Leggere Take Shelter – seconda fatica di Jeff Nichols apprezzata sulla Croisette nello scorso maggio dopo il suo passaggio al Sundance – come l’ennesimo capitolo di una critica frantumazione del soggetto di quel lungo post 11 settembre che pare non finire mai (non solo cinematograficamente), probabilmente non rende completa giustizia a un lavoro che nelle dinamiche visive adottate ha il suo reale punto di forza, oltre che la sua fondata chiave di lettura.
In breve, la storia, visto che al momento non è prevista un’imminente uscita italiana. E sempre ammesso che di storia si possa parlare in una pellicola antinarrativa, priva di decisivi snodi cardinali, sostanziata da piani perplessi, da una comunicazione verbale difficoltosa, da relazioni problematiche tra i personaggi, da sguardi disancorati e suoni di complicata derivazione.
Ohio rurale. Villette anonime, scarne e deserte strade di collegamento, immensi spazi verso l’orizzonte. E un cielo infinito sopra le teste di un’umanità alle prese con la propria ovvia quotidianità. Curtis, marito e padre, vede quello stesso cielo addensarsi di nubi minacciose che promettono terrificanti uragani, ma pare l’unico a preoccuparsene. Sulle sue mani piove una sostanza oleosa, ma il mondo intorno a lui continua imperterrito la sua vita. Incubi disturbanti e particolarmente scioccanti lo svegliano improvvisamente la notte e cominciano a incidere sulla sua percezione della realtà effettiva, al punto da condizionarne alcune scelte. Inizia ad ampliare il rifugio interrato prospiciente alla sua abitazione, ricorrendo a un rischioso finanziamento della banca e prendendo impropriamente in prestito attrezzature meccaniche dal suo lavoro.
L’ossessività del suo atteggiamento si riflette anche sulla sua vita familiare e su quella lavorativa, al punto da farsi corrodere dal dubbio di manifestare un comportamento schizofrenico, come la madre, tempo prima, ricoverata a soli trent’anni. Mentre il mondo gli si sgretola sotto i piedi, una notte una sirena lo sveglia per annunciare quel tornado che aspettava con tanta inossidabile sicurezza. Le sue maniacali trepidazioni erano quindi una conclamata realtà? Nichols racconta il sempiterno tema americano dell’attesa paranoide che qualcosa si compia, che una minaccia finalmente si materializzi, sfruttando dinamiche allegoriche ben definibili, con assi che si sostanziano e si modellano sulla base delle paure del momento, indipendentemente da quali esse siano. Ma se il gioco allegorico è fin troppo scoperto (per esempio, il buio del rifugio in cui Curtis si ripara all’arrivo dell’uragano è tenebra della mente e ottundimento delle relazioni – la moglie e la figlia appaiono spesso con pesanti ombre sul volto che ne cancellano i connotati somatici e quindi la riconoscibilità), le dinamiche visive adottate per rappresentare l’indecidibilità di un dubbio lacerante investono una problematica più ampia e sensibile, con riferimento a un discorso più articolato sui criteri stessi di percezione e ricezione.
Curtis vede? Cosa vede? In che modo il suo vedere si trasforma in una salda certezza? E come la certezza di Curtis trasmigra nella credenza dello spettatore? In una frase: qual è il regime di sguardo sollecitato da Nichols attraverso il suo protagonista affinché un racconto in focalizzazione interna si trasformi nel dubbio di una follia incipiente sul piano ricettivo?
Curtis è l’unico a vedere ciò che gli altri umani non vedono. Allucinazioni schizoidi o dono divinatorio? Lo schema utilizzato da Nichols è sempre lo stesso, elementare, senza nessuna trovata ipertrofica: piano ravvicinato su Curtis, cui Michael Shannon fornisce occhio bovino e un’irrisolta maschera di tormentata inquietudine, oggetto (apocalittico) della sua visione (nubi innaturalmente dense, stormi di uccelli impetuosamente fluttuanti) evocato dalla direttrice dello sguardo rivolto al fuoricampo, nuovo piano su Curtis che chiude lo schema base della soggettiva.
Nelle fasi iniziali della pellicola, anche la moglie di Curtis, Samantha (Jessica Chastain), alza lo sguardo a osservare il cielo, presumibilmente per sincerarsi delle condizioni atmosferiche (lo spettatore sta ancora cercando chiavi di lettura in un film che ha come prima inquadratura un cielo plumbeo traguardato attraverso fronde smosse da un vento insistente, cui fa seguito il primo schema di soggettiva di Curtis), ma la sua azione rimane insatura, non dà vita a una soggettivazione del suo atto di scrutare. Allo stesso modo, successivamente, quando Curtis corre a recuperare la figlia Hannah, sordomuta, assorta in mezzo alla strada, intenta ad osservare un qualcosa di ancora imprecisato che si sta svolgendo nel cielo, la visione minacciosa degli uccelli si concretizza soltanto nel momento in cui Curtis prende la figlia in braccio e, girandola verso la parte opposta della strada per preservarla dall’assurdità della situazione, sostituisce il suo sguardo a quello rapito e incuriosito della bambina.
