io-sono-un-autarchicoDecidere di affrontare gli anni Ottanta non è una scelta da prendere alla leggera. Non è infatti facile riuscire a osservarli da una giusta distanza e con un occhio non eccessivamente critico o nostalgico. In fondo il problema grosso di questo decennio è di non essere gli anni Settanta: perché quando gli anni di piombo diventano di fango è evidente che qualcosa è cambiato e non unicamente in positivo, e perché arrivando subito dopo i Settanta è impossibile evitare il confronto, con il rischio quindi di far fare agli anni Ottanta la figura del “cugino scemo”, a cui si vuole bene anche se non pare essere all’altezza. Il problema principale quando decidiamo di affrontare un decennio come questo è quello della prospettiva.


Gli anni Ottanta sono difatti un periodo assolutamente schizofrenico dove succede tutto e il contrario di tutto. Se li osserviamo da un punto di vista storico troviamo il terrorismo, la P2, la crisi dei partiti e la spettacolarizzazione della politica. Cambiava inoltre il tessuto sociale e il modo in cui le nuove e le vecchie generazioni si rapportavano tra loro: mutamenti probabilmente legati pure ai moti giovanili degli anni precedenti, e che durante gli anni Ottanta, oltre a portare avanti una difficoltà di dialogo generazionale, si erano pure trasformati in rapporti di tipo contrattualistico (i figli che restano a vivere con i genitori fino ad età avanzata per potersi permettere di spendere i propri soldi in altro modo). Per non parlare poi delle classi sociali e delle loro modificazioni, e soprattutto della spinta ai consumi e delle nuove forme di aggregazioni attorno agli oggetti e alle marche (come i paninari di Milano). Anni definiti del “riflusso” ma che, piuttosto che rappresentare reali novità, vedevano messi in atto degli stimoli già presenti nella società italiana, portati agli estremi e fatti esplodere.

Con questo non è assolutamente mia intenzione voler mettere la testa sotto la sabbia e negare ciò che questo decennio ha rappresentato e comportato. Sono certamente anni fatti di consumi, anni in cui la logica del gatto – descritta da Fausto Colombo nel suo La cultura sottile – prende il sopravvento. Ci riferiamo a quella teoria secondo cui da un certo momento in poi nell’industria culturale la definizione della qualità di un prodotto diviene direttamente proporzionale alla quantità consumata. Gli  anni Ottanta sono d’altronde quelli che vedono la nascita dell’Auditel. Pertanto è da ritenere opportuno iniziare ad approcciare il nostro studio sul cinema di quegli anni proprio a partire dai numeri di consumo. I dati del Box Office ci possono dare la possibilità di cercare e rintracciare i gusti degli italiani che andavano al cinema in quegli anni e vedere se nelle loro scelte di consumo fossero presenti delle tendenze che ci permettano di leggere criticamente i film e il decennio sotto esame. 

I dati SIAE di base ci comunicano (come è noto) che durante quegli anni si è verificato un violento declino del consumo cinematografico, dall’inizio alla fine del decennio gli spettatori in sala scendono di circa il 60%. Un declino che molto spesso viene imputato alla televisione, oppure alla scarsa qualità dei film. Tuttavia, se andiamo a osservare quali sono i titoli presenti tra i maggiori incassi del decennio non possiamo totalmente dare ragione a chi legge il decennio sotto questa chiave. Per quanto sia innegabile che il fenomeno Vanzina nasca in quegli anni, infatti, non è assolutamente vero che siano loro e il tipo di filone a cui hanno dato il via a dominare gli incassi. Su più di dieci pellicole che i due hanno girato nel corso degli anni Ottanta, solo quattro rientrano nei primi 110 film della stagione (prendendo in esame i primi 10 film del Box Office delle undici stagioni tra il 1979-80 e 1989-90).

Molti di più sono quelli di Celentano, le cui fortune si fermano però solo nelle primissime stagioni del decennio, facendolo apparire quasi come un proseguimento della fortunata stagione degli anni Settanta e non come realmente rappresentativo degli Ottanta. Il cinema americano riesce a ottenere un’ottima fetta del mercato, ma è una colonizzazione solo parziale, infatti il 40% delle pellicole che hanno avuto successo in quegli anni è italiana. C’è da ammettere che il cinema così detto d’autore, che fino ai Settanta ancora riusciva a fare incassi, scompare quasi totalmente, se si escludono i colossal di Bertolucci. Quello che rimane di realmente interessante da osservare sono quei nuovi comici che, pur avendo delle grosse connessioni con la televisione (molto spesso approdano al cinema dopo aver fatto “gavetta” sul piccolo schermo, ma non sono i soli, basta pensare alle carriere di Tognazzi o di Buzzanca), continuano a far sì che la commedia italiana riesca a raccontare la società e i suoi mutamenti.

I comici più presenti nelle classifiche di quegli anni sono Massimo Troisi, Carlo Verdone e Francesco Nuti. I loro film – anche se non solo i loro – tendono a far emergere dei temi e dei modi di rappresentazione dell’individuo e del suo modo di rapportarsi alle donne e alle persone che gli stanno attorno che non si può stentare a definire nevrotico e a descrivere sempre più spesso come un’immagine familiare poco classica e molto “disfunzionale”. Troisi in Ricomincio da tre (1981) mette in scena un personaggio che è solo in grado di ascoltare ma che non riesce a parlare né a dare consigli. Anche quando ci prova resta inascoltato e la scena finale nella camera da letto, con lo sguardo che lui e la fidanzata si lanciano in totale silenzio, è emblematico della cosa. Verdone, d’altro canto, già dai suoi primi film multi-personaggio, e ancor di più da quelli successivi, non fa altro che mettere in scena lo stesso uomo nevrotico schiacciato da qualunque donna e da qualunque difficoltà gli capiti davanti. Nuti in Caruso Pascoski di padre polacco (1989) addirittura si interroga direttamente sulla sua capacità di comprendere e rapportarsi ai suoi pazienti. 

