quijoteLa storia della sua vita è la storia dei suoi libri. Alonso Quijano, ormai incapace di vivere un’esistenza al di fuori dei poemi cavallereschi, sottomesso alla propria folle visione, decide di partire alla volta di un viaggio visionario, per salvare fanciulle e combattere le iniquità. In virtù dell’epica avventura che lo attende si ribattezza Don Chisciotte della Mancia.


«Ho pensato che il Don Chisciotte finale
potrebbe considerarsi una specie di palinsesto»
(Jorges Luis Borges, 2005)

Il Don Chisciotte è un colossale intertesto, cioè esplica la propria forza semantica attraverso un rizoma di connessioni interpellanti altri testi. Come nell’utopia borgesiana di Tlön, è un libro “completo”, com’è dimostrato dalla vasta e complessa confluenza di generi e filoni letterari, nonché di registri linguistici custoditi al proprio interno. Il Don Chisciotte è un libro “totale” che compendia e rende intelligibile tutta la Biblioteca di Babele. Facendo nostro l’invito di Genette, dobbiamo pensare all’opera in termini di «struttura aperta», praticando una lettura che sia anche un gioco, che sia «relazionale» e «palincestuosa» perché, «se si amano veramente i testi, si avrà pure il desiderio, ogni tanto, di amarne (almeno) due alla volta» (Genette 1997, p. 469).
Di fronte alla mastodontica tradizione ortodossa di studi specialistici sul Don Chisciotte, così ricca che ormai da tempo tende ad alimentarsi di sé e da sé, producendo titoli che sempre più spesso prescindono (dandolo per scontato) dal confronto diretto con l’opera e si misurano quasi esclusivamente con l’interminabile carovana delle più autorevoli interpretazioni, Mimmo Paladino, deciso a confrontarsi con il testo di Cervantes, ha trovato la propria cifra interpretativa, sicuramente meno disciplinata e disciplinare, puntando proprio sul suo esibito non specialismo. Ha praticato una forma estrema e solo apparentemente ingenua di radicalismo filologico, cercando (e trovando) il proprio interlocutore, il proprio modello e la fonte di legittimazione del proprio agire nella coscienza critica del Don Chisciotte.

Il suo Quijote, presentato alla 63° Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Orizzonti”, si configura come una glossa del Don Chisciotte, cioè non come autonomo discorso sull’opera, ma come pratica interpretativa di un esegeta d’occasione che aspira ad essere continuatore di uno dei livelli di discorso contenuti nel testo.
Parafrasando Borges, Paladino non vuole comporre un altro Chisciotte ma il Chisciotte. Inutile specificare che egli non ha mai pensato a una trascrizione meccanica dell’originale: il suo proposito non è di copiarlo. La sua ambizione mirabile è di produrre alcune pagine che coincidano (parola per parola e riga per riga) con quelle di Miguel de Cervantes (Cfr. Borges 2005, p. 40). Ciò che il regista ha messo in atto è un processo di “mimesi assoluta” oppure “transustanziazione”, cioè, un’identificazione totale con l’autore. Non è tanto che Paladino voglia ottenere il suo obiettivo diventando Cervantes; egli rinuncia a questo approccio. Invece, vuole rimanere Mimmo Paladino e arrivare al Chisciotte attraverso le proprie esperienze. Il suo approccio è un tentativo intenzionale di ricreare ciò che in Cervantes fu un processo spontaneo.

Il regista elabora una messinscena che non tradisce il proprio percorso artistico. Paladino rifiuta l’avanguardia, che distrugge e trasfigura provocatoriamente il passato giungendo alla tela lacerata, al silenzio assoluto, alla pagina bianca. Un vicolo cieco di fronte al quale non si può andare oltre. Rimane conforme al principio teorico fondante della transavanguardia, di cui è stato tra i maggiori interpreti, e cioè la rivisitazione del passato, e con esso la scoperta di una molteplicità di tempi diversi, corrispondenti alle diverse epoche e culture, che si intrecciano tra loro e si stratificano. Non un unico tempo storico, lineare e progressivo, ma una nozione plurale di tempo, non un solo passato ma una rete complessa di “passati” diversi.
Ecco quindi che il suo personaggio (o forse, ancor meglio, il progetto di personaggio) di Don Chisciotte è senza uno spazio e un tempo precisato, smarrito in un contesto che non ha nessuna connotazione geografica, nomade di un immaginario senza soste o punti di ancoraggio e di riferimento. Lo sfondo è un paesaggio detritico, un luogo di lunghi echi, in cui riaffiorano segni personali, legati alla storia individuale, al proprio genius loci, e segni pubblici legati alla storia dell’arte e della cultura; un contesto che è il risultato di una rotta di collisione tra differenti possibilità espressive, incrocio di tanti incastri. Uno spazio talmente articolato che sarebbe da esplorare come una miniatura, mappa indecifrabile composta da appassionate predilezioni e tessuta di presenze ostinate e di citazioni ricorrenti. Paladino esalta quella che Domenico De Getano ha chiamato «profondità dell’immagine»: l’immagine nella sua globalità, nel senso della quantità di informazioni che riesce a convogliare, ad accogliere.

