Matteo Marelli

caraxin-holymotorsIl cinema non è mai morto. Perché il cinema non è MAI STATO. Non è mai esistito in una sua fisionomia immutabile. Ognuno sa cos’è e per ognuno è diverso. Se due lo pensano uguale si stanno fregando. Troppo facile piangerne la scomparsa e intellettualmente disonesto redigere accorati necrologi celebranti la cerimonia di un addio: avere una posizione passatista significa dimostrare un accanimento parassitico nei riguardi di un’idea di cinema già da altri teorizzata. Non occorre trincerarsi dietro facili (o difficili…) certezze ideologiche preconfezionate, ma tentare di comprendere il cambiamento per elaborare risposte adeguate.



Come continua, con coerente perseveranza, a fare il Filmmaker Festival (30 novembre - 9 dicembre 2012). Più che una rassegna, un laboratorio sperimentale dove confrontarsi con strategie audiovisive complesse che portano in uno spazio liminale, punto di fusione fra situazioni private e pubbliche esperienze, zona di confine fra pulsioni interne e immaginari collettivi esterni, fascia potenzialmente feconda di riscrittura dei codici culturali. Liminalità che, in quanto flusso dialogico tra gli opposti, viene a legarsi al concetto di eccesso, da considerarsi come tentativo di superare un limite: come quello di far cortocircuitare gli strumenti e i mezzi della prassi documentaristica con quelli della fiction, per provare a codificare un ibrido spettacolare finalizzato a battere vie inedite, nuovi modi per vedere e farci vedere di più e meglio.

Limite ed eccesso rappresentano, dunque, le caratteristiche alla base dei film selezionati dalla manifestazione, anarchico caleidoscopio non rispondente alle logiche tradizionali e di mercato. Il programma di quest’ultima edizione del Filmmaker Festival è stato dedicato a opere interessate a ridefinire l’esperienza cinematografica all’interno del continente visivo. Ciò che si è visto è un modo differente di guardare e di percepire il mondo e di organizzare la percezione; un’intersezione radicale delle nuove possibilità della visione, ognuna intenta ad affermare il diritto/dovere di immaginare un altro cinema.

Su tutti (ovviamente secondo chi scrive) A Última Vez Que Vi Macau di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata. Sinfonia brumosa, congegno misterioso e astratto ammantato di solitudine e abbandono, nel quale aleggia una saudade, una dolce malattia che consuma con surrettizia delicatezza. Ma la parola «è qualcosa di più di tutto questo: quasi una categoria dello spirito che non si trova altrove […], una Stimmung che costituisce anche un labirinto nel quale i portoghesi sono penetrati (o si sono rifugiati) senza riuscire a trovare più una via d’uscita» (Tabucchi 2003, p. 350). Questo è Macao, un luogo ipotetico, sfuggente, cangiante; possibile solo cinematograficamente. Un dedalo di memorie personali (quelle di Guerra da Mata) attraversato da reminiscenze cinefile (quelle di Rodrigues), messo in scena, e dunque reso plausibile, per mezzo d’immagini di fattura documentaristica. Traiettoria di questo spazio ideale è un lacunoso complotto noir, scosso da foschi umori apocalittici; ma questa è solo una delle infinite storie che quell’archivio d’immagini custodisce.

A seguire Mekong Hotel di Apichatpong Weerasethakul; frammento di un progetto in divenire: Ecstasy Garden. In un hotel lungo le sponde del Mekong, a confine col Laos, in uno spazio mai cicatrizzato, sempre abbattuto dalle inondazioni, si intrecciano le narrazioni di due fidanzati, di una coppia di artisti, di una madre-vampiro, colpevole della propria essenza, ma nonostante ciò incapace di non mangiare la propria figlia. Anche qui, come sempre accade nel cinema di Apichatpong, si «transita nell’aporia del tempo. […]. Di fronte ai suoi lavori ci si ritrova im¬mancabilmente dispersi in un terreno vago fatto di passato a venire, futuro anteriore, presente abitato da una me¬moria non necessariamente soggetti¬va, fantasmi di vite trascorse, presenze da esistenze venture, incombenze di luoghi ancestrali e figure della mitolo¬gia popolare» (Causo 2012, p.131). Quello a cui da forma Apichatpong è uno spazio multidimensionale; egli lavora sulla costruzione della quarta dimensione filmica, dove la logica della sostituzione (caratteristica del cinema) lascia il posto alla logica dell’addizione e della coesistenza. Il tempo diventa spazializzato, si distribuisce sulla superficie dello schermo. Ogni palmo del film è pieno di emergenze, di eventi che nascono e si dileguano, senza però che ci siano zone privilegiate. La sua è un’idea di montaggio spaziale che non deve dimenticare nulla, che non cancella nulla. Cinema non tanto della percezione, quanto della memoria.