Allo stesso modo queste commedie mettono in luce i cambiamenti degli assetti familiari. Sono sempre più frequenti le rappresentazioni di famiglie allargate, ragazze madri o donne in fuga dalle responsabilità familiari come ad esempio in Io e mia sorella (Carlo Verdone 1987) dove la Muti appare del tutto incostante e incapace di prendersi cura di suo figlio, similarmente anche in Io sono un autarchico di Nanni Moretti (1978) assistiamo a una scena simile, con la madre che abbandona il figlio a Michele. Nella commedia degli anni Ottanta troviamo quindi questo “sovvertimento” della famiglia intesa nel classico senso patriarcale: gli uomini diventano sempre più accessori, le donne sembrano aver raggiunto una maggiore consapevolezza e indipendenza. Come ad esempio in Speriamo che sia femmina (Mario Monicelli 1986) dove le figure maschili sono viste come incapaci di prendersi cura della propria famiglia, o con una grave demenza senile e al massimo come oggetti sessuali.

 In queste pellicole le donne o sono dispotiche e indipendenti, o sono spaesate e incapaci di prendersi le responsabilità familiari che spetterebbero loro, o sono delle galline un po’ ninfomani invaghite del soldo lombardo (come nei film dei Vanzina); le patologie dei consumi di Nuti e le nevrosi di Verdone raccontano i problemi che gli individui negli anni Ottanta possono affrontare nell’integrarsi e stare al passo con i tempi, con i cambiamenti e con le evoluzioni del costume che prendono il via negli anni Ottanta. Difatti alla fin fine l’unico vero dilemma che vale pena di porsi è quello che si pone il Caruso di Nuti: «Ma sono mostri per davvero o sono io che li vedo mostri? Perché se sono loro a essere pazzi va bene, ma se li vedo io come tali allora vuol dire che sono io il pazzo», e c’è davvero una grossa differenza di prospettiva. Sono io che non so comprendere, osservare e adattarmi, che non ho gli strumenti per riuscirci, oppure è il mondo ad essere impazzito? È questa la difficoltà che pare si trovino davanti i personaggi di questi film, ossia l’incapacità a stare al passo con in tempi e a dialogare con il cambiamento. 

Similarmente se andiamo a leggere le parole di coloro che in quegli anni avevano il compito di osservare e leggere i tempi, non possiamo fare a meno di osservare come si trovassero con la medesima difficoltà. Le recensioni dei film e i dibattiti sulla neotelevisione paiono avere ancora radici estremamente profonde nel pensiero “settantesco”, ma non solo. Pur di distruggere e criticare in ogni modo possibile il nuovo, questi recensori si aggrappavano a categorie estetiche che nulla avevano a che vedere con i nuovi prodotti o che, addirittura, non appartenevano nemmeno ai vecchi. Ad esempio, Franco Montini, osservando come il cinema venisse pian piano sempre più influenzato dalla televisione, osserva come le strutture dei racconti dei film si spezzettano in tanti piccoli episodi montati insieme, rendendoli quasi “pubblicitari”, e l’ordine in cui questi vengono montati pare del tutto indifferente rispetto alla costruzione del senso della storia. Ragionamento che non potremmo mettere in discussione se solo da sempre la commedia all’italiana non avesse presentato una struttura narrativa episodica. Pare quindi che la critica di quegli anni, cercando di creare un modello che potesse resistere all’avanzare della televisione, non si fermasse troppo ad osservare i nuovi prodotti e si limitasse semplicemente a etichettarli. Un’incapacità di comprendere quindi i meccanismi dell’industria culturale che in Italia storicamente non aveva mai preso effettivamente piede fino agli anni Ottanta.

Quando all’inizio parlavamo di problema di prospettiva ci riferivamo anche a questo. Gli anni Ottanta, nel loro essere in qualche modo schizofrenici, rendono difficile un totale inquadramento di ciò che sono stati e hanno rappresentato. Non è facile capire se “sono pazzi loro o siamo noi a vederli come tali”.


Bibliografia:

Ricerca svolta sulla pagina della BORSA FILM presente sul Giornale dello spettacolo edito da «Gea, gestioni editoriali Agis», dall’anno 1979 al 1990.Statistiche SIAE disponibili sul sito www.siae.it

Colombo F. (2009), La cultura sottile, media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano.

Gervasoni M. (2010), Storia d’Italia degli anni ottanta, quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia.

Ginsborg P. (2007), L’Italia del tempo presente, famiglia società civile, Stato 1980-1996, Enaudi, Torino.

 

Montini F. (1984), Cinema, video-musica e pubblicità, contaminazioni per un nuovo genere?, in «Cineforum», XXIV, agosto, 239.


Filmografia: 

Caruso Pascoski di padre polacco (Francesco Nuti 1989) 

Io e mia sorella (Carlo Verdone 1987)

Io sono un autarchico (Nanni Moretti 1978)

Ricomincio da tre (Massimo Troisi 1981)

Speriamo che sia femmina (Mario Monicelli 1986)