lettera_da_una_sconosciutaQuando, dopo una lunga assenza dalla sua città natale, Josef von Sternberg ritornò a Vienna per un temporaneo soggiorno, scoprì una città ben diversa da quella che aveva lasciato molti anni prima, quando decise di emigrare in America. Scrisse a tal proposito, senza nascondere il suo rammarico, di aver trovato «una splendida città diventata il volgare parco dei divertimenti del mondo» per colpa di «un’armata di invasori che, deliziati da una musica carezzevole, richiedevano che la città divenisse un gigantesco cabaret». Il suo sconforto nasceva pure dall’aver constatato che i viennesi apparivano disarmati dinanzi a tale realtà, lasciando che la loro città «o piuttosto, mi dispiace dirlo, la sua carcassa» andasse «in decomposizione». Il grande regista scriveva queste parole nel 1922 in singolare disaccordo con tutto ciò che aveva fin allora (e avrebbe ancora) caratterizzato a lungo l’immagine di Vienna nel cinema, non soltanto austriaco.


Il mito della capitale asburgica, espressione della Felix Austria – sulla cui fisionomia culturale si rimanda al classico libro di Claudio Magris – trova nel cinema una sua ulteriore esemplificazione, che persiste e sopravvive ben al di là dei confini storici che ne determinarono il definitivo tramonto. Il più “viennese” dei registi cinematografici, infatti, l’alsaziano Max Ophüls, ne farà oggetto di una appassionata rivisitazione in uno dei suoi capolavori del 1948, Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman), girato durante la sua breve parentesi hollywoodiana, in evidente contrasto con la Vienna di poco successiva, quella ritratta da Carol Reed in Il terzo uomo (The Third Man, 1949) molto vicina, sebbene per altre ragioni, a quella descritta da von Sternberg. La tradizione del cinema viennese, il cosiddetto “Wiener film”, è ben diversa però da quanto egli, col disincanto maturato dalla lontananza – materiale e temporale – dalla sua città natale, riferiva con le parole sopra riportate. (A tal proposito è comunque il caso di accennare ad un particolare, sebbene di scarso rilievo ai fini di quanto s’è detto: il suo lavoro successivo comprende, pur non determinante ai fini della sua opera complessiva, la realizzazione della sequenza tipicamente “viennese” del primo film americano di Duvivier, Il grande valzer (The Great Waltz, 1939), quella relativa alla “nascita” del celeberrimo Il bel Danubio blu, omaggio implicito alla Vienna d’antan).

L’immagine della capitale asburgica secondo il cinema diede i suoi migliori frutti nei decenni Trenta-Quaranta, con una serie di film che, permeati dal pathos alimentato dalle seduzioni della memoria, ne celebrarono il motivo centrale per eccellenza: la gioia di vivere, solo di tanto in tanto offuscata da quella lieve malinconia che ne costituiva la sublimazione estetica.
Questo atteggiamento, questo modo di rapportarsi alla realtà, attraversa tutta la filmografia “viennese”: in uno saggio sul tema in questione di Ricardo Blasco se ne individuano i caratteri nella «fluidità dell’esposizione, nel gusto musicale, nel tocco di fine grazia, nella conveniente dosatura del dramma e del sorriso, nella candida ingenuità del soggetto, nella evocazione del passato, (che) contribuiscono in grado superlativo al successo e alla fortuna di questo genere di film», i cui motivi centrali ritroviamo anche in opere realizzate in altri contesti culturali, sì da legittimare l’estensione del modello del “Wiener film” – quasi un vero e proprio genere cinematografico – laddove ne ricorrono i motivi fondamentali, quelli soprattutto espressi esemplarmente dal cosiddetto film-operetta, quasi sempre ambientato nella “capitale” autriaca. Riassuntivo di questo modello fu il famoso film di Erich Charell, Il congresso si diverte (Der Kongress tanzt, 1931), peraltro un esempio cinematografico eloquente di quella ricorrente trascrizione di un grande evento storico – il congresso di Vienna del 1825 nella fattispecie – nei confini angusti seppure attraenti di una vicenda tutta privata.

La storia di questo modello filmico, come s’è detto, si protrae fino agli anni Cinquanta, che costituiscono l’approdo ideale di un lento declino, cui pose in parte termine il cinema del dopoguerra (con la parentesi, felicissima sul piano del successo di pubblico, della serie dedicata alla Principessa Sissi a firma di Ernst Marischka). Il “Wiener film” ebbe la sua espressione più compiuta, anche artisticamente (il vertice fu raggiunto dai grandi film “viennesi” di Ophüls), nella filmografia di Willi Forst, singolare figura di cineasta, che si divideva fra il lavoro di regista e quello di attore (nonché di cantante). Dei suoi film Roberto Paolella scrisse che riassumono «gli elementi più suggestivi del mondo ottocentesco viennese che si dice, più o meno, ispirato ad un romanticismo minore, ‘il quale preferisce gli svaghi mondani e le esaltazioni di una superficiale ebbrezza alle gioie più profonde dell’anima, i capricci della fantasia brillante agli impeti della passione; ed il cui charme è fatto di gusto pittoresco, di voluttà sognatrice, di vivacità maliziosa: saloni dalle mille finestre, birrerie, tamburi, valzer, uniformi, intrighi di cancellerie suoni di campane’. Una sentimentalità superficiale, lo sfarzo esteriore della religione, la rigida etichetta di corte, la pompa e la tradizione sono tra le più note componenti di questo mondo già condannato e che si sa tale: il più bell’atto della scena europea, aveva dichiarato un diplomatico, avanti che la rappresentazione avesse termine» (Paolella 1966, pp. 537-38).

