Vanna Carlucci - Gianfranco Costantiello

low_tide_minervini2Il modo di girare così calato nella drammaticità del reale ricorda i film dei fratelli Dardenne (d’altronde ho letto che alcuni componenti della truppa dei Dardenne hanno lavorato per questo suo film), ma penso anche al Truffaut de I quattrocento colpi e, soprattutto, al Rossellini di Germania anno zero (nella maniera in cui l’autore è insieme al personaggio). Crede che questi registi abbiano influenzato il suo lavoro? O ce ne sono altri che sente più vicino?

Con Marie-Hélène Dozo, che ha montato tutti i film dei fratelli Dardenne, siamo molto amici e ci frequentiamo anche quando non lavoriamo insieme. Suo marito, Joao Leite, è il produttore dei miei film. Per Low Tide si sono poi aggiunti Julie Brenta (montaggio suono) e Thomas Gauder (missaggio), anche loro stretti collaboratori dei Dardenne. Ciò nonostante, credo che tra i nostri film ci siano grandi differenze, sia formali che sostanziali. I Dardenne partono spesso da un’idea fittizia attorno alla quale costruiscono personaggi e luoghi che, sinceramente, non rappresentano la realtà da cui provengono i Dardenne stessi, vale a dire la Vallonia. I miei film hanno come punto di partenza luoghi e persone reali, ai quali adatto la mia storia, cercando di coglierne e di rappresentarne al meglio le proprie idiosincrasie. Ed è proprio in questa mia ricerca dell’autenticità che m’ispiro principalmente a Rossellini.
Ci terrei inoltre a citare Lav Diaz, che ammiro profondamente per avere il coraggio e l’ambizione di raccontare la(e) storia(e) delle Filippine, un film, un’ora, un fotogramma alla volta. Anche a me piacerebbe raccontare, film dopo film, la(e) storia(e) della vera faccia dell’America, quella del profondo Sud.

 


Nei suoi due lungometraggi (Low Tide, The Passage) è evidente la scelta di riprendere i due protagonisti spesso alle spalle (Low Tide) o mostrando i loro profili in penombra (The Passage). Sembra che i suoi personaggi vengano completamente annientati dal vuoto che li circonda e nascondano per questo la loro luce (che forse riappare ogni volta che c’è un loro diretto contatto con la natura). È stato un modo di procedere puramente formale o c’è anche il tentativo di far parlare più il corpo (nonostante il corpo appaia mutilo di espressioni)?

In entrambi i film ho lasciato alla macchina da presa (e quindi a Diego Romero Suarez-Llanos, direttore della fotografia e operatore di macchina) libertà assoluta per quanto riguarda i movimenti sui set (che poi è un non-set, giacché giriamo in posti frequentati e vissuti dai protagonisti, a noi poco familiari). Di conseguenza, il modo di riprendere ciascuno dei protagonisti è dettato dai protagonisti stessi. Ad esempio, in Low Tide abbiamo a che fare un bambino abbandonato a se stesso, fisicamente ed emotivamente. La macchina da presa funge, quindi, da angelo custode del bambino. Pertanto, ho richiesto esplicitamente che tutti i movimenti di camera, seppur fatti in libertà, venissero fatti “in punta di piedi” e con la massima discrezione. Ecco perché spesso seguivamo il bambino da dietro, oppure di fianco, e comunque sempre dall’alto (evitando il confronto “faccia a faccia” con lui). In The Passage i protagonisti sono tre persone di mezza età in fuga da se stessi, senza una meta precisa (fatta salva qualche tappa intermedia) e costantemente in affanno. La macchina da presa riflette tale inquietudine e segue i personaggi con apprensione e indugio, trovandosi spesso a disagio nel caldo insopportabile del deserto dell’Ovest texano (spesso la celluloide si surriscaldava e la camera s’inceppava…). I movimenti sono rapidi e nervosi e, più che a seguire, ci troviamo a inseguire i protagonisti.

Penso che in entrambi i casi, il mio compito principale sia stato non tanto quello di far parlare i corpi dei personaggi, bensì di ascoltarli. E per far ciò ho dovuto mettere da parte ogni mio preconcetto circa il modo di eseguire le riprese, dal punto di vista sia formale che teorico. Ho lasciato che il tutto fosse dettato dalle circostanze. Questo modo di lavorare è stato un processo molto difficile ma al tempo stesso liberatorio.


