Con Hunger, il suo primo magnifico e stravolgente lungometraggio, il video artist inglese Steve McQueen procura allo spettatore una netta sensazione di abissalità; e, perfino dai suoi apparenti margini, offre una chiave di lettura “religiosa” e, ad un tempo, conseguentemente immanentistica, che trova nella sua originale cifra espressiva una sorprendente conferma.
Nel lungo dialogo centrale, ripreso da una camera fissa, tra il protagonista, il terrorista Bobby Sands, e un prete suo compatriota, che, alla notizia della sua decisione di intraprendere, come forma di lotta più che di protesta, uno sciopero della fame ad oltranza, lo visita per dissuaderlo, viene infatti risucchiato il senso sia della storia della resistenza estrema dei militanti della Belfast antibritannica, che la crudezza senza limiti dei plumbei colori e dell’angoscia claustrofobica in cui si consuma nella galera, come effetto insostenibile dell’oppressione, l’esercizio della tortura sistematica e della cieca violenza ai danni della integrità fisica e della umana dignità dei prigionieri politici da parte dell’oscuro, ma riconoscibile, potere delle “forze di occupazione” del governo Tatcher.
Del resto la stessa gestione della militanza attiva, nonostante la costrizione, avviene, in quegli anni di durissimo conflitto (anche i resistenti si vendicano e uccidono), attraverso una dialettica della comunicazione e, di contro, del controllo, tra vittime e carnefici, affidata ai corpi nudi e ad ogni loro orifizio, dagli uni usati si direbbe in una carnale solidarietà, e dagli altri ottusamente violati. E gli escrementi corporali e i liquidi organici diventano strumenti della ribellione e della sua visionaria espressione cosparsi sui muri invalicabili e sui pavimenti del penitenziario, in una cupa fantasmagoria di tonalità (pennellate di ocra vorticosamente concentrate su una oscura ruggine), che manifestano l’infernale, disperata soggezione dei vinti.
Dunque: il dialogo e la centralità del corpo, che si tramuta, nel finale del film, nella tristissima apoteosi delle ferite e della lenta, dolorosissima distruzione di membra e di organi vivi, impietosamente aggrediti dai letali morsi della fame (qui Fassbender oscura ogni mito interpretativo da Actor’s Studio). Al centro del centro del racconto, però, appunto nel dialogo col prete, si evoca, con un accenno da parte di Bobby, martire della cattolicissima Irlanda, un Gesù che, a differenza di quanti (per secoli) lo hanno seguito, «aveva la schiena diritta!»: si evoca così non a caso il corpo martirizzato – mi pare – del Cristo flagellato e crocifisso della Passione, trapassato nelle ferite e nelle stimmate dalla ferocia degli aguzzini, e proteso con tutto se stesso verso la morte (per gli altri).
Il corpo del figlio dell’Uomo – ne è convinta assai acutamente anche parte della moderna esegesi che si contrappone al puro spiritualismo di antica matrice neoplatonica ‒, il corpo di tutti i figli dell’Uomo, è tutt’altro che estraneo infatti alla redenzione; è l’entità attraverso cui passa la morte e la stessa resurrezione; è al centro della creazione (nudo, vergognoso e inerme); ed è, ad oggi, il punto culminante dell’evoluzione della specie (in Shame McQueen, in un rapido passaggio, accennerà significativamente alla variante di Neanderthal).
Il tragico paradosso della compulsione inarrestabile all’autoannullamento è che Bobby non si crede intanto un martire e che, anche se il suo “martirio”, accompagnato da una discretissima mater dolorosa, può richiamare alla memoria i testimoni, fino alla morte, del primo cristianesimo, esso si innesta in un progetto capace di andare aldilà dell’istinto di sopravvivenza. Ecco: McQueen e il suo alterato inferno visionario assimilabile alla pittura protorinascimentale di Luca Signorelli; la lucida scelta politica che non sopporta tuttavia nessun condizionamento machiavellico; l’esito spietatamente nichilistico: sono i gradi dell’estremo sarcasmo chiamato in causa in nome della vita dal personaggio di Hunger per rinnegarla.
Chi ama veramente la libertà e la vita, pensa Bobby, giunge volutamente a rifiutarla (ancorché la morte è vista dagli occhi di chi si appresta ad andar via attraverso la dolcezza di immagini di pochi minuti di sintesi indimenticabile di vita, tenebrosa e densamente azzurra). Così il regista supera la fenomenologia iperrealistica del genere di una storia carceraria e ferma le immagini in un’ultima, sgomenta determinazione.
Filmografia
Hunger (Steve McQueen 2008)