Ah, il piano sequenza! Per decenni i critici di tutto il mondo si sono accigliati adirati accapigliati su questa prodigiosa tecnica di ripresa, sull’opportunità, addirittura sulla eticità nell’utilizzarla o meno. Si ritiene infatti che girare un film, o parte di esso, in piano sequenza sia un tributo troppo grande da pagare alla componente tecnica, appunto, a tutto discapito della componente artistica, che avrebbe difficoltà a scaturire dalla narrazione e dalla interpretazione attoriale. Sarebbero – narrazione e interpretazione – subordinate all’unità di tempo imposto dalle riprese ed alle dinamiche imposte dalla macchina da presa, che gira e inquadra senza interruzione.
Come se tecnica e arte fossero antitetiche, nel cinema. Non è un caso che il primo sfavillante utilizzo del piano sequenza, con un trucco ma senza inganno, rechi la firma di Alfred Hitchcock, colui che per decenni è stato banalizzato dalla critica, ridotto al rango di artigiano, salvo poi assurgere al meritato status di maestro in tempi troppo recenti. Il fatto è che il piano sequenza, o del girare un intero film o parte di esso senza soluzione di continuità, riduce se non elimina la funzione demiurgica del montaggio, della postproduzione. Impattando sul montaggio, impatta sulla natura stessa dell’essere cinema (Eisenstein?), sulla religione del cinema, quindi genera reazioni forti. Le stesse reazioni, appena meno veementi, si riscontrano quando un regista gira un film in un formato pressoché originale, penso a Dolan con il formato quadrato, 1:1 per il suo Mommy. Anche nel caso di Dolan, il ricorso ad una tecnica intrusiva, che mostra la mano prima ancora che l’occhio del regista, viene percepito dai più come una prepotente invasione di campo (del campo degli spettatori). Per tornare al piano sequenza, il fine ultimo è precipitare lo spettatore dentro la realtà delle immagini. In modo immersivo, per usare l’aggettivo oggi più in voga. Questo vale per il cinema, il grande schermo, la sala. E per le serie TV? Anche nel campo della serialità televisiva, esistono esempi di utilizzo del piano sequenza, più o meno fulgidi. Scorsese in Boardwalk Empire, Fukunaga in True Detectives, Coen in Fargo, Cuaron in Believe, Flanagan in Hill House. Grandi registi cinematografici, che hanno messo la loro maestria tecnica al servizio di un formato necessariamente ridotto – lo schermo TV – allo scopo di divertirsi e di divertire. A chi guarda da casa, viene chiesto di emergere dal divano per immergersi esperienzialmente nella visione. I piani sequenza in tv sono stati di durata variabile, pochi i casi in cui interi episodi siano stati girati in questo modo. Pochi fino ad Adolescence, una serie instant cult, di più, un must, un nome già iscritto nella storia del piccolo schermo.
Adolescence si basa su un’idea pericolosa ma vincente. Non è un true crime, infatti, ma un almost true crime. Non è né vuole essere la ricostruzione, derivata da cronaca, atti processuali, testimonianze, di episodi di cronaca nera realmente accaduti, quindi veri. È invece la rappresentazione di un episodio di cronaca nera che probabilmente potrebbe accadere nelle modalità rappresentate dalla serie: un episodio, quindi, quasi vero. Verosimile.