The Passage e Low Tide terminano, dopo un lungo peregrinare, con l’approdo del/dei protagonista/i sulla spiaggia. Quale valore simbolico ha la spiaggia/sabbia nel suo cinema?


Provengo da un paesino sulla costa Adriatica, quindi sono cresciuto a stretto contatto con il mare e la spiaggia sabbiosa. Ricordo ancora quando mi mettevo in piedi in riva al mare e sentivo i miei piedi affondare nella sabbia (e non nell’acqua), sempre più giù, onda dopo onda. Pensavo che in alto mare me la sarei cavata, ma sul bagnasciuga mi sentivo in pericolo. Spesso mi chiedevo anche quante materie organiche e inorganiche si nascondessero nella sabbia, a quanto Dna umano si sarebbe potuto trovare tra i granelli rocciosi…
La spiaggia di The Passage è un punto di arrivo, seppur transiente. Quella di Low Tide è una superficie instabile sulla quale non si può restare a lungo. Penso comunque che, in entrambi i casi, il lungo pellegrinaggio dei protagonisti abbia come destinazione finale non tanto la spiaggia, quanto l’acqua. E di acqua purificatrice nei miei film se ne vede tanta…


La strada. Che valenza simbolica le ha dato? In Low Tide è un circuito chiuso, quasi una trappola il “viaggio” che madre e figlio affrontano nella loro vita (casa-ospizio-casa) come se non ci fosse altra via d’uscita se non il mare; in The Passage, il viaggio è quasi una via crucis che la protagonista affronta per cercare una via di fuga dalla morte. In entrambi i casi può avere un significato più ampio? Un documentare lo stato delle cose, di povertà e decadimento sociale dell’America d’oggi?

La strada è per me una via d’uscita, l’illusione dell’infinito. Lo è per gli americani da decenni e lo è ancor di più dall’11 Settembre 2001, che ha segnato l’inizio della paura generalizzata di volare. Da quel giorno, gli americani hanno iniziato a prendere coscienza di quanto vasto e sconnesso sia il territorio del proprio paese. E le grandi highways, come la I-90 e la I-10 (che passa per il Texas) sono tornate ad essere simbolo di fuga e speranza.
Si, è vero, in Low Tide troviamo la strada a circuito chiuso, che il bambino percorre (suo malgrado) con la mamma. Ma questa è la strada degli adulti (asfaltata) e non quella del bambino. La sua strada è quella dei campi, non asfaltata e quindi (simbolicamente) non ancora contaminata dagli adulti, piena di animali, dove egli si sente al sicuro. Anche il bambino, come Ana di The Passage, tenta di sfuggire alla morte, perché per i bambini l’amore dei genitori è una questione di vita o di morte. I bambini che vivono il trauma dell’abbandono dei genitori sono colti dalla paura di morire (che, guarda caso, è una paura infantile).


È curioso come le cose siano cambiate nel tempo: mentre in passato girare negli Stati Uniti era un punto d’arrivo (penso ad Antonioni o a Visconti), per lei, oggi, è un punto di partenza. Oramai vive da diversi anni negli Stati Uniti. Crede che sia difficile fare cinema oggi in Italia? Come percepisce il cinema italiano? Ci sono registi che le interessano? Le è mai venuto in mente di tornare e girare un film?

In Italia girerei volentieri, ma non per fare un solo film. Per me è fondamentale approfondire lo studio di un particolare soggetto o realtà, e un lavoro del genere non si può compiere con un solo film. Quindi dovrei pensare a un body of work di almeno qualche film, e per far ciò ci impiegherò del tempo. Nel prossimo futuro penso di girare un altro film nel Texas (a dire il vero ne ho già girato uno, attualmente in postproduzione) e un documentario in Argentina.
Attualmente non esiste regista italiano che si faccia portavoce della realtà in cui vive, e la cosa mi rattrista molto, specie se penso al periodo storico che l’Italia sta attraversando da vent’anni. Dalle macerie della Seconda guerra mondiale nacque Rossellini. E da quelle del basso impero Berlusconiano… il nulla. Francamente, sono sbalordito.