La persuasione dell’attesa, della possibilità che filtra dalle finestre chiuse, dello sguardo che si spalanca al mondo, al desiderio del mondo, si staglia dall’orizzonte del visibile, al passo col tempo, della musica delle parole e della vita fuori campo: «Per ogni estatico istante dobbiamo pagare un’angoscia, in pungente e tremante rapporto con l’estasi. Per ogni ora d’amore, aguzze elemosine d’anni, amari spiccioli contesi e scrigni colmi di lacrime». Dopo la prigione dei moniti, l’autoritarismo dei precetti, dell’accademia puritana del terrore che si compie, amputando nell’intimo l’aspirazione all’esistenza: si sfanno file di ragazze ordinatamente, ferma al centro la macchina da presa sulle figure silenti, fino al volto di Emily, rimasta nel mezzo dell’inquadratura in una ribellione coraggiosa, che arde quieta.

 
E da lì trafigge come spilli il sole arrivato dai vetri, attraversando le spalle, le braccia, la nuca trepidante, amaro come la bellezza: è morte, o è vita, che penetra nella stanza vuota, la tragedia sullo sfondo di un infinito che fa paura. È A quiet passion, presentato alla Berlinale nel 2016,  ora distribuito in Italia da Satine, e in anteprima al Cineporto di Bari per la rassegna “Registi fuori dagli Sche(r)mi” . Qui l’occhio di Terence Davies, posandosi sull’oggetto filmico secondo una modalità di intensificazione dei segni nella messa a nudo delle tecniche del montaggio, indugia – come già in Distant voices still lives (1988) per mezzo dell’uso evocativo della fotografia a riversarsi nell’interiorità dei personaggi, poi nell’altra opera seminale The long day closes (1992) per l’insistenza delle riprese dall’alto a restringersi sulle persone – sprofonda nell’espressività dei volti e delle cose, nella loro storia: che è racconto lirico, laddove i movimenti di macchina eseguono ellissi, cerchi (visivamente, non solo tecnicamente, evidenziati dai parasole che girano in una delle sequenze con la signorina Vryling Buffam), tracciano traiettorie orizzontali e rimandano ad altro; al tempo, e alle possibilità che la Dickinson chiude fuori, drammaticamente impedendo a se stessa di vivere oltre la notte, nella passione delle sue lettere e poesie grondanti di grazia, di Dio, nella ricerca della sua luce proprio mentre ad esserne percepita è l’assenza.

La biografia della poetessa statunitense è presentata, ri-creata dal rigore formale, a volte spinto all’eccesso per esasperazione semantica: la portata poetica delle visioni, il ripetuto aprirsi e chiudersi delle porte, le scale percorse e ripercorse al buio, la voce extradiegetica in accordo con gli archi, oppure con lo stridore dei cuscini pervasi dall’agonia, rispondono al criterio di contrazione e dilatazione onirica della materia, delle forme. L’isolamento voluto dal poeta, che è donna, che non si lascia imbrigliare dalle regole, dalle costrizioni sociali e religiose, che trova nella scrittura, nella parola poetica al chiuso di una stanza illuminata da un barlume fioco o dal crepitare del fuoco, l’unica alternativa all’oscurità, alla prigionia delle convenzioni, alla disperazione, alla resa: come per la passione del bambino per il cinema in The long day closes, qui è la passione per la poesia che si fa vita, ribellione, libertà (corre sullo schermo la mano che cuce, sigillandola, la lettera appena scritta, della quale ascoltiamo l'inquietudine: «Reputo, se mi metto a contare, primi i poeti, poi il sole, poi l’estate, poi il cielo di Dio e poi la lista è fatta. Ma ripensandoci, i primi sembrano proprio comprendere il tutto. Gli altri sembrano un’inutile esibizione, così scrivo, poeti e basta. La loro estate dura un anno intero. Possono permettersi un sole che l’Oriente riterrebbe esagerato. E ammesso che il cielo finale sia bello come quello che dischiudono a coloro che li venerano, è una grazia troppo ardua per giustificare il sogno»).

E sono luoghi ricorrenti nella precedente filmografia la tematica religiosa, l’oppressione della figura paterna, quando non si configuri come violenza, la tenerezza e le contraddizioni degli affetti familiari, il susseguirsi in cadenza dei cortei; lo spalancarsi in ralenti delle porte, l’irrompere dall’esterno delle nuvole, della luna; le ombre che percorrono come in un sogno gli spazi, i raggi del sole che segnano il fluire del tempo, e della memoria, restando  la macchina da presa di Davies spesso ferma sui personaggi, sui loro volti, sull’angoscia, persino fino al grido soffocato nella gola delirante.

Il movimento nell’immagine modula una realtà intensamente cercata nell’espressività dei personaggi, dei loro sguardi (dove si scruta nella vertigine degli occhi, oppure scorrendo sui corpi dilaniati dalla guerra, immortalando le bandiere consunte in un’allegoria del dolore collettivo), poiché soltanto in apparenza il linguaggio del regista è articolato secondo la meccanica classica della narrazione: non lo è in effetti quando il discorso sul tempo si snoda nelle maglie della lentezza, a volte dell’immobilità persino, dei piani sequenza simili a fotografie – significativo, a questo proposito, il restringersi del campo dal padre al figlio, alla figlia, a Emily che invecchiano nella fluidità che si estende dello zoom – oppure mentre il doppio occhio della macchina, attraversando la finestra della stanza da cui la poetessa assiste alla partenza definitiva del padre, in basso file nere, mute in processione, o osservando attraverso la portiera, come fosse un altro obiettivo, della carrozza durante la partenza (anche qui verso la morte) della zia Elizabeth.

Ma è nell’impressione, nella traccia impressa appunto con la fotografia che blocca il tempo e paradossalmente lo accelera, la rivelazione che nasce dal moltiplicarsi del vedere e che erompe dalle cose: che sono, per contiguità fisica, ontologica a un umano, troppo umano che sfugge e tende, a modo proprio, al divino, la fiamma del lume sullo scrittoio, il fuoco urlante nel camino, dell’anima che rinuncia, o forse deve rinunciare, all’amore. È anche in questa chiave, del dischiudersi sofferto di una possibilità remota, che il regista accenna alla probabile infatuazione della Dickinson per il reverendo Wadsworth, già sposato, in un biglietto che la protagonista gli ha donato, con una poesia che l’ha messa a nudo, “probabilmente”, perché non ci è dato sapere quale scritto vi fosse impresso su quella carta, quale darsi al mondo.

Ed è questo duplice soffermarsi sugli oggetti e sugli uomini, da parte di un Davies tornato alla congruenza estetica di quei due film già testamentari; indugiare sul propagarsi a dismisura delle inquadrature nella circolarità dei movimenti a mettere in atto la distanza, la potenza, la forza dell’arte: che sembra essere oltre, altro. Ed è già visione.


Filmografia

Distant voices still lives (1988)

The long day closes (1992)

 

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