Siamo nel campo dei knife crime, le aggressioni gravi a colpi di coltello. Soltanto a Londra, negli ultimi due anni, sono ventotto gli adolescenti uccisi da coetanei a colpi di coltello. Ma sono migliaia le aggressioni non mortali, in tutto il Regno Unito. Stephen Graham, insieme a Jack Thorne, ha cominciato a scrivere proprio dopo aver letto uno, due, tre articoli di cronaca nera sul tema. Alcuni giornali britannici, l’autorevole Guardian tra questi, riportano come ispirazione diretta per Graham un caso in particolare, occorso nel 2023. Quello della quindicenne Elianne Andam, uccisa a coltellate dal diciasettenne Hassan Sentamu, nei sobborghi di Londra. Nelle cronache si fa riferimento a motivi futilissimi alla base dell’omicidio, pare una rissa per la restituzione di un orso di peluche da parte di una ex fidanzata. Non si fa invece riferimento all’infanzia difficile dell’omicida, arrivato dal Ruanda all’età di 5 anni, con un passato di abusi ed una diagnosi di autismo. Diciassette anni l’assassino, quindici anni la vittima. Graham quindi, molto probabilmente, trae spunto da questo ed altri episodi, e con libertà artistica abbassa l’età dei suoi tragici protagonisti, da quindici e diciassette a tredici anni: non più bambini, non ancora pienamente adolescenti. La regia della serie viene affidata a Philip Barantini, che aveva diretto Graham nello splendido Boiling Point, film per il grande schermo girato con un unico piano sequenza. Il progetto Adolescence è di fare un’intera serie, una miniserie di 4 episodi, in piano sequenza. La motivazione è evidente: trattandosi di almost true crime, il piano sequenza serve ad abbattere le barriere tra piccolo schermo e spettatore, è insomma un propulsore per la sospensione dell’incredulità. Si sta dentro le vicende, nell’unità di tempo, e non c’è stacco o montaggio che permetta di rifiatare e di pensare che quella che scorre non è la realtà, ma una rappresentazione verosimile di una realtà possibile. Il piano sequenza colloca lo spettatore sulla scena, dunque. In una successione di episodi cronologicamente conseguenti all’assassinio, ma distanziati tra loro. Ciascun episodio, altro colpo di genio di Graham-Thorne, è di genere differente. Il primo coniuga l’action al legal-thriller: è l’alba, la polizia irrompe brutalmente nella casa del giovanissimo omicida e lo porta in commissariato, dove poi, climax dell’intera serie, viene mostrato da uno schermo di pc, come una ripresa in campo lunghissimo, il video dell’assassinio. Il secondo episodio, che deve molto a Elephant di Gus Van Sant, così come a Donnie Darko di Richard Kelly, è il viaggio dei detective al termine della notte, cioè nella scuola frequentata da vittima e assassino: un luogo dove regna il caos, la rabbia, l’incomunicabilità. Qui avviene la rivelazione del movente, in maniera invero molto poco plausibile: il figlio del detective, alunno della scuola, prende da parte il padre ed in due minuti gli spiega le interazioni social tra vittima ed assassino. Fa riferimento ai reciproci commenti e post su Instagram che i due si erano scambiati, illustra al genitore cosa significa essere Incel, cosa è la pillola rossa, cosa la teoria dell’80/20. Il terzo episodio è un kammerspiel, un dramma teatrale: l’incontro/scontro nel carcere minorile tra il reo ragazzino e la psicologa comportamentale, in un crescendo di tensione e rovesciamento dei ruoli. Il quarto episodio è un family drama, l’elegia dell’assenza, l’elaborazione del lutto: la vita della famiglia dell’assassino, distante in quanto recluso, rappresentata in un giorno di non ordinaria follia, con genitori e sorella a cercare uno squarcio di serenità mentre tutto frana. Questi, tutti in piano sequenza, collocano lo spettatore sulla scena ma gli richiedono lo sforzo straniante di assumere volta per volta identità diversa: nel primo episodio, lo spettatore è un poliziotto? Nel secondo, è un educatore, un alunno, un detective? Nel terzo, cosa ci fa lo spettatore nella sacra camera caritatis di una seduta psicoterapeutica? Nel quarto, lo spettatore è l’assente dalla famiglia, è l’assassino? Domande alle quali chi guarda risponde in modo ovviamente implicito, con entusiasmo partecipativo, il più delle volte, o alienazione insofferente, in sparuti casi. L’assenza di un montaggio, di stacchi, l’esautorazione della mediazione imposta dal mezzo cinema (o TV) scatena questi ed altri interrogativi, anche etici, ma il 99% di gradimento su Rotten è un plebiscito, è segno che il pubblico adora Adolescence per come è fatta e per quello che racconta.
