aita

Aita è la successione di svariate inquadrature fisse intorno e all’interno di una vecchia villa basca del Tredicesimo secolo, disabitata e morsa dal logorio del tempo, ereditata dal regista Josè Maria De Orbe. Un anziano custode se ne prende cura estirpando i rovi abbarbicati sulle persiane, rigovernando il giardino, tarantolando da un corridoio ad un altro e da una stanza all’altra nell’avvicendarsi di buio e luce.



- Non vive più nessuno nella casa – mi dice - ; tutti se ne sono andati. Il salone, la stanza da letto, il patio, giacciono disabitati. Nessuno resta, dopo che tutti sono partiti.
Ed io ti dico: Quando qualcuno se ne va, qualcun altro resta. Il punto da cui è passato un uomo, non resta solo. Solamente resta solo, di solitudine umana, il luogo da cui nessun uomo è passato. (…)
Tutti sono partiti dalla casa, in realtà, ma tutti sono rimasti in verità.
E non è il loro ricordo ciò che resta, ma loro stessi. E non è neanche che loro restino nella casa, ma che continuino in essa. (…) I passi se ne son andati, i baci, i perdoni, i crimini. Ciò che continua nella casa è il piede, le labbra, gli occhi, il cuore.

César Vallejo (tratto dal poema No vive ya nadie en la casa)


Attraversare una casa vuota è un passaggio doloroso per chi un tempo ne ha respirato l’odore del legno della mobilia, lo stantio della credenza, l’afrore di chiuso e di concia negli armadi, l’impronta di vino puntualmente sulla tovaglia alla domenica; per chi ha sentito il pomeriggio allontanarsi al cigolio di una porta o di una spagnoletta, la caffettiera sbuffare sul fuoco, il pendolo condurre l’ora fin dentro ai sogni.

Aita è la successione di svariate inquadrature fisse intorno e all’interno di una vecchia villa basca del Tredicesimo secolo, disabitata e morsa dal logorio del tempo, ereditata dal regista Josè Maria De Orbe. Se egli abbia vissuto in questa casa, se l’abbia attraversata quando la vita pulsava al suo interno e nel vasto giardino non è dato saperlo con esattezza. Possiamo affermare però che una casa vuota non è mai una casa vuota: sulla scorta delle immagini trattenute nello stivaggio della memoria inevitabilmente si finisce per imprimere sulle pareti vecchie foto di famiglia, intercettare dal ricamo che corre lungo il soffitto il tintinnio delle posate sui piatti di porcellana, voci e spettri di bambini rincorrersi da una stanza ad un’altra.

Aita muove senza dubbio dalla tradizione realistica e documentaristica del cinema iberico. Scorgendo il suo travagliato corso si scopre che l’urgenza del vero risuona come un’eco nelle schioppettate della guerra civile richiamando al fronte anche illustri cineasti stranieri: non posso evitare di citare Joris Ivens, autore, con l’ausilio della penna di Hemingway e di Dos Passos, di quella pietra miliare che è The Spanish earth (1937). Persino Bunuel, insospettabile, visto il visionario connubio con Dalì sul finire degli anni Venti, respirato il vento di un’imminente crisi interna, sterza verso il realismo con Terre sans pain (1933). Di lì in poi il baratro: quarant’anni di regime franchista, il dipartimento nazionale di cinema, la censura. Solo alla morte del caudillo, alla fine degli anni Settanta, si riprenderà in mano il filo della Storia rispolverando il turbolento periodo della guerra civile con La vieja memoria (1979) di Jaime Camino. Gli anni Novanta segnano la svolta: depurandosi dalla scorie di un cinema engagè, il documentario s’affranca finalmente dalla controversa e sanguinosa storia del paese con Victor Erice, Josè Luis Guerin e, miscelandosi alla finzione, con Pablo Llorca e Marc Recha.

Ed è proprio nell’intercapedine di questa solida e ultima evoluzione che si inserisce De Orbe. Se nel primo lungometraggio, La linea recta (2006), appare legato alla narrazione, alla sceneggiatura, al corpo attoriale, in Aita tende a sgomberare il campo da queste strutture precostituite e a incontrare il vero. Un vero che reclama il cinema come spazio a sé stante. Difatti, un poco alla maniera del Josè Luis Guerin di Tren de somabras, il regista lascia che si riversino sulla parete di una stanza da letto, lungo le scale di un probabile ingresso, sulle piastrelle lucide di una cucina e sulle ante di un armadio a muro, frammenti di vecchie pellicole. Il cinema invade gli spazi relegati al rituale del quotidiano disancorando il reale dalla sua forma contingente.

«Ovunque io guardi, c’è luce», queste le parole del custode al suo amico. Unica certezza nel nero di un universo labirintico e spettrale, alleata del tempo, la luce, s’insedia per durare nel ricordo. Il custode ne è inseguito, ossessionato, sostiene, lontano e vicino allo stesso tempo a quell’Antonio Lopez, pittore ne El sol del membrillo, che tanto agognava a ritrarre la posa di un raggio di sole tra i rami del cotogno.

La luce, è lei la vera protagonista di Aita, se non di tutta la storia del cinema? 
La domanda sembra custodire in seno la risposta. (Forse non esistono domande - o per lo meno le si incontrano di rado - ma solo affermazioni desiderose di retorica che fronteggino il peso del nulla?). Forse non ci resta che schiudere le palpebre e spalancare le finestre alla maniera di una macchina da presa che s’apre sul flusso scintillante e ineffabile del mondo, che proprio come il cinema, è luce.



 

Titolo: Aita
Anno: 2010
Durata: 85
Origine: Spagna
Colore: C
Genere: Documentario
Produzione: Luis Minarro, Roger Torras

Regia: Josè Maria De Orbe

Attori: Luìs Pescador (il custode), Mikel Goneada (il prete).
Sceneggiatura: Josè Maria De Orbe, Daniel V. Villamediana
Fotografia: Jimmy Gimferrer
Montaggio: Josè Maria De Orbe

Riconoscimenti


http://www.youtube.com/watch?v=eFANCW3J6fM

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