Su un versante diametralmente opposto, ma infiammato dalla medesima ansia di rinnovamento, si posizionano i lavori di Leos Carax, Holy Motors, e di Miguel Gomes, Tabu.
Il primo spinge alle estreme conseguenze la destrutturazione delle forme, vera e propria dominante culturale della sensibilità postmoderna. Carax costruisce un calembour filmico giocato «sulla frammentazione schizofrenica, la molteplicità, la serialità, sulla proiezione di sempre nuovi punti di vista» (Cesarani 1997, pp.84-85). Protagonista è un soggetto dalle molteplici forme, privo d’identità distintiva, che ha rinunciato alla propria immagine originaria per interpretare i giochi dei tanti volti assunti. Un corpo impalpabile teso a definirsi nel momento dell’appropriazione del ruolo di volta in volta assegnatogli. Un «ombrofago che si libera della propria ombra divorandola, […] divenendo pellicola neutra facilmente impressionabile da qualsiasi caratteristica di genere» (Naldi 2003, pp. 52-53).

L’altro ha trovato la propria cifra interpretativa, il proprio modello e la fonte di legittimazione del proprio agire nell’immagine nuda e primigenia del cinema muto delle origini. Termine di riferimento è Tabù di Murnau. Ma Gomes non ha mai pensato di reduplicare, di compiere una trascrizione meccanica dell’originale. Il suo è un gesto che comporta un’identificazione totale con l’autore. Non nel senso che voglia diventare Murnau, ma arrivare a Tabu attraverso le proprie esperienze. Non un’operazione nostalgica, ma un atto fondativo: ricominciare daccapo alla luce di quanto già fatto. Il regista si appropria del motto dechirichiano: occorre essere originari piuttosto che originali: invertire il vettore, dirigerlo verso il passato, a patto di non evocarlo in modi pigri e conformi (cfr. The Artist di Michel Hazanavicius), ma discontinui. Il film di Gomes è un reboot dell’esperienza cinematografica.
Limite ed eccesso ritornano declinati in sovrastante potenza espressiva in Leviathan di Véréna Paravel e Lucien-Casting Taylor, documentaristi interessati a cogliere, lungo il transito di un peschereccio (che ripercorre la navigazione solcata dal Pequod nell’inseguimento di Moby Dick), il riflesso di quei tracciati aventi come unica coordinata geografica il profitto predatorio mosso da logiche di sfruttamento consumistico. Un’imponenza visiva ottenuta attraverso il massimo assottigliamento dello strumento di ripresa: l’impiego di una dozzina di MiniCam waterproof, lanciate, legate, passate di mano dai pescatori ai registi. Immagini di una forza incontrollabile perché clamorosamente casuali, affidate a una sorta di moderno occhio meccanico vertoviano. I registi si sottraggono alla ripresa affidandosi quasi completamente allo sguardo disumanizzato delle minicamere. L’innovazione estetica dei contenuti e della forma è diretta conseguenza delle caratteristiche tecniche del mezzo.

A controbilanciare l’estrema immersività sensoriale di Leviathan è la retrospettiva dedicata ad Allan King che garantisce una non meno profonda immersività sentimentale. Autore di una prassi documentaristica amatoriale, secondo l’accezione che Stan Brakhage dava al termine, ovvero nel senso di vicinanza ed empatia ai soggetti ripresi; come quella dimostrata agli adolescenti di Warrendale, più esposti ai disagi emotivi. King li ritrae senza patetismi, non arretra di fronte ai taciti principi morali ordinari, che vedono nella malattia, nella diversità, un simbolo di debolezza e li mostra affrontare la loro problematicità con disarmata aggressività.
 