Nel Quijote a imporsi è un pensiero critico a dominante semiotica, in cui l’appartenenza del segno al sistema dei segni conta di più della sua equivalenza referenziale. Lo stesso Chisciotte è presentato come silhouette vista da lontano. «Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già trascritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose» (Foucault 2001, pp. 61-62). Il film di Paladino può essere definito oggetto indagabile in riferimento ai suoi elementi interni. E concentrandosi su questi ci si accorge che di fatto il Quijote è un’opera in cui vige la rifrazione, la moltiplicazione degli sguardi, delle cornici, delle rappresentazioni; in definitiva l’evidenza dell’artefice e dello spettatore coinvolti in un costante gioco di visibilità/invisibilità.

Ecco allora Paladino recuperare una delle questioni cardinali del capolavoro di Cervantes: il grande tema degli spazi di illusione. Se nella prima parte del romanzo il mondo è com’è perché così lo guarda e lo vede Chisciotte, nella seconda il mondo si sdoppia nell’illusione, e si afferma una concezione della vita come teatro: un teatro dove finzione e realtà s’incontrano e si confondono, non più dominabile, come quello organizzato e rappresentato sulla scena, ma condizionante. Come accennato, nel film c’è predominanza di superfici riflettenti, di conseguenza l’immagine che domina non appare mai come immediatezza, presenza pura, ma sempre come reduplicazione, moltiplicazione. Le immagini riflesse, come sostiene Paolo Bertetto, evidenziano «il carattere artificiale, fittizio dell’immagine filmica, il suo essere un prodotto illusivo […], evocano indirettamente la sua struttura di simulacro» (2007, pp. 136-37), poiché «dove l’immagine ripete se stessa perdendo il suo referente, il soggetto si dissocia, si fa portatore di una cifra allucinata dell’esistere» (Tone 2010, p. 19). «L’universo visibile è illusione, o ‒ più precisamente – sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli perché lo moltiplicano e lo divulgano» (Borges 2005, p. 8). In questo vertiginoso gioco di specchi che contengono altri specchi, la dimensione della rappresentazione si riflette in quella della follia di Chisciotte. Come dire che la pazzia è rappresentazione (e/o viceversa).

Quello che in Cervantes è poco più di un indizio, ovvero un’organizzazione della materia narrativa attraverso una costruzione di quadri-vicenda (l’autore offre una serie di episodi indipendenti, aventi in comune solo il protagonista), in Paladino è vero e proprio paradigma costitutivo. Nel Quijote la logica razionale viene stravolta da una struttura discontinua, obliqua, non lineare, dove tutte le cose appaiono improvvise, originali e strane, una forma cinematografica compressa e condensata che rifiuta il criterio della semplificazione, dell’esplicitazione dei significati, dell’esplosione in frammenti semplici. Il film produce un andamento ellittico fatto di sospensioni, inabissamenti, e si attesta su una traiettoria onirico-allucinatoria che anziché guidare lo sguardo dello spettatore, sembra disorientarlo di continuo su zone lacunose. Non c’è una storia lineare: il film procede attraverso sequenze senza altra relazione causale che non sia quella attribuita dallo spettatore, il destinatario ultimo. È lui ad essere chiamato a dare unità interna a un racconto solo apparentemente sfilacciato. È messo in una condizione di responsabilità. Complice sottile solito muoversi ai bordi della scena, è qui interpellato per contribuire alla riuscita di un film non del tutto autonomo, potenzialmente in-finito.



Bibliografia

Bertetto P. (2007): Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano.

Borges J. L. (2005): Pierre Menard, autore del "Chisciotte", in Id., Finzioni (1935-1944), Einaudi, Torino.

Foucault M. (2001): Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano.

Genette G. (1997): Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino.

Tone P. G. (2010): USA 1980-1989. Cinema d’autore ed estetica della tardamodernità, in La superficie e l’abisso. Percorsi culturali politici nel cinema americano degli anni Ottanta, a cura di E. Cassini, Aracne editrice, Roma.