fass«Non conosco altra persona, oltre a me, che insegua con tanta disperata ostinazione quell’utopia probabilmente infantile e impudente che si chiama amore (queste parole, signori miei, bastano a smascherarsi, non è così?), e che affronti angosciosamente sempre le stesse dolci amare esperienze. Ma l’esperienza non serve mai…»: così scrive Fassbinder (in Crucciani 2010) in un breve intervento su Werner Schroeter. Quello sguardo, sempre sull’orlo di una depressione fatale, lascia intuire come per lui l’amore costasse fatica; tanta, da risultargli, alla fine, essere addirittura più freddo della morte.

 

«Il problema – per Fassbinder ‒ è che c’è sempre una classe che vuole educarne un’altra, un uomo la sua donna, un uomo un altro uomo: sempre questo rapporto di educazione, questo rapporto servo-padrone, molto da guru. Un rapporto che è quasi fascista» (Fassbinder in Grant 1974, p. 55). Ai suoi occhi l’urgenza d’amore finisce per trasformarsi, ogni volta, nella sottomissione del più debole al desiderio dell’altro.
Per Fassbinder non esiste “democrazia” nei sentimenti, ma solo un’applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo; lo studio del funzionamento della dialettica servo-padrone applicato all’amore rispecchia le logiche di sfruttamento capitalistico, i modi della sua riproduzione. Le crudeli dinamiche del rapporto amoroso, quel continuo e dilaniante gioco di potere attorno a cui si costruisce ogni relazione sentimentale, sono sottoposte ai principi del dominio e del possesso, gli stessi che regolano le più generali leggi dell’interazione sociale nell’era del trionfo del capitale. Emigrati, omosessuali, prostitute, vecchi, drogati, terroristi, banditi, ruffiani, proletari, piccoli borghesi; tutti cercano nello specchio dell’altro la propria identità. Anime fiammeggianti che bruciano sia dal bisogno di affermare la propria individualità che dal desiderio di annullarsi, condannandosi, così, all’alienazione e alla sofferenza.

Una spietata analisi debitrice del melodramma sirkiano, della «ragnatela dei rapporti e dei ricatti affettivi che intorno al sentimento si tesse» (Ferrario 1983, p. 32) da questo messa in scena. «Dopo aver visto i film di Douglas Sirk mi convinco sempre di più che l’amore è lo strumento migliore […] più insidioso ed efficace di oppressione sociale […]. Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola e perché sia costretta a farlo […]. Nessuno dei protagonisti si rende conto che tutto, pensieri, sogni, desideri, deriva dalla realtà sociale e ne viene manipolato. Non conosco nessun altro film dove tale verità sia stata formulata in modo così netto e disperato» (Fassbinder in Ferrario 1983, p. 32). Fassbinder intuisce che attraverso il modello offertogli dall’opera di Sirk può riuscire a spostare le problematiche dello sfruttamento e dell’oppressione dal piano sociale a quello privato, stravolgere la prospettiva storica filtrandola con la lente deformante della passione. Per mezzo del metro sentimentale, attraverso i disastri affettivi, le ossessioni private, l’insopprimibile bisogno d’amore, egli cerca di interpretare la società. Per Fassbinder «non solo il melodramma spiega la storia, ma è la Storia a essersi ormai impossessata del melodramma attraverso i suoi meccanismi di dominio» (Menin 2002, p. 32). Egli fa delle dinamiche dello spirito il riflesso privato delle tensioni che scuotono il sociale.
Nelle mani del regista «un genere tradizionalmente conservatore come il melodramma cambia di segno e diventa funzionale alla denuncia della crisi dell’individuo nella società capitalistica» (Fedrizzi 2002, p. 59). La grandezza del suo cinema sta nel fatto che i classici stati d’animo melodrammatici ‒ la delusione, l’angoscia, la disperazione – non sono semplicemente derivanti del menage erotico-sentimentale, ma sono conseguenti «all’analisi dei ruoli sociali e alle loro dinamiche, da cui prendono vigore» (Vernaglione 1999, p. 40). Il melodramma fassbinderiano non è evasione, fuga, ma riflessione; e a chi osa nutrire dubbi sull’apparente contraddittorietà che esiste tra un genere così artificioso e la volontà di rappresentare il reale, il regista ha sempre ribattuto: «Qualsiasi storia di vita che abbia a che fare con qualcosa di simile a una relazione è un melodramma e perciò credo che i film melodrammatici siano film corretti» (Fassbinder in Ferrario 1983, p. 33).

