taurusTerza puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov. Dopo il Faust (2011) e Il Sole (2005), il riavvolgimento del nastro prosegue inseguendo Toro (2001).







Parte prima: L’anima caduta

«A meno che i filosofi non regnino negli stati o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e valida filosofia, e non riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia e non sia necessariamente chiusa la via alle molte nature di coloro che attualmente muovono solo a una delle due, non ci può essere una tregua di mali per gli stati e, credo, nemmeno per il genere umano.»
(Platone, La Republica, V)


Caduta dal mondo delle idee, l’anima si incorpora in fissa, afasica dimora. Prigioniera di un corpo malato, sogna il sogno di un morto e tutto il monotono, verde nulla che esisterà dopo di lui. Sokurov deforma, rimpicciolisce e ridimensiona l’immagine di Lenin.
Come Faust, Hiroito e Hitler, Lenin non è che un’immagine vaga, l’apparizione di una bestia ferita, un mostro mitologico nei deliri di una febbre che tuttavia conserva un ricordo sbiadito del tempo glorioso in cui guidava, nello splendore di un cielo elettrico, il carro imperiale; è questa l’unica consolazione che gli resta nell’attesa di una fine immobile, non prevista, impossibile da calcolare. Il calcolo è prerogativa del sano, la via della guarigione, la leva che muove il mondo, la violenza che solleva gli affari; il chiodo fisso impiantato nel cervello, la condizione di afasia senso-motoria, l’imprigionamento sono, al contrario, la diagnosi di un corpo avvelenato. Tanto vale pretendere un’ultima sovrana richiesta dagli apparati del Partito incaricati della cura: un veleno risolutore che liberi dal corpo senza curarlo e che conservi intatta nella Storia l’immagine definita dell’auriga che l’ha guidata.

La consapevolezza della catastrofe impedisce il movimento, i corpi sono sempre presi nella spirale dell’impaccio, faticano a mantenere un equilibrio e si scontrano, si calpestano, si addossano, solo per sprofondare nel verde della terra e nascondersi all’ineluttabile volontà di sapere che regola uno stato ben governato. Ma la Russia è un continente vuoto non una madre accogliente: la tragedia del capo occupa tutti gli spazi, la storia manca di popolo e la rivoluzione voluta dalle gerarchie serve per «accarezzare la testa dell’uomo russo» non per risollevarlo dalla miseria.
Mefistofele è la sintesi di tutti i caratteri dei tre diavoli precedenti, che, fiaccati nel fisico e nello spirito, si appigliano a una sapienza senza virtù, unica aspirazione dell’uomo nuovo faustiano nato già vecchio e reduce della trasformazione di un mondo in rovine. Il tema è lo stesso di The Turin Horse: la bestia malata, immobile al centro del mondo che crolla, l’inazione come ultima reazione volontaria, il veleno, la polvere, una lampada che si spegne sul nulla atterrito, un candelabro acceso in pieno giorno a illuminare la fine di un sistema al collasso.
L’anima si schianta al suolo spinta dalle furie del cavallo indomito, ma, prima di atterrare, forse ha visto l’essenziale che necessita la ricerca, la pratica filosofica indispensabile al governo di uno stato giusto. E dopo averlo visto lo ha dimenticato, come il bambino che sente nella pioggia il canto degli angeli e crescendo non vede che l’elettricità del tuono, come l’uomo nuovo inchinato al più opportuno dio-progresso. L’anima, è chiaro, non serve più: merce di scambio di poco valore, anche nei voli magici di Tarkovskij si schianta nell’agonia di un cavallo in tumulto nella polvere (Andrej Rublev).
Il corpo del potere che tutto sapeva diventa corpo depotenziato e sempre sorvegliato a distanza. Accasciato in un angolo remoto della casa, assiste impotente alla sopravvivenza del mondo: il sole sorgerà ancora, altri corpi occuperanno un posto vacante: «la violenza non si può disarmare, è un assioma».

Parte seconda: L’ele(va)zione del corpo
«Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!»
(Marco 11, 17-19)

Sokurov inquadra dall’alto la testa abnorme sul corpo da bambino indifeso nella luce tagliente da lampada autoptica: «L’uomo non deve essere piccolo. Deve nascere subito grande», dice Lenin nell’atto della regressione. Tutta la seconda parte del film è infatti un’azione alla rovescia: il corpo paralizzato non si trascina, viene trasportato dalle due donne che lo assistono, visitato da esponenti del partito, da dottori e militari, interrogato da Stalin. Restare in vita per essere uno strumento nelle mani degli altri, significa aver perso tutto eccetto la malattia (è una delle due ancelle, Nadia, a ricordare a Lenin che non ha più nulla, ma che proprio per questo nemmeno la morte gli appartiene).

Lenin e Stalin sono esattamente due maschere tragiche consapevoli della finzione, rappresentanti di un’ideologia che sa di essere falsa coscienza e mistificazione volontaria della realtà, favola che deve prevedere un finale epico e che tuttavia non finisce ma si ripete nella sostituzione di corpi che conservano integro un potere necessario.
La parabola ha sempre un messaggio edificante: come nell’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio, Lenin acquista credibilità solo quando comincia a perdere la memoria e a distruggere le cose accumulate, a provare vergogna per la condizione di privilegio e a ricordarsi di un popolo che muore senza tempio e senza preghiera. È proprio il sentimento della vergogna a riportarlo a una dimensione umana e poi infantile; anche la terra torna ad essere madre, la verde origine della vita da dove si possono ascoltare i canti tra i tuoni, vedere uno spazio chiaro tra le nuvole. La Storia si ripete nelle storie in cui è l’atto finale a eternare la narrazione: il Potere che realizza un’apologia del comunismo distruggendo la proprietà borghese, cioè una proprietà diventata privata dopo averne deprivato il popolo, è l’inizio che non si riesce a immaginare. Le cose non possono sopravvivere alla sua fine: del corpo probabilmente resterà un’icona seriale, uno “spettro” appeso ai muri nelle case dei poveri; dell’anima (venduta) il ricordo di un impero ideale.
Nell’abbandono della storia, come foglia tra le foglie, ramo secco nel terreno, «nel tratto minimo di eternità che ci è dato» (Ghezzi in Sokurov 2009, p. 276) il corpo risana in un dialogo col cielo, nel lieto fine di una elevazione.



Bibliografia

Marx K. e Engels F. (2009): Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2009.

Platone (1971): La Repubblica, Laterza, Bari 1971.

Sokurov A. (2009): Nel centro dell’oceano, con una nota di E. Ghezzi, Bompiani, Milano.


Filmografia

Andrej Rublev (Andrej Tarkovskij 1966)

The Turin Horse (Béla Tarr 2011)

Toro (Telets) (Aleksandr Sokurov 2001)

(continua)