
Italia
Colore: C
Genere: DOCU-FICTION
Specifiche tecniche: Full HD
Produzione:
ESKIMO, ENJOY MOVIES

Regia: Antonio Capuano

Interpreti:
Antonio Casagrande (Antonio), Luigi Attrice (Giggino), Marco Grieco (Marco), Olena Kravtskova (Olena), Sarahnaomi Attanasio (Sara), Angela Pagano (signora Sgueglia), Gea Martire (una suora)
Sceneggiatura: Antonio Capuano
Fotografia: Antonio Capuano
Montaggio: Diego Liguori

http://www.youtube.com/watch?v=v2F_zDXRCjU

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