Curtis vede (e sente). Gli altri no. Alla convenzionalità dello schema, che Edward Branigan chiamerebbe “chiuso”, Nichols aggiunge un movimento particolare di oggettivazione della soggettività, in virtù del quale la visione del singolo è inserita in un’ulteriore inquadratura pronta a inglobare lo sguardo del personaggio nell'obiettività di una visione d’insieme: Curtis “vede” e il piano oggettivo susseguente abbandona il criterio dell’individualità per sedimentarsi nel film come dato effettivo. In pratica, Curtis “entra” nella sua stessa soggettiva. La modalità di discorso travalica il suo ruolo funzionale e costruttivo e si impossessa della storia, modificandone percezione e chiave di codificazione: Nichols, oggettivando lo sguardo di Curtis, disancora dal soggetto la percezione e la rende parte integrante di una credenza più generalizzata che fa diretto riferimento alle dinamiche di ricezione del racconto da parte dello spettatore.
Movimento duplice: Curtis rimane intrappolato nella presunta obiettività del suo sguardo, lo spettatore si trova a dover abbracciare la prospettiva proposta dal racconto per poter proseguire nell’interpretazione della storia. Una soggettività che si fa oggetto, intrappolando l’eventualità in un’illusoria evidenza. Un procedimento non nuovo, utilizzato già da Alfred Hitchcock ne La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), in un altro celebre caso di ipotesi di sguardo (quello di Scottie/James Stewart) che si trasformava in ferrea credenza, all’interno di una pellicola che nella vettorialità stessa dell’asse visivo aveva il suo intero fondamento. Così come per Curtis, anche Scottie rimaneva vittima della fallacità del suo sguardo, inglobando in un’oggettività ingannevole ciò che era unicamente frutto della sua pulsione scopica (emblematico il segmento della seconda visita di Scottie al museo sulle tracce della “defunta” Madeleine: davanti al ritratto di Carlotta Valdes, Scottie, entrando nella sua stessa soggettiva, rimaneva letteralmente imprigionato nella porzione di spazio ritagliato dall’inquadratura che nell’immagine precedente aveva costituito la sua prospettiva di visione.
L’oggettivazione di una speranza, la volontà di abbandonarsi a un affranto desiderio). In entrambi i casi lo spettatore àncora lo sguardo a ipotesi fittizie e fuorvianti: il rapporto tra soggetto e oggetto entra in un cortocircuito percettivo in cui la vittima designata all’interno della storia (il personaggio) si fa pretesto per originare il dubbio sull’attendibilità delle impressioni rilevate (Take Shelter) oppure per condividere l’ossessiva spirale di smanioso rimpianto in cui è sprofondato l’individuo (La donna che visse due volte). Ma mentre in Hitchcock, compatibilmente con i meccanismi di un thriller comunque anomalo, il finale svelava la realtà architettata alle spalle del protagonista, vittima inconsapevole di una doppia macchinazione, per sé e di conseguenza per il pubblico con cui aveva condiviso i criteri del vedere e del sapere, in Take Shelter l’incertezza è la cifra stessa della narrazione, il reale fulcro significativo dell’operazione.
Dopo l’uragano che lo ha costretto a rintanarsi con la famiglia nel rifugio durante la notte e un successivo periodo di convalescenza, Curtis appare sereno su una spiaggia con la figlia, mentre la moglie è impegnata in casa. La bambina gli indica qualcosa alle sue spalle, Curtis si volta e osserva il fuoricampo sorpreso e timoroso. Prende la figlia in braccio e si gira verso la moglie, nel frattempo uscita dall’abitazione, con la quale scambia un gesto d’intesa prima di entrare. La moglie rimane fuori a osservare ciò che si è materializzato nel fuoricampo, mentre una pioggia oleosa, la stessa che Curtis aveva visto all’inizio della storia, le bagna il palmo della mano. La tempesta si sta avvicinando, ma nonostante la tensione degli sguardi rivolti al fuoricampo, la sua visione è sempre posticipata, rinviata, fino all’inquadratura finale, in cui, dietro la nuca della moglie, si vede la cappa di nubi giungere densa, opprimente, probabilmente distruttiva. Finalmente vista, ma mai attraverso una soggettiva.
Né di Curtis, osservatore non si sa fino a che punto attendibile, né della moglie o della figlia, cui la visione in soggettiva era già stata negata in precedenza. Si tratta dell’effettiva realtà che si affaccia minacciosa e inconfutabile grazie a una visione concreta, non limitata a nessuno sguardo individuale (significato semplicistico), della materializzazione delle paure quotidiane viste in una prospettiva universale di cui la famiglia di Curtis si pone come sintomatico campione (significato paranoico-apocalittico), oppure di un’allegoria delle difficoltà eccezionali incontrate nel corso della vita da ogni nucleo domestico cui si può far fronte soltanto con uno sguardo condiviso (al quale alluderebbe il medesimo particolare, circolare, in apertura e chiusura di film, sulle mani dei due coniugi piene di pioggia untuosa – in questo caso: significato consolatorio-conservatore)?
Una nube densa ed enigmatica, fondata su sguardi che sfuggono a una classificazione, tendenti a rendere autentica una realtà che proprio attraverso il regime di visione adottato punta a turbare i già labili confini definitori. Un flusso indistinto che gira su se stesso e origina più rivoli. In mezzo, una verità impalpabile, fondata su impressioni, ipotesi, paure, attese forse interminabili.