recitaLa storia non è finita, non può realmente finire; né mai le storie hanno termine. Lo sostiene in un appena udibile fruscio la voce fuori campo che, nell’incipit de La polvere del tempo (2009), accompagna il carrello avanzante alla volta dell’ingresso di Cinecittà in cui un regista va a ricercare il proprio passato. L’avvio dell’ultimo film licenziato in toto da Anghelopulos (nella regia, nello script pur date le collaborazioni, nel concetto di fondo), secondo segmento di una trilogia iniziata con La sorgente del fiume (2002) e interrotta drammaticamente dalla morte del grande cineasta, falciato da un motorino ma vittima della crisi greca e dei tagli imposti al paese dall’Europa dei banchieri (l’autoambulanza che doveva soccorrerlo e condurlo in ospedale si è dovuta fermare per un guasto risultato poi fatale per la salvezza di Anghelopulos), afferma una verità difficile da pronunciare; una verità avversa coraggiosamente alle parole d’ordine che oggi vanno per la maggiore, ma infine necessaria. Perché un discorso sul presente, della Grecia dell’Italia stessa del mondo, può venire riavviato solo alla condizione di rimettere le cose sulle loro gambe, non invece capovolgendole.


La voce off del film non è forte e assertiva bensì esitante, dubitativa: un mormorio, come è stato osservato. Ma l’interrogazione sulla realtà è quella stessa che ci viene riproposta a partire dai convincimenti esplicitati sull’amore e la morte, sulla profondità della psiche, sul persistere della memoria. Il film che Anghelopulos stava girando al momento della sua scomparsa, L’altro mare, con Toni Servillo protagonista che rinnovava una predilezione per gli attori italiani iniziata con Omero Antonutti e poi continuata con Mastroianni e Gian Maria Volonté, avrebbe dovuto costituire il terzo tassello della progettata trilogia. Delle previste riprese pare ne manchi ancora un terzo. Il film potrebbe restare incompleto, sorta di grande frammento scheggiato che ammonisce e parla anche con quella sua struttura non chiusa, non ferma su di sé, dunque ingenitamente dialettica. Rinviante senza tregua e soluzione agli spettatori. Ciò secondo un modulo brechtiano interiorizzato da Anghelopulos sin dagli anni Settanta e da lui assunto in tutto il seguito del suo lavoro a vettore di guida.

Giusto nel film lasciato in sospeso, l’ultimo di Anghelopulos, lo spunto di partenza è brechtiano. L’ambiguo politico che se non organizza almeno favorisce l’immigrazione clandestina verso l’Italia, si ritrova in contrasto con una sua figliola che vorrebbe allestire l’Opera da tre soldi di Brecht all’interno di una fabbrica i cui lavoratori sono stati per la gran parte licenziati. Nelle interviste che hanno preceduto l’organizzazione del film ma anche la diffusione di quello immediatamente antecedente (tra cui quella capitale rilasciata a Silvana Silvestri per «il manifesto», come anche quella filmata da documentaristi italiani), Anghelopulos ricorda a tutti il passaggio della Dreigroschenoper nel quale Mackie Messer interpella i propri non imbarazzati interlocutori sul fatto se sia più criminale fondare una banca oppure svaligiarla. Asserto che certo non coglie di sorpresa quanti oggi sono travolti dalla bufera scatenata dagli speculatori della grande finanza e che, nel caso del drammaturgo tedesco, appariva legata al presentimento dell’imminente crisi del 1929 (la prima dell’Opera da tre soldi risale infatti all’anno avanti, il 1928). E del resto, aggiungo io, sempre Mackie Messer nel gran testo dell’Opera annunzia la liquidazione della sua impresa criminale progettando di trasformarne gli investimenti in capitale finanziario (proposito non condotto a termine in virtù della sua traduzione in carcere per questioni di donne).