Il fatto è che Adolescence è concepita per essere sorbita tutta d’un fiato, o tutta d’uno sguardo, da spettatori educati al consumo compulsivo di serialità, sovente avvezzi al binge watching (la visione di tutti gli episodi in un’unica soluzione). In questo senso è una serie magistrale. Soprattutto il pubblico di età adulta, diciamo dai trenta in su, ne viene incantato, irretito, rapito, dilaniato. Dal punto di vista contenutistico, è la solita vecchia storia dell’incomunicabilità tra le generazioni, aggiornata ai tempi dell’inferno del web e dei social, di quel mondo sordido e irto di pericoli nel quale i ragazzini nativi digitali pascono e crescono, a volte deviano e uccidono o restano uccisi. Un’operetta morale, nella quale nessuno è veramente innocente e nessuno è veramente colpevole, anzi, a ben guardare, colpevole sarebbe chi non si sforza di capire, chi non lotta contro le forze del male 4.0: i genitori, gli educatori. Adolescence punta il dito, eccome se lo punta. Solo che lo fa in modo maldestro, quasi reazionario. La Rete può essere un pericolo per i ragazzini, questo è probabile, ma quello che è certo è che la Rete è un problema per gli adulti, spesso incapaci di coglierne contenuti con capacità di analisi. Il trionfo mondiale delle tecnodestre sta a dimostrare questo, in effetti. L’aumento esponenziale dell’analfabetismo funzionale, tra persone scolarizzate, sta a dimostrare questo, in effetti. Anche solo rimanendo alla cogenza, all’istantaneità del tema trattato – l’aumento dei crimini da coltello in Gran Bretagna –, una semplice ricerca su Google (benemerito web?) permette di scoprire che il trend di omicidi continua ad essere in discesa, soprattutto tra i minorenni, e che quel tipo di reati vengono compiuti in situazioni di grave disagio economico e sociale, in un contesto ben differente dalla working class operosa e socialmente attiva cui appartiene la famiglia rappresentata nella serie. Certo, ci sono i propalatori di misoginia in Rete, c’è l’“inceldom”, la “manosfera”, è tutto molto pericoloso, ma sempre Google permette di scoprire come la Gran Bretagna abbia dei programmi ministeriali obbligatori, all’avanguardia rispetto ad altri Paesi Europei, per insegnare l’educazione sessuale e relazionale nelle scuole medie inferiori e superiori, con focus sulle relazioni social. Non proprio «the worst place to grow and live», insomma. Per usare le parole di Roy Menarini: «il problema è far diventare una serie una specie di manifesto sociologico invece di un costrutto estetico ed audiovisivo». Quello che di fatto è avvenuto, con i media, on e off line, e gli influencer pure, a cavalcare la tigre del fomento spettatoriale e a lanciarsi in dossier scritti in fretta e furia sulle nuove insidie della Rete. Bisognerà aspettare che le acque si calmino, per parlare serenamente, anche in chiave critica, del fenomeno. Quello che è certo, qui ed ora, è che la serialità britannica su piattaforma è all’avanguardia nel trasformare tematiche di impatto sociale (ad es. Baby Reindeer) in prodotti vendibili e fruibili da un pubblico larghissimo ed eterogeneo. Tanto all’avanguardia, che in patria se ne valuta la ricaduta negativa, con canali di informazione generalista e tradizionale quali la BBC, e in certa misura 4Channel, incapaci di competere a livello di risorse, impossibilitati a proporre inchieste/approfondimenti giornalistici, sempre molto costosi. La potenza di fuoco e di budget delle piattaforme, Netflix, Apple TV, Amazon Prime, orienta il pubblico a fruire della contemporaneità ma sempre in ottica commerciale, venduta cioè un tanto al chilo, altro che il vecchio caro servizio pubblico. Anche questo è uno dei lati oscuri, uno dei più pericolosi, dell’ubiquità di Internet di oggi, e di domani.