È un cinema piratesco quello a cui dà spazio il Filmmaker Festival; autentica provocazione all’omologazione, alla standardizzazione formale di tanti prodotti cinematografici realizzati a getto continuo, strutturati su caratteristiche prestabilite, rispondenti a precisi canoni compositivi, vera e propria forma di dittatura seriale, occulta e pervasiva. Un cinema corsaro, com’è addirittura titolata una delle sezioni della manifestazione. Progetto che ha riunito quattro cineasti italiani (Giovanni Maderna, Mauro Santini, Giovanni Cioni, Tonino De Bernardi) attorno alla figura e all’opera di Salgari: termine di riferimento da cui partire per battere vie inedite del mezzo cinema, facendo cortocircuitare finzione e documentario, messa in scena e vita.

Appurato di essere in un nuovo corso, una fase in cui viene a mancare il medium di riferimento, come era stato il cinema almeno fino alla fine del secolo scorso; messi di fronte a molteplici esperienze, molteplici schermi e molteplici forme di realizzazione audiovisiva, come continuare a fare critica? Se lo sono chiesti Adriano Aprà, Roy Menarini, e Carlo Chatrian nel corso della tavola rotonda If…Immagina il futuro del cinema, moderati da Daniela Persico e Alessandro Stellino, selezionatori del Filmmaker e fondatori di FilmIdee.it. Sono emerse due posizioni forti, antinomiche: da un lato la provocazione di Aprà che, come di recente Luca Malavasi, sulle pagine di «Cineforum» (n. 517, La vita analogica del critico digitale), rimprovera, soprattutto, alla nuova critica (nello specifico quella online) di essere ancora fastidiosamente narratologica, non ancora in grado di smarcarsi dal primato logocentrico e, nonostante le potenzialità offerte dal digitale, incapace di restituire l’incommensurabile ricchezza dell’immagine (il cinema come non scrivibile per eccellenza). Conclusione inevitabile: l’unico modo nuovo di analizzare un film è fare un altro film: un critofilm. Dall’altro Chatrian recupera la lezione di Serge Daney, del critico come passeur, traghettatore, e quindi di un’idea di critica come altro rispetto al film, operazione di scrittura capace di creare uno spazio in cui il cinema come tale possa esistere. Perché le immagini, sosteneva Daney, di per sé non sono nulla se non le si prosegue in discorso, sono appunto mere immagini. Sforzo e bellezza della critica, continua Chatrian, è di cercare di tradurre, l’immagine/tempo in una parola.
Per quanto affascinanti queste sedute di autoanalisi rischiano però la deriva solipsistica. Come fattomi notare, a riguardo, da Alessandro Baratti: «ancora una volta si riproduce l’antica e vieta dicotomia tra apocalittici e integrati di echiana memoria. Esiste il superamento, che diamine!».
A Filmmaker va dato atto di aver assecondato la tendenza alla translinguisticità, la manomissione degli apparati di produzione dell’immagine, al fine di saggiarne limiti e possibilità. Il bisogno di intervenire sull’orizzonte della visione per sperimentare. Per concludere:
    
                                                CINEMA IS NOT DEAD. WE ARE.

 


Bibliografia

Abiusi L. (a cura di) (2012): Il film in cui nuoto è una febbre. Registi fuori dagli scheRmi, CaratteriMobili, Bari.
Causo M. (2012): Apichatpong Weerasethakul. Misteriosi oggetti della Memoria, in Abiusi L. (a cura di) (2012).
Cesarani R. (1997): Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino. 
Domenichelli M. (a cura di) (2003): Onore di Remo Ceserani. Letture e Riflessioni Critiche, Vecchiarelli Editore, Roma, vol. 1.
Naldi F. (2003): I’ll be your mirror. Travestimenti fotografici, Cooper&Castelvecchi, Roma.
Tabucchi A. (2003): L’araba fenice. Tentativo di definire a un amico una parola indefinibile, in Domenichelli M. (a cura di) (2003).



Filmografia

A Última Vez Que Vi Macau (João Pedro Rodrigues, João Rui Guerra da Mata 2012)
Holy Motors (Leos Carax 2012)
Mekong Hotel (Apichatpong Weerasethakul 2012)
Tabu (Miguel Gomes 2012)
The Artist (Michel Hazanavicius 2011)