Definitivamente cadute nella valutazione di Anghelopulos le grandi utopie del Novecento e svanita al tutto la speranza in un qualsiasi socialismo realizzato, si tratta (e per Anghelopulos si trattava) di ripigliare il cammino attraverso le nebbie del presente. Un cammino per il quale Brecht (è ancora il regista ateniese a marcarne i tratti) forse alla fine non appariva più realmente praticabile e dove invece poteva venire recuperata una nuova nozione di tragicità che, nel caso di un autore di origine e cultura greca, assumesse primariamente i classici dell’antichità (Eschilo e Sofocle forse più che Euripide), al di là del mito e della ragione. Un Bertolt Brecht avvicinabile ad Aristotele forse andava ancora bene nel caso de La polvere del tempo, il film antecedente. Non più per l’ultimo, involto nella terribile situazione internazionale. Il ricorso sembrerebbe allora al tragico, qualcosa che rammemori le ultime posizioni di Pasolini (nel decorso dei secondi anni Sessanta, ecco la saggezza del corvo che affianca Totò e Ninetto, «Sono finiti i tempi di Rossellini e di Brecht», ed ecco quasi corrispondentemente la stesura pasoliniana di testi teatrali ispirati alla scena ateniese e al tragico greco).

È – quella di Anghelopulos – una posizione che si sarebbe adeguatamente potuta misurare sul filo del film interrotto e che potrebbe anche indurre a un ripensamento sulla fede brechtiana da lui professata (in quello schema, ancora lumeggiato da Pasolini, della sequenza terminale offerta da una morte che riflette il proprio senso su tutta la vita antecedente). E nondimeno, non sembrerebbe in dubbio il richiamo elettivo al grande autore di Augusta: nella scelta delle tensioni e scansioni dialettiche come nella particolare visualità che, nei film del regista greco, obbligano gli spettatori a trascegliere ciò che è colto dalla cinepresa, e ancora nello sguardo lanciato alla volta di un mondo e un’umanità indagati secondo una metodologia epica più consona ad Anghelopulos (quell’intensità che si snoda lungo il filo di una tripartizione contesta di silenzi, immagini e pensiero).

Il nudo reperto archeologico, o mitico, supponendo una selezione critica dei materiali e un’interpretazione, è infine debitore in radice nei riguardi del poeta e drammaturgo tedesco.
Del resto il rifiuto di una rappresentazione realistica e di quello che potrebbe definirsi un effetto di piena realtà, compare già ne I giorni del ’36, il secondo lungometraggio di Anghelopulos uscito nel 1972 (concernente, come è noto, il periodo antecedente alla dittatura del generale Metaxas). L’attenzione del regista è rivolta nondimeno al presente, nei cui riguardi il passato serve a confronto per capire come si era arrivati nella Grecia degli anni Sessanta ai colonnelli. Ha dichiarato Anghelopulos in una intervista del 1975: «La mia preoccupazione per I giorni del ’36 era quella di analizzare per quali ragioni eravamo giunti alla dittatura. Allora ho cercato nella storia greca e ciò che ho trovato di simile al regime dei colonnelli è stata la dittatura di Metaxas. Con i colonnelli non si poteva parlare del regime fascista di Papadopulos, ma si poteva tuttavia parlare di una dittatura equivalente».

L’organizzazione del racconto viene così strutturata a un fine di comprensione, da cui nondimeno allontanare ogni facile emozione. Quella distanza, corrispettiva della brechtiana Verfremdung, sembrava indispensabile a illuminare la propria materia. Tutto ciò era emerso nel lungometraggio dell’esordio, Anaparastasi (1970), ovvero Ricostruzione di un delitto. Inchiesta sul campo nel quale imprendono a snocciolarsi tre differenti verità e tre differenti indagini: quella della polizia e successivamente di un gruppo di giornalisti. Alle quali si somma l’inchiesta condotta dallo stesso regista con i mezzi a sua disposizione: l’occhio prensile della cinepresa e le risorse del tempo filmico, del ritmo. Il lunghissimo piano-sequenza del finale raccoglie l’insieme dei dettagli relativi al delitto o quanto se ne sia potuto conoscere. Vediamo persone entrare o uscire da una porta, al di là della quale si situa lo spazio in cui è stato perpetrato l’assassinio.

