Brandon (un eccezionale Michael Fassbender) è protagonista e vittima di una infinita coazione a ripetere, nella sfera unica del sesso, di un'angoscia compulsiva, e Shame, il secondo lungometraggio di Steve MacQueen, ne costruisce il profilo drammatico secondo la tipologia dell'alienazione individualistica di un adulto americano che vive, nella solitudine della folla anonima metropolitana, la condizione esasperatamente fallocentrica prodotta da una miscela micidiale di narcisismo ed impotenza ad amare.
I suoi tentativi di uscire dalla spirale ossessiva passeranno fondamentalmente, a un certo punto della consuetudine quotidiana, per il rapporto con la giovanissima sorella, Sissy, che quasi si configura come una reciproca, maledetta attrazione che viene da lontano. E' una storia cui si allude solo di sfuggita, maturata in passato, dall'oscura provincia (cattolico-irlandese) del New Jersey, e apparentabile magari a quella ebraica rappresentata dal capolavoro di Philip Roth, Pastorale Americana: «Noi non siamo cattive persone, è solo che veniamo da un brutto posto», fa una volta Sissy rivolgendosi, accorata, al fratello single. La ragazza, nell'inseguire un tardivo sogno hippy di musica e trasgressione, si rifugia nell'appartamento, glaciale e raffinato, di Brandon, ma, poiché si concede facilmente, solo venti minuti dopo averlo conosciuto, al capufficio-collega del fratello, suscita la gelosia moralista di questi, per cui egli la caccia per ben due volte di casa: bellissima, essenziale e penetrante è la seconda volta – punto di svolta nel film –, che matura alla fine di un concitato dialogo, mentre i due – divenuti estranei – sono ripresi di spalle, seduti su un divano e, al centro dello schermo, è inquadrato un televisore su cui passano delle immagini quasi sfocate, in bianco e nero, di un primitivo cartoon falso-innocente.
Anche Brandon vorrebbe essere vissuto negli anni Sessanta, ed essere stato un musicista: così confessa a una ragazza di colore (non una delle solite puttane o donne casualmente abbordate), la quale è approdata alla middle class da Brooklyn e costituisce l'occasione dell'altro suo tentativo di “relazione”, per il quale, proprio perché si profila probabilmente come il prodotto di un autentico rapporto d'amore, il sesso risulta riluttante. Coerentemente, gli anni Sessanta sono, dal punto di vista di Marianne – quella ragazza – un “inferno”, sicché la ferita atroce, che il suo incontro con Brandon in una stanza d'albergo procura nell'animo esacerbato di lui, gli preclude ogni possibilità di riscatto. I tre livelli di lettura possibili della sua compulsione si rivelano così via via come vera e propria patologia psico-fisica – eredità dell'ominide neanderthaliano –, oppure effetto della degradazione sociale (i nostri non sono tempi di stabili relazioni, si dice), ovvero ancora condizione costante di quella morale, per palesare, alla fine, un'irriducibile infelicità etico-esistenziale.
Perseguendo ogni forma di piacere sessuale che, magari anche con l'ausilio tecnologico del telefono e di un computer, lo eccitano persistentemente, Brandon, nella notte newyorkese già fortemente connotata dalle note straziate della celebre canzone di Kander ed Ebb, dopo il distacco violento dalla sorella, intensifica contro ogni limite, in una sorta di finale discesa agli Inferi, la sua ricerca di godimento e di affermazione: l'effusione da perversione lalo-feticistica con la disponibile ragazza del bar, un rapporto di sesso orale che un nero finisce per consumare con lui nella torbidissima atmosfera di un locale di incontri anonimi di gruppo, un'orgia di sfrenato kamasutra con due donne – si suppone – a pagamento.
Dal suo canto, il racconto esistenziale delle perversioni di Brandon si stampa costantemente nei colori plumbei di un grigio appena virato all'azzurro jersey su uno sfondo di durezza monocromatica di una New York perennemente notturna (sono i confini inevitabili della giornata lavorativa, e poi delle ore del divertimento di ogni sorta, diremmo, di brillante funzionario di company postmoderne). Fatta eccezione per due casi: quando la prospettiva si rovescia, e il protagonista, con le sue accompagnatrici e le sue effusioni, occupa una stanza d'albergo da una cui vetrata si disegnano disinibiti, animaleschi corpi in frenetica eccitazione, avendo per ribalta un paesaggio portuale lividamente sbiancato; e quando quel medesimo paesaggio fa da quinta al pianto non catartico di Brandon, che, disperato, si offre alla scena di un'alba deserta dopo il tentato suicidio della sorella.
A misurare poi, per tutto il corso del film, e sino alla fine, quella che appare la strada del destino di un corpo alla deriva delle sue pulsioni, ogni giorno è la morbosa promiscuità del metrò, sebbene un'ultima inquadratura lasci Brandon, di fronte a un'ennesima tentazione di una piacente donna sposata, nell'imperturbabile ossimoro di una irresoluta certezza. Che - per McQueene - è il volto, probabilmente, anche dell'irredenta sconfitta di una latente misoginia d'autore.