Una valutazione condivisibile, quella di Paolella, che ci aiuta a capire l’opera di un cineasta così inequivocabilmente, e felicemente, datata (aggettivo che andrebbe usato senza le tracce di negatività che generalmente lo connotano nell’uso corrente: anzi, si direbbe che sia proprio la sua “inattualità” a rendercelo ancora oggi così interessante).
La sua filmografia si racchiude nell’arco di tempo che va dal 1933 al 1957 e reca i segni di una fedeltà a pochi motivi ben precisi, che garantiscono una identità artistica omogenea: non senza ragione l’ultimo suo film, Vienna Vienna (Wien, 1957) ci appare nel contempo un compendio della sua opera e insieme l’ideale congedo da quell’immagine della capitale asburgica, che per lui come per tanti artisti fu ancor più che un luogo geograficamente e storicamente definito, una attitudine spirituale, un ideale artistico, tutto risolto nella “estetizzazione” del quotidiano, della realtà, della storia, infine. Almeno della storia passata, dispensata dal carico drammatico di cui nel primo scorcio degli anni Trenta si avvertivano già i segnali poco rassicuranti, che per l’Austria si sarebbero concretati nell’Anschluss. Il cinema si illudeva di creare un mondo alternativo alla storia rifugiandosi nel passato, non senza qualche tentativo di giustificazione, su cui infatti Willi Forst era esplicito, anche nel proposito di ribadire una sorta di orgoglio nazionale: «La mia patria era occupata dai nazisti e il mio lavoro si trasformò in una silenziosa protesta; può sembrare buffo, ma è la verità: ho fatto i film in cui più forte si manifesta un carattere austriaco proprio nell’epoca in cui l’Austria aveva cessato di esistere».

Della sua abbastanza folta filmografia – della quale basta ricordare Angeli senza Paradiso (Leise flehen meine Lieder, 1933) – Mascherata (Maskerade, 1934) – Sangue viennese (Wiener Blut, 1942) – scegliamo uno degli ultimi film: non il migliore ma quello in cui si riassumono, in una più matura consapevolezza, alcuni temi ricorrenti nella più generale filmografia viennese. Si tratta di L’ultima passione (Burgtheater, 1936), che racconta le storie parallele di un anziano e celebre attore della scena viennese, Mitterer, e del giovane e ambizioso suo collega, Josef, che aspira a succedergli. Le loro vicende si sviluppano in un intreccio il cui significato, per quanto riguarda Mitterer, è il tema del dramma teatrale con cui si apre il film, del quale vediamo una scena importante del primo atto: cioè il Faust di Goethe, interpretato nel ruolo principale appunto da Friedrich Mitterer (Werner Krauss, il celeberrimo Dottor Caligari dell’omonimo capolavoro di Wiene).

Come il personaggio portato sul palcoscenico, anche lui sente irresistibile l’impulso o, meglio, la nostalgia per la giovinezza ormai lontana, essendosi invaghito della figlia del suo sarto, Leni. Inseguendo la sua tardiva infatuazione egli trascura l’amicizia della Baronessa Seebach (Olga Tschecowa), che è solita invitare nel proprio salotto attori e gente di teatro. L’invito ufficiale ad un imminente ricevimento gli aprirebbe le porte dorate dell’aristocrazia se egli non lo disattendesse, lasciando che esso finisca nelle mani di Leni, in visita presso di lui per perorare la causa professionale di Josef, che ella ama. In una scena, che ne mette a nudo le velleità, vediamo Mitterer nell’atto di abbracciare la ragazza, che però si sottrae involontariamente alla stretta, piegandosi in tempo per raccogliere un foglio dal pavimento. L’invito di cui lei si è impossessata di nascosto servirà a Josef per l’ingresso nel salotto della baronessa, la quale nutre per lui un’ammirazione che non è soltanto di natura professionale, nonostante la palese indifferenza che le manifesta il giovane attore. Le attenzioni della baronessa per Josef, che non sono e razione che non è soltanto di natura professionaleen meine Lieder, he tirth man, 1948) passate inosservate, suscitano la reazione del marito, il quale, incontrato l’attore, un «miserabile commediante» come lo apostrofa, lo provoca a duello, accusandolo pure di essere un baro.