La riflessione fassbinderiana non si traduce in ricattatoria dottrina dualistica manichea, ma dimostra come sia rintracciabile una circolarità nel rapporto vittima/carnefice. Nei suoi film la responsabilità della violenza non sta solo nelle mani di chi la impone ma anche in quelle di chi ne è fatto oggetto; coloro che si autorappresentano quali vittime di una certa struttura sociale diventano a loro volta oppressori, e quindi strumenti del mantenimento della medesima struttura. E infatti, «purtroppo la maggior parte degli uomini non è in grado di opprimere le donne in modo così perfetto come esse vorrebbero» (Fassbinder in Magrelli ‒ Spagnoletti 1989, p. 109). Per Fassbinder «la Donna dà origine al melodramma. È il melodramma» (ivi, p. 42). I comportamenti forzati delle sue eroine dicono molto di più del comportamento degli uomini, che preferiscono vivere come se tutto andasse bene. Le donne per il regista sentono in maniera molto più veloce, in modo più preciso, molto prima, che qualcosa non può funzionare, che non va. Non possono essere semplicemente definite oppresse poiché si servono a loro volta di questa condizione di inferiorità come di uno strumento di terrore. Per questo alla fine sono le figure più appassionanti: la loro sola presenza rende più evidenti i conflitti. Colpevoli vittime delle consuetudini, vittime di nodi d’amore che sono l’effetto di un potere soffocante e repressivo, le eroine fassbinderiane intuiscono le loro possibilità e i loro bisogni nondimeno accettano mentalmente l’ordine esistente attraverso le loro azioni, e di conseguenza lo rafforzano e lo confermano completamente. Queste sono fisicamente imprigionate in case, in interni che hanno la struttura di un labirinto, di una gabbia, in ambienti che, nella miglior tradizione melodrammatica, «sono sempre significanti rispetto all’azione, in appoggio o in opposizione, rivelandosi […] riflesso estensivo dell’identità del soggetto» (Stefanoni 1980, p. 277). I loro appartamenti non sono altro che diretta espressione delle regole di comportamento da osservare per viverci; strumenti di repressione di ogni spontaneità.

Fassbinder non registra con freddezza e impassibilità, è incapace di adottare cauti distacchi dalla materia che va trattando; «doveva vivere personalmente ciò che voleva trascendere artisticamente» (Bo in Spagnoletti 1992, p. 35). L’opera fassbinderiana è fortemente segnata dal percorso biografico del suo autore che «intrattenne per tutta la vita un forsennato monologo, un fitto scambio di sensazioni forti con gli aspetti patologici di sé» (ibidem); in essa egli si mette incessantemente in causa sia come persona, sia come artista, col coraggio di descrivere le bassezze e gli abissi umani esplorati personalmente con assoluta onestà: «naturalmente tutto questo fu utilizzato contro di lui. Fu accusato di essere il primo a mettere in pratica nella sua famiglia lavorativa […], tutte le malvagità e gli atteggiamenti da dominatore che denunciava con tanta lacrimosità nei suoi film» (ibidem). Ma questo querulo chiacchiericcio da gazzettieri a lui non importava, così come non deve importare a noi; quello che conta «è l’intero corpo dell’opera che ci si lascia dietro quando si scompare. È la totalità dell’oeuvre che deve dire qualcosa di speciale riguardo al tempo in cui è stata realizzata. Altrimenti è inutile» (Fassbinder in Ferrario 1983, p. 11).
Lui ci ha insegnato a sue spese che «se si ha l’amore in corpo non serve giocare al flipper. L’amore esige una tensione tale che non c’è più bisogno di rivaleggiare con una macchina, con la quale del resto non si può che perdere. […] Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno di ossigeno. Già – la macchina è il frutto perfetto della mente. Io ho deciso di ricominciare a giocare al flipper, e lascio vincere l’aggeggio, che importa, alla fine sono io che vinco».


Bibliografia

AA.VV. (2002): L’anarchia dell’immaginazione. Vent’anni dopo R. W. Fassbinder, catalogo del progetto Fassbinder, Ferro Edizioni, Milano.

Crucciani M. (2010): Rainer Werner Fassbinder. Maestri del cinema, in «CultFrame – Arti visive», http://www.cultframe.com/2010/11/rainer-werner-fassbinder 

Fedrizzi M. R. (2002): Conversazione con Daniel Schmid, in AA.VV. (2002).

Ferrario D. (1983): Rainer Werner Fassbinder, Il Castoro, Firenze.

Grant J. (1974): Entretien avec R. W. Fassbinder, in «Cinéma 74», 193, consultabile in Traina G., Ascesi all’inferno. Un anno con tredici lune di Fassbinder, in «ARCO Journal», e-journal del Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università di Palermo, http://www.arcojournal.unipa.it/pdf/traina_11_11_04.pdf

Magrelli E. ‒ Spagnoletti G. (a cura di) (1989): Tutti i film di Fassbinder, Ubulibri, Milano.

Menin R. (2002): La vita è una prigione all’aperto, in AA.VV. (2002).