L’insidia pirandelliana di una sospensione della realtà, rispetto a cui nulla può venire affermato con certezza, pare nondimeno allontanata dalla scelta in sé dialettica di porre le tre ricostruzioni in raccordo tra loro. Oltre a ciò, ogni singolo piano acquisisce un proprio autonomo valore. Il principio estetico che regola l’espressione filmica è insomma già quello brechtiano dell’attenzione ad ogni singola scena o ad ogni segmento del testo, le cui specifiche valenze ostacolano l’affabulazione narrativa nel vantaggio della messa in evidenza di quei termini sui quali possa avviarsi la riflessione una volta che li si sia messi a fuoco e li si sia, per così dire, integrati in una dimensione di pensiero.

L’esito della “ricostruzione” e della stessa sintesi effettuate con le armi del cinema è che l’eliminazione violenta, ad opera della moglie e del proprio amante, dell’uomo tornato in patria dall’estero (un topos di Anghelopulos), non è dovuta a un eccesso di passionalità quanto piuttosto alle condizioni materiali nelle quali versa in Epiro il villaggio di Tymphea. Quell’uxoricidio funziona insomma (è ancora Anghelopulos ad asserirlo al Forum berlinese del 1971), «solo come elemento risolutore all’interno di un reportage su un paesino di quella regione […] Quello che a me interessava era il lento morire di una regione, secondo un processo che vale come precedente per tutta la Grecia».
Più insomma delle implicazioni individuali, importano quelle collettive; e comunque le prime si collocano e indi definiscono nel quadro dialettico delle seconde giungendo persino a cancellarvisi. Il che potrebbe spiegare l’adozione frequente dei totali, penso ad esempio a O Megalexandros (1980) ma anche ovviamente ad altri film, e quella assai più pronunciata e caratterizzante di uno stilema tipico al nostro come i piani sequenza, distinguibili da quelli lirici di Rossellini o Godard, o da quelli di un Miklos Jancsó, il quale se ne serve per dilatare angosciosamente gli spazi della storia ma altrettanto per affondarne gli avvenimenti in una tensione senza uscita e nell’incubo generato automaticamente da quella medesima temperie.

All’incontrario in Anghelopulos le scelte espressive, anche le più eccedenti, sino al limite o al sospetto di formalismo, sono lì a esprimere il mondo d’oggi, o almeno a lasciarne emergere i contorni che lo attraversano con tutte le loro contraddizioni. Di qui anche il particolarissimo “effetto di straniamento”, il cui primo scopo è provarsi a far assumere agli spettatori un atteggiamento analitico e insieme critico nei confronti delle vicende esposte (senza tuttavia pervenire, come peraltro succede in questi film, a nessuna piena definizione e a un processo critico risolutivo, che è quanto interviene ne La recita e ugualmente ne Lo sguardo di Ulisse e, dobbiamo credere, nell’incompleta trilogia terminale).

Ricreare sul set, già forse ancora prima nel profilmico (in un profilmico tendenzialmente incline a mostrare i propri meccanismi, come avveniva con le scenografie del teatro epico), vuol dire nel caso di Anghelopulos ricreare senza alcun filtro memoriale le atmosfere degli ambienti e dei luoghi, ricomporre e ridisegnare un certo colore (visto anche nei quadri di un pittore greco del Novecento), non tale però da ipnotizzare e neppure affascinare gli spettatori. Ancorché quella qual certa severa lentezza nei movimenti della camera possieda qualcosa di ancestrale e profondo, vantando la nuda e solenne sacralità del gesto espressivo.

