Una telefonata di Candy, splendida “puttana” meticcia, certa, dopo la morte di un carissimo amico, di essere la prossima vittima, riporta, a distanza di 30 anni, João Rui Guerra da Mata a Macao. Un viaggio che crede lo farà tornare indietro nel tempo, ai giorni più felici della sua vita. Ma lì non trova più alcun punto di riferimento, la trasformazione ha cancellato qualsiasi traccia della colonizzazione. La città è una quinta barocca, ché non cessa di modificarsi e cambiare forma sotto i nostri occhi.
«Saudade! Gusto amaro di infelici,
Dolce puntura di agreste rovo,
Tu trapassi il profondo del mio petto
Con un dolore che lacera l'anima,
Ma dolor dilettoso, Saudade!»
Almeida Garrett
Il “Morrais” - Diccionario da lingua portugueza - alla voce Saudade riporta così: «[…], malinconia causata dal ricordo di un bene del quale si è privati; pena, dolore provocato dall'assenza di qualcuno o dell'oggetto amato; ricordo dolce e simultaneamente triste di una persona a noi cara; secondo alcuni […], è priva di corrispettivo in altre lingue».
In italiano viene generalmente tradotta come nostalgia. Parola inadeguata, ma, come fa notare Tabucchi, «soprattutto troppo giovane per un termine così antico come Saudade. Semmai, se proprio volessimo andare in direzione nostalgica, meglio tornerebbe all'uopo il 'desío' dantesco, che nello strazio reca una tenera dolcezza, visto che quel desío (a cui l'ora volge) intenerisce il cuore» (Tabucchi in Domenichelli 2003, p.350). Ma della parola desío si è perso l'uso. Oggi lo si chiamerebbe struggimento. Forse.
Necessitiamo di parole, precise come proiettili, che fissino risolutivamente i sentimenti in costrizioni di significato che ci possano permettere di controllare i dissidi e i tremori delle nostre emozioni.
Sarà per questo che A Última Vez Que Vi Macau, di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, seduce e intimorisce allo stesso tempo. Perché è una sinfonia brumosa, irriducibile alle categorie di genere; un congegno misterioso e astratto, ammantato di solitudine e abbandono, nel quale aleggia, appunto, una saudade, una dolce malattia che consuma con surrettizia delicatezza. Ma la parola «è qualcosa di più di tutto questo: quasi una categoria dello spirito che non si trova altrove […], una Stimmung che costituisce anche un labirinto nel quale i portoghesi sono penetrati (o si sono rifugiati) senza riuscire a trovare più una via d'uscita» (Ivi.). Questo è Macao, un luogo ipotetico, sfuggente, cangiante; possibile solo cinematograficamente. Un dedalo di memorie personali (quelle di Guerra da Mata) attraversato da reminiscenze cinefile (quelle di Rodrigues – su tutte L’avventuriero di Macao di Von Sternberg, ma anche Un bacio e una pistola di Aldrich, e Il bacio della pantera di Tourneur) messo in scena, e dunque reso plausibile, per mezzo d’immagini di fattura documentaristica. È un film d’amore sui ricordi e un film di ricordi sull’amore. Traiettoria di questo spazio ideale è un lacunoso complotto noir, scosso da foschi umori apocalittici; ma questa è solo una delle infinite storie che quell’archivio d’immagini custodisce.
I due autori estremizzano le teorie bressoniane sull'economia della forma e sulla densità dei contenuti e consegnano l’intera narrazione fuori-campo. Premessa al ricorso a questa figura del discorso filmico è l’affermazione di Deleuze per cui «lo spazio e l’azione eccedono sempre i limiti del quadro». Prendendo le mosse da quanto già affermato da Bazin circa il potere centrifugo del cinema, che si struttura proprio in funzione dell’invisibile ed in virtù del quale personaggi e cose sembrano attirati da un centro di attrazione che è fuori dall’immagine, oltre i bordi e i lembi dello schermo, Rodrigues e Guerra da Mata realizzano un’opera scentrata, tutta giocata sulle possibilità estreme di decentramento, facendo quindi del fuori-campo un vero e proprio centro di gravità esterno allo schermo. Dimensione misteriosa ed ineffabile, il fuori-campo di A Última Vez Que Vi Macau da relativo (designante qualcosa che esiste altrove, ma comunque vicino o intorno – la sparizione di Candy) si fa assoluto (testimonianza di un altrove più radicale, che rinvia a presenze più lontane nel tempo o nello spazio, più universali).
Un’opera che rientra a pieno titolo nell’arte del non vedere di cui parla Merlau-Ponty, cioè di quella tensione verso l’invisibile in quanto potenziale nascosto che determina e costruisce il visibile, e per questo minacciosa, perché «il fuori-campo testimonia di una presenza più inquietante, di cui non si può dire che esiste, ma piuttosto che “insiste” o “sussiste”, un Altrove più radicale, fuori dallo spazio e dal tempo omogenei» (Deleuze 2000, pp.30-31).
Bibliografia
Tabucchi A., L’araba fenice. Tentativo di definire a un amico una parola indefinibile, in Domenichelli M. (a cura di) (2003), Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani - Letture e Riflessioni Critiche (vol. 1), Vecchiarelli Editore, Roma
Deleuze G. (2000), L'immagine-movimento, Ubulibri, Milano
Titolo: A Última Vez Que Vi Macau
Anno: 2012
Durata: 85
Origine: PORTOGALLO, FRANCIA
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Specifiche tecniche: DCP (1:1.77)
Produzione: BLACKMARIA ed EPICENTRE FILMS in coproduzione con LE FRESNOY, STUDIO NATIONAL DES ARTS CONTEMPORAINS
Regia: João Pedro Rodrigues; João Rui Guerra da Mata
Attori: Cindy Scrash; João Rui Guerra da Mata; João Pedro Rodrigues
Sceneggiatura: João Pedro Rodrigues; João Rui Guerra da Mata
Fotografia: João Pedro Rodrigues; João Rui Guerra da Mata
Montaggio: Raphaël Lefèvre; João Pedro Rodrigues; João Rui Guerra da Mata
Riconoscimenti
http://www.youtube.com/watch?v=YbqLRng3uMA