All’intrigo avviato dai sussulti di un’ultima passione (quella di Mitterer, ma in parte anche della baronessa) va tutta la complice solidarietà del regista. Il quale tuttavia non rinuncia a sottolinearne gli aspetti meno romantici o francamente comici, come nella citata scena dell’abbraccio mancato a Leni o come nell’altra in cui Sedlmayer, suggeritore teatrale nonché amico intimo di Mitterer, chiede per quest’ultimo la mano di Leni ai suoi genitori, scontrandosi col rifiuto dell’interessata.
Una commedia dei sentimenti, quella rappresentata da L’ultima passione, una commedia che tuttavia sembra precipitare nel dramma vero e proprio quando Josef, deluso dalla mancata assegnazione del ruolo cui aspirava, sta attuando il suo proposito di suicidarsi, sventato in extremis da Mitterer, infine convinto della vanità del suo sogno faustiano. La gioventù rivendica i suoi diritti stabiliti dall’ordine naturale delle cose e a chi ha lasciato alle spalle questa felice stagione non resta che farsi da parte: con l’elegante malinconia della baronessa Seebach o con la delusa e ruvida semplicità di Mitterer: il Molière di La scuola delle mogli, per restare in ambito teatrale, svolgeva un motivo analogo, che un decennio dopo avrebbe ispirato uno dei capolavori di René Clair, Il silenzio è d’oro (Le silence est d’or, 1946).

La doppia storia “passionale” di Burgthater è comunque congeniale al capitolo più felice del cinema viennese, per così dire, autoctono. Nell’uscita di scena di Mitterer da un canto, della baronessa Seebach dall’altro, c’è come la metafora del tramonto di un certo modello di vita, nonché l’ideale commiato di un cinema nel quale si era specchiato un «mondo impastato di musica, di scetticismo e di raffinatezza, secondo una linea che vede insieme l’amarezza esistenziale del cinico Schnitzler, la fatuità melodica dell’operettista Lehar e magari, ma sul fondo, la psicanalisi freudiana» (Fernaldo Di Giammatteo).

Notevole è tuttavia la scarsa presenza in questa ennesima riproposta del “Wiener film” di quella musica che nelle opere precedenti del regista era stata l’espressione predominante, l’asse portante. Appunto, come sottolinea Francesco Savio (1972): «l’ottimismo euforico (di Forst) arriva dove arrivano le musiche». Una vena di appena avvertibile inquietudine si diffonde nella pur levigata quanto anonima compiutezza del film. Del quale sono inevitabili i richiami non soltanto all’opera forstiana in generale, ma anche a quella di altre cinematografie che avevano Vienna come universo dal fascino convenzionale ma in grado di esercitare ancora il suo potere sullo spettatore cinematografico, anche se talvolta, come nel caso di Burgtheater, indubbiamente un po’ appannato. Ciò tuttavia non impedisce che questo film sia pur sempre un significativo esemplare di una filmografia attraversata da una confusa e indefinibile amarezza, dissimulata nei suoi risultati migliori da quella levità evanescente tipica dell’opera forstiana, che talvolta, come nel caso di Burgtheater, sfiora perfino il dramma, con un duello e con un suicidio, entrambi mancati: situazioni narrative congeniali ad un’“avventura” sollecita ai richiami di un’anarchia interiore destinata a trasformarsi, nell’acquisita consapevolezza, in fattore di stabilità dei valori tradizionali.

Questo, che rientra nei temi relativi all’ideale conclusione del “Wiener film”, era l’altra faccia di una società incline ad allegre schermaglie, riproposte ora con una più smaliziata coscienza, espressa dalla scettica e amabile ironia di Sedlmayer, personaggio collaterale ma in certo senso riassuntivo dell’Ultima passione: non senza ragione affidato ad un attore come Hans Moser, una delle icone della filmografia viennese, il cui spirito incarnò con tale perspicacia da far dire a Max Reinhardt che egli non era tanto un attore (uno Schauspieler) quanto un interprete della verità (un Wahrspieler).


Bibliografia

Blasco R. (1953): Quando Vienna rideva, in «Cinema», n.s. 104-105, 107-108.

Hollywood, in Vienna Berlino Hollywood. Il cinema della grande emigrazione, a cura di E. Ghezzi et al., La Biennale Venezia, Venezia 1981.

Paolella R. (1966): Storia del cinema sonoro 1926-1939, Giannini, Napoli 1966.

Savio F. (1972): Max Ophlus e la tradizione viennese, in Visione privata. Il film occidentale da Lumière a Godard, Bulzoni, Roma 1972.


Filmografia

Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman) (Max Ophüls 1948)

Il terzo uomo (The Third Man) (Carol Reed 1949)

Il grande valzer (The Great Waltz) (Julien Duvivier 1939)

Il congresso si diverte (Der Kongress tanzt) (Erich Charell 1931)

Vienna Vienna (Wien) (Willi Forst 1957)

L’ultima passione (Burgtheater) (Willi Forst 1936)

Angeli senza Paradiso (Leise flehen meine Lieder) (Willi Forst 1933)

Mascherata (Maskerade) (Willi Forst 1934)

Sangue viennese (Wiener Blut) (Willi Forst 1942)

Il silenzio è d’oro (Le silence est d’or) (René Clair 1946)