Non certo a caso l’utilizzo dei classici e nella fattispecie dei miti (ad esempio quello degli Atridi), significa per Anghelopulos poter ragionare del presente evitandone ogni cifratura “impulsiva”, in più recuperando quel fondamento antropologico che il mito garantisce e, anzi, contiene. Così i testi letterari e plastici, e quegli stessi miti, sono le matrici anche materiali e concrete, gli incunaboli culturali di un popolo. Trasposti al presente, obbligano la narrazione ad una linearità secondo cui le cose avvengono in quel determinato momento in cui ci compaiono sullo schermo. L’accoglimento degli eventi passati (il fascismo degli anni Trenta, ad esempio) pone lo sguardo filmico in un punto di visione retrospettivo quanto alla temporalità; ma poi lo straniamento rispetto a quest’ultimo riconduce la materia del profilmico al presente, giacché esaminata nel presente della mdp, liberando insieme gli spettatori da qualunque prospettiva di irrealtà.

Le marcature formali trasferite in cartellonistica, come nella scena brechtiana (in O Thiasos le iscrizioni sui muri), l’aggancio dei personaggi ai loro movimenti essenziali, forniscono l’oggetto di un particolare virtuosismo in atto nella messinscena ma sono poi anche il termine di riferimento di chi guardi il film: dato che tutto può essere mostrato (la statua di Lenin trascinata dalla corrente del fiume proveniente chissà da dove) ma poi non tutto viene detto. Lo spazio off diviene insomma già importante nel corso delle riprese del film stesso. Non tutto, all’interno del set, rientrando nel campo d’azione, la formulazione della vicenda assume una precisa chiave da quanto le si raccorda, all’interno dell’inquadratura e al suo esterno.

Così, ad esempio ne La recita, il capolavoro di Anghelopulos uscito nel 1975, l’articolarsi del plot sull’asse della diacronia, con scorrimenti in avanti nel tempo ma anche con salti o scivolamenti all’indietro (ad inizio di film, l’arretramento dal 1952 agli anni dell’occupazione nazi-fascista), mantiene a lato, al di fuori dell’inquadratura e al di là della messinscena, quel fascismo contemporaneo cui si traducono per naturale convergenza quelli del passato. Secondo le regole dell’iscrizione del non detto nel non dicibile (anche per effetto di censura) e del pensiero nel non rappresentato. Ma è chiaro, brechtianamente, che da quel ventre che ha generato il nazismo, la repressione del 1947, le dittature successive, possono sempre insorgere mostri.

Se l’espediente tecnico è, infine, quello di una storicizzazione dialettica, il ricorso al mito corrisponde viceversa a motivazioni culturali e poetiche. Ne La recita si incontrano le figure di Oreste ed Elettra, della madre nella quale si intuisce Clitennestra e di Egisto, soglie di immissione nel cinema di Anghelopolus di una cultura antropologica e letterario-popolare. Ma loro, i retaggi viventi del mito antico, esistono in una dimensione generale, collettiva. Perciò sul piano espressivo risultano straordinari i passaggi nei quali i destini di tutti si concentrano nella durata e profondità dei piani sequenza: quello ad esempio delle rosse bandiere del comunismo mischiate con quelle alleate, nel contrappunto delle canzoni rivoluzionarie e poi con la scarica dei mitra, la fuga, i morti rimasti a terra, il soldato scozzese che a suon di cornamusa attraversa emblematicamente la piazza. Una variante intensa e lirica, perché concentrata, del cinema d’avanguardia delle masse reso possibile dal piano sequenza e dalla sua concettualità.

