bagheadtopChad, Matt, Michelle e Catherine sono quattro aspiranti attori che decidono di passare un weekend in uno chalet di montagna per scrivere la sceneggiatura di un film di cui saranno anche i protagonisti. Le idee però scarseggiano e i ragazzi sono presi più dalle loro vicende sentimentali che dalla stesura del copione. Fino a quando Michelle non fa uno strano sogno: un uomo con la testa coperta da un sacchetto di carta. Matt convince allora gli amici a prendere ispirazione da questo episodio per farne il soggetto del film. Ma un vero killer con la testa nascosta in una busta, che si aggira nei dintorni, li spaventerà a tal punto da costringerli, prima a barricarsi in casa, e poi a una disperata fuga nel bosco…




 Che cosa è il cinema indipendente americano oggi? Tale branchia appare molto più indefinibile e sfuggente di qualche decennio fa, complici anche la rivoluzione del digitale, la “smania” del racconto realistico e, non ultimo, i contraccolpi della crisi economica sull’industria della celluloide. Ciò che forse lo identifica di più nel frastagliato panorama “indie” è il mumblecore, nome sotto il quale rientra un certo tipo di cinema statunitense, che intorno al 2005 ha iniziato a diffondersi grazie a festival come il Sundance.
A inizio film, l’attore Jett Garner ne enuncia sinteticamente i principi dopo la proiezione del suo We are naked: budget ultrabasso (costo inferiore ai mille dollari); uso del digitale, spesso non ritoccato, per contenere le spese e quindi non per una scelta estetica o teorica (ha usato la mini DV dei genitori); location casalinga e luce naturale; improvvisazione («Quando la mattina ti alzi, sai già quello che dirai durante la giornata?» - domanda al pubblico il regista. «No. Perché allora farlo in un film?»); tecnica della “mimetizzazione”, le persone riprese non sapevano di essere filmate.

Da questa “lista” restano fuori altre caratteristiche precipue del sottogenere in questione, ovviamente date per scontate dal film-maker: 1) la scelta di un soggetto che sia frutto del vissuto dei protagonisti; 2) la centralità del dialogo rispetto all’azione (il termine più appropriato sarebbe “chiacchiericcio” o borbottio); 3) la non professionalità della recitazione; 4) la dinamica delle relazioni e dei sentimenti di giovani di età compresa tra i 25 e i 35 anni.
Le prolungate e quasi estenuanti fasi del “mumble”, in cui appunto si parla molto e quasi sempre di argomenti di poco interesse, per non dire insignificanti (anche nel cinema di Cassavetes, Morrisey e Warhol, fatte naturalmente le opportune distinzioni, la “colloquialità” tendeva spesso a prevalere sulla storia) diventa qui funzionale ad un desiderio di narrazione in tempo reale che accorci il più possibile la distanza tra schermo e spettatore.

In Baghead, tutto ciò è arricchito da una non banale considerazione sull’arte di fare cinema, in particolare quando si hanno a disposizione pochi mezzi. Lontani dalle logiche produttive di Hollywood, nel loro secondo lungometraggio i fratelli Duplass provano a riabilitare il valore dell’”idea” che, per quanto semplice, domestica ed amatoriale, intercetta un’ampia fascia di pubblico affamata di “realitysmo” (che sia televisivo o della rete non fa differenza), e di tutti i suoi ingredienti: gelosie, amori, presunti tradimenti e vendette.
L’auto-riflessività dell’opera si concreta nelle tappe della lavorazione: dall'incontro fra “sceneggiatori” (si chiedono: «Che cosa possono fare quattro personaggi che convivono in uno stesso ambiente?»), alla scrittura delle scene, mediante bigliettini che si passano l’un l’altro. Alla fine, la trama verrà man mano a comporsi grazie agli scherzi che i quattro amici si fanno a vicenda, con l’intento di spaventarsi.
La simulazione della realtà nel film viene spinta fino all’estremo, decretando un risultato inquietante. La messa in scena orchestrata da Matt assieme al regista Garner (che ha una videocamera nascosta dietro la “maschera” di cartone) è sì utile al racconto, ma finisce per sconfinare nella tragedia nel momento in cui il suo amico Chad viene investito da un auto e rischia di morire.

Ecco allora che la linea di demarcazione tra verità e finzione (sono convinti di aver visto il loro amico aggredito dal killer con un coltello, mentre era solo un’arma giocattolo!) si fa molto più labile di quanto non si possa immaginare. L’incidente, da cui si innesca un’imprevedibile serie di reazioni emotive, fungerà proprio da evento spartiacque, che ristabilisce le iniziali dinamiche relazionali e porta alla luce la forza dei sentimenti e dell’amicizia.
Un’altra singolarità del film è rappresentata dal fatto che si assiste di continuo ad un rapido e sapiente mescolamento di generi e toni. Si passa infatti dal dominante horror, stile The Blair Witch Project (dove il topos della casa viene rovesciato: da “spazio del pericolo” diventa nascondiglio sicuro), alla commedia rosa, quasi demenziale. E ancora: dal mockumentary, al dramma umano, quando per esempio i ragazzi si ritrovano di notte in mezzo al bosco, provati dalla fatica per aver percorso 18 km a piedi, e naturalmente dal terrore, dopo il faccia a faccia col mostro.

C’è da sottolineare, infine, un discorso interessante sul concetto di “paura”, il cui effetto tende a moltiplicarsi in virtù dell’auto-ironica operazione meta-cinematografica: questa viene provocata ad arte, da un regista “occulto”, esclusivamente per i protagonisti della pellicola fittizia; allo stesso tempo, però, chi guarda partecipa di quella sensazione. Che è ancora più straniante, perché lo spettatore, soffocato da quelle inquadrature molto ravvicinate (rese da continue e maldestre zumate della camera digitale a mano), non sempre riesce a distinguere la realtà fattuale dall’escamotage narrativo.
In ragione della sua forte “impressione di autenticità”, derivata anche da una colonna sonora sporca con frequenti rumori di fondo, è giusto collocare Baghead in quel filone di film dell’orrore, o comunque collegati a questo genere, «che hanno cercato di rivitalizzare la forma dando al contenuto un aspetto più aspro o più direttamente audiovisivo». (King, 2006, p. 212).


Bibliografia

 

King G. (2006): Il cinema indipendente americano, Einaudi.





Titolo: Baghead
Anno: 2008
Durata 84
Origine: USA
Colore: C
Genere: COMMEDIA, HORROR
Specifiche tecniche: PANASONIC AG-HVX200, HD, 35 MM (1:1.85)
Produzione: JOHN E. BRYANT, JAY DUPLASS, MARK DUPLASS, JEN TRACY PER DUPLASS BROTHERS PRODUCTIONS

Regia: Jay Duplass; Mark Duplass

Attori: Ross Partridge (Matt); Steve Zissis (Chad); Greta Gerwig (Michelle); Elise Muller (Catherine); Jett Garner; Anthony Cristo     
Soggetto: Jay Duplass; Mark Duplass     
Sceneggiatura: Jay Duplass; Mark Duplass     
Fotografia: Jay Duplass     
Montaggio: Jay Deuby

Reperibilità

 http://www.youtube.com/watch?v=MeuzArlYyT0


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