attenberg_1Marina ha 23 anni e insieme alla sua amica Bella decide di avvicinarsi al genere umano (come in quei documentari sugli animali di David Attenbourgh) e in particolare al sesso fino ad allora tenuto a distanza con l'aiuto della sua amica/rivale Bella. Intanto assisterà alla lenta morte di suo padre, Spyros ( malato terminale) in una Grecia uggiosa e decadente.

La Grecia è un’alba miope, assomiglia a una caduta, e il mare è chiuso dalle tende di una camera d’albergo, macchiato come un residuo da un pianto scritto sui vetri di una m.d.p.

Athina Rachel Tsangari ha raccolto bave, fiati di una resistenza umanistica che trova le sue radici nell’occhio-scorcio di Theo Angelopoulos, poeta di una terra che lo ha attraversato per portarselo via come una premonizione, come ”le ossa del mondo che rotolano fino al mare” (Tonino Guerra). Attenberg semina sfondi comuni, tracciati, su cui raccogliere grumi, pareti scrostate, degradate come fossero perdite o solitudini nella Grecia che non trova strade dritte o primavere da cui ripartire (quel vano moto del Volo) perché è necessario “scacciare i vermi” (dice Spyros in Attenberg) per non ridursi a vuoto ma “ritrovare quell’umanesimo che solo può migliorare il mondo” (T. Angelopoulos, in un’intervista rilasciata alla Rai, pochi giorni prima di morire).

Marina si indaga, vuole staccarsi da questa mattanza sociale riflessa nel paesaggio industriale rugginoso e decadente, frutto di un passato assordante, del brusio delle macchine (in tutto simile a quello alienante di Deserto Rosso) che ha spezzato ogni senso umano per una comunicazione monca, distorta: così la stessa macchina dis-umana (di coercizione) che incontriamo in Dogtooth (di Georgos Lanthimos), sforna un linguaggio vissuto in superficie perché non r-esiste una consecuzione tra significato e la sua immagine acustica, essendo quest’ultima, il significante, vuoto come anche lo stesso dialogo padre-figlia, in Attenberg, si riduce a pura meccanica dei suoni in cui botta e risposta assomigliano più ai colpi di racchetta in una partita di ping-pong che ad una reale condivisione. Dogtooth non ammette pertugi, penetrazioni (sarà poi la scoperta del valore sessuale, del desiderio attraverso il canale delle immagini di Flashdance e Rocky a rompere la gabbia; la febbre della carne del cinema che è quindi spinta verso esistenze altre, stimolo di vita), ma questi corpi-personaggi si muovono a tentoni: li vediamo giocare a moscacieca nel loro recinto verde, in un ambiente che risulta essere di gomma come una realtà fittizia (la stessa materia che coprirà giardini e vialetti suggeriti a stracci dalla stessa Tsangari). Marionette insomma nelle mani di un padre-padrone o, nel caso di Alpis (ultimo film di Lanthimos), involucri patinati dello spettacolo e che, fuori di esso, risultano essere goffi, svuotati. 


Attenberg è esplorazione di un corpo che muore (Spyros, il padre malato terminale) e di una pelle che nasce (Marina, la figlia) sotto la spinta di dune-scapole, pronunciamenti alla vita, un desiderio sepolto e che adesso si manifesta nell’incessante volontà di capire l’uomo, albero apparso in sogno che pulsa d’organi “eretti, lattiginosi e succosi (…) come se respirassero”, animali osservati e studiati a distanza come se ci si trovasse in un documentario di quel Sir David Attenborough di cui Bella non sa pronunciare il nome. E proprio quest’ultima inizia la timida Marina al bacio, alla confidenza del tatto della bocca; ed entrambe appaiono prive d’ogni espressione facciale per riempire invece il corpo di movimenti e andature teatrali, quasi fanciullesche: il loro aggredirsi sull’erba come fossero oranghi o sfilare a braccetto nella sera piovosa mentre cantano di essere “come i ragazzi e le ragazze della mia età”, quegli stessi che fanno da sfondo al loro incedere lento entro cui suonano melodie degli anni ’70 (dei Suicide o di F. Hardy), che parlano di speranze “senza paure del domani”: sono coreografie apparentemente senza senso, gesticolazioni innocenti che cercano di tracciare, nel contemporaneo deteriore, brulicante nella sua sorda noia, ipotesi di senso.

Marina divarica gli occhi per un germoglio che cresce a fior di pelle in ogni scapola. Il suo inizio, una vita nuova finalmente fuori dal guscio, a contatto con l’altro, l’uomo che prima se ne stava distante e appeso nel suo afrore sessuale, agli alberi del sogno; è uno sfondo bianco da ricreare; non può, infine, come il padre, essere “un residuo tossico del modernismo”: lei è il vento che piano condurrà lontano la sua cenere (la sua morte) e con essa la Grecia del passato, le sue “rovine” nel mare; per poi dal mare ripartire, perchè non ha frontiere ma solo orizzonti che non trovano la fine “come un cerchio che si conclude per iniziare ancora” (T. Angelopoulos).  Quel mare che ora tace di fronte “all’isteria” borghese e appare a sprazzi nelle immagini di un ricordo fatto di sole (Marina, Spyros e Bella stesi o forse portati alla riva), nella supplica di un ritorno alle parole svanite, alla Poesia, allo spazio umano andato perduto e “accarezzato con gli occhi” (magari dell’Eternità e un giorno), incontrato nell’abbraccio ultimo di due fratelli o di due amanti in quel confine (ancora angelopoulusiano) che è «la riva di un giorno» (D. Campana) e che separa vita e morte, infanzia e vecchiaia dell’apicoltore, il ricordo e, magari, un ritorno, ancora: Il volo.



 
Titolo: Attenberg
Anno: 2010
Durata: 95'
Origine: Grecia
Colore: C
Genere: drammatico
Produzione: HAOS FILMS, BOO PRODUCTIONS, FALIRO HOUSE PRODUCTIONS, STEFI S.A., GREEK FILM CENTER

Regia: Athina Rachel Tsangari

Attori: Ariane  Labed (Marina); Vangelis  Mourikis (Spyros); Evangelia  Randou (Bella); Yorgos  Lanthimos (Ingegnere)
Fotografia: Thimios Bakatakis
Montaggio: Sandrine Cheyrol e Matthew Johnson

Reperibilità 


http://www.youtube.com/watch?v=nhYDwdof6FE

 

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