Ma infine il viaggio dei recitanti è il trascorrere tutt’attraverso le faglie della realtà di una esperienza che si affida all’arte. O Thiasos, la recita del mito popolaresco di Golfo la pastora, equivale finalmente al film, al cinema. Nel piano 74 contrassegnato sul testo di sceneggiatura, in un esterno notte gli attori inquadrati in campo medio stanno rannicchiati e si stringono contro un muro. D’un tratto una voce fuori campo intona un canto: «In piedi compagni, uscite in strada;/ uomini e donne, armi in pugna!». Sorpreso Egisto si rialza, sorregge il baule con il fisarmonicista, si mette alla testa del gruppo. Il mito raggiunge il film, e quest’ultimo la storia.

La “recita” è insomma la messa in scena dialettica del viaggio attraverso lo spessore del tempo, degli anni. E all’interno delle inquadrature, qualcosa di inatteso e singolare si agita liricamente quando gruppi di persone, pur in ordine sparso, imprendono a muoversi. Allora la cinepresa va loro incontro e loro, i viaggiatori recitanti, accennano passi quasi muovendosi su una loro interna musica. Il piano sul molo de La recita, quello cui ci si è riferiti, fa comunque il paio con i tanti disseminati nel cinema di Anghelopulos, anche nei film della disillusione e della critica alla società presente: tale in Viaggio a Citera (1984) il coreografico snodarsi dei movimenti attorno al vecchio esule tornato dalla Russia e respinto su una zattera al largo (a significare che l’utopia non sta ormai più su alcuna terraferma, non a destra e ancor meno a sinistra).

Il cammino dei comici, come anche quello dei cacciatori, dei reduci, dei due bimbi che muovono attraverso la brume alla volta di una nuova frontiera (Paesaggio nella nebbia, 1988), sembra alla fine incagliare nel nulla, arenarsi nella disperazione. Come è stato scritto, il regista muove i fili della storia e dell’utopia tra lo sfondo e i personaggi; il tempo dell’esilio poteva rovesciarsi nel tempo del ritorno e del ritrovamento, le ragioni originarie e l’attraversamento della polvere degli anni essere ancora pronubi di novità.

Ma nell’ultimo tassello della trilogia, tutto pare tragicamente fermo. «È più grave svaligiare una banca o fondarla?». Una domanda, quella di Brecht, dalla quale possibilmente ancora partire, forse lasciando alle spalle altri approdi e mari, per metaforizzare il titolo dell’ultimo film. Nel quale il regista avrebbe alzato per tutti l’affresco di un fallimento e un’umanità disperata. E Brecht avrebbe dovuto raggiungere Aristotele nell’inesausto prodursi delle contraddizioni ma anche delle possibilità.
Alla fine, come vuole la sceneggiatura tracciata da Anghelopulos, i lavoratori in lotta de L’altro mare non sarebbero riusciti a indire il loro sciopero. Gli anni terribili che la Grecia sta vivendo si riversano sull’Europa, sul mondo. Brecht, come rimarcato dal regista ateniese, non era mai stato tale da totalizzare l’interezza dei suoi film, e forse alla fine la sua eredità può persino essere divenuta ingombrante, inutile. Ma il cinema – anche per Anghelopulos – rimane pur sempre qualcosa che cambia le situazioni, che innesta contrasti. E in più, la “disperazione” inscenata nei film della trilogia è la “recita” anticipata sul grande schermo non soltanto dello stato presente della Grecia, ma anche del nostro destino.

Malgrado tutto nulla è definitivo e per sempre: come annotano i versi brechtiani della Canzone della Moldava, non c’è notte tanto atra che duri. Anche per questo ci piace pensare che la stessa coscienza della morte e della disperazione in corso sappia comunque trasferire la propria verità all’interno di un presente che voglia rinascere (quanto del resto interveniva ne L’eternità e un giorno del 1998). Come già mostrava la carrellata de La recita riavviante l’azione dopo la strage, quando il vecchio fisarmonicista steso a terra si rialza e, correndo nella direzione di una strada, fa scoprire alla cinepresa (e allo sguardo del pubblico in sala) la folla che ancora agita le proprie bandiere.