diaz-filmPrima di passare a identificare la qualità specifica della struttura di questo film, che ne fa uno dei prodotti più interessanti della cinematografia italiana di questi ultimi tempi, è bene sgombrare il campo da qualche equivoco che si è addensato sul confronto critico-giornalistico che ha accompagnato la sua uscita. È stato dunque registrato da non pochi che il film non mette in chiaro le responsabilità politiche (salvo una fugace immagine di una famigerata conferenza-stampa di Berlusconi) nei fatti di Genova 2001 e nei crudi episodi del massacro della Diaz e delle torture della caserma di Bolzaneto.


Il regista e il produttore hanno risposto alle obiezioni che la pellicola di Vicari non vuole essere un docu-film, e che anche per questo, per esempio, si è proceduto, in fase di sceneggiatura, a modifiche nell'indicazione delle generalità dei protagonisti, tanto più che, intenzionalmente, nella poetica del film, una qualche vaghezza, anche nella precisazione delle responsabilità di più alto grado, è una strada perseguita per sfuggire alla meccanica aderenza alla dimensione cronachistica, onde opportunamente universalizzare la forza metaforica della rappresentazione.

Probabilmente, però, la strada dell'individuazione delle responsabilità politiche in quei fatti delittuosi non è stata perseguita giacché l’oggetto della denuncia di Diaz non è il comportamento di un governo, o di un insieme di governi corresponsabili a Genova dell'ordine pubblico – e del preordinato scontro violento con le organizzazioni del dissenso –, bensì l’ottusa durezza dell’istituzione poliziesca, attivamente repressiva in quanto tale, sempre: un apparato repressivo che in ogni Stato e per ogni governo è inteso quasi inevitabilmente come espressione della dura opacità del potere, ciecamente violento e armato.

Dunque la cieca violenza dell’apparato, dal vertice alla base: questo è il punto! A  Genova, in realtà – lo si potrà dire quando giungerà a maturazione un più circostanziato giudizio – si misurò la rivolta giovanile di una generazione globale, e, in primo luogo, di quella del Paese che ospitava la riunione dei Grandi della terra orientati a una politica dichiaratamente conservatrice per il nuovo millennio, contro un governo – e i suoi apparati – che vedeva ai massimi livelli gerarchici dello Stato, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, in forma organica e insieme ad altre più fresche forze reazionarie, gli eredi del fascismo e del neofascismo in Europa.
D’altro canto, se si fa interagire la prospettiva di questo film con alcuni dei caratteri antropologici rilevati nei protagonisti del contemporaneo Acab di Sollima, si entra con più efficacia nella testa dei poliziotti a ogni livello (una fenomenologia accennata nel film di Daniele Vicari in una delle prime scene: i poliziotti, schierati in prima fila, sono già insofferenti per l'attesa e nel reclamare lo scontro coi manifestanti; e poi, qualche ora dopo, li si intuisce presi dalla stessa febbre quando a mensa si allude alle loro opinioni a dir poco vendicative prima dell'attacco al “manufatto”).

E il motivo della cecità dell’attacco trova allora straordinaria convalida appunto nella struttura originale del film: un film corale in cui agiscono ben 140 personaggi, i principali dei quali disegnano situazioni incrociate di là e soprattutto di qua rispetto alla linea dello scontro. Tra i rappresentanti dell'istituzione repressiva spiccano con evidenza, come sanno bene gli spettatori di Diaz, il dirigente giunto appositamente da Roma per prendere le redini dell'evento, e un vicequestore che, interpretato assai efficacemente dall'attore Santamaria, è riluttante all'assalto mentre è alla testa del suo reparto, ma abbandonerà poi tutto quanto al suo destino, stanco, disgustato e forse ormai indifferente (fatti salvi i suoi sentimenti privati).
Tra i numerosi personaggi poi del “movimento” – prevalentemente stranieri – spiccano via via le giovani donne, anche anarchiche, dell'assistenza e dei collegamenti logistici, dell'ufficio stampa e dell'ufficio legale del Social forum, sulle quali è destinato a sfogarsi particolarmente dura la crudeltà dell'assalto; un pugno residuo di black block (per la verità un po’ troppo pavidi e ingenui per fornire motivo alla provocazione!); i più tradizionalmente politicizzati fra i militanti, che intrattengono però qualche sospetto rapporto informativo con la burocrazia poliziesca; il pacifista troppo equidistante, distratto da qualche ora d’amore consumata con una bella danzatrice (che è a sua volta emblema del modo come l’esercizio disarmato e gratuito dell'arte, in siffatte circostanze, è particolarmente efficace nella sua apparente spensieratezza); il vecchio sindacalista, commovente e idealista; l’inesperto giornalista, anche politicamente disarmato. E il tutto è una matassa scomposta – eppure fluida – di contraddizioni che va inevitabilmente aggrovigliandosi nel tempo – nel plot e nel ritmo sincopato, con ripetitivi segnali d’ossessione – in un drammatico, angoscioso finale, con la madre di una vittima giunta appositamente dall'Inghilterra per vedere sua figlia orrendamente sfigurata e ammanettata mentre è accompagnata al confine svizzero. Più che il cinema di Ferrara, o quello nobilmente civile di Francesco Rosi, un possibile riferimento sembra insomma, a parte Kubrick chiamato in causa da Vicari, l’irlandese Bloody Sunday di P. Greengrass.

Solo che la rappresentazione catartica della violenza ha poi strani riscontri in alcune allarmanti reazioni di una parte – sia pur ridotta – del pubblico. Infatti, nell’anteprima italiana al Bifest di Bari, uno sconosciuto, al culmine delle scene di massacro, sbotta dal loggione: «Procacci, vergognati! basta con la violenza!», prontamente rimbeccato dalla platea: «Vergognati tu, fascista!»; e un giovane si allontana “indignato” perché stanco di pagare le tasse (sic) onde lo Stato paghi a sua volta la polizia impegnata a massacrare giovani inermi, ma anche di pagare il biglietto per assistere a tali – presunte – bieche performance.
Ahimè, sono i nostri giorni confusi!