In un’epoca in cui le immagini, soprattutto quelle di più geometrica casualità – la granata ripresa col cellulare finché non ti uccide mandando a nero (Homs, Siria); l’inclinazione giusta della web-cam per meglio illuminare la penetrazione da tergo della propria ragazza (cam4) – afferrano tutte i loro quindici secondi di flagranza cinematografica (non più celebri dei quindici minuti wahroliani, ma di paurosa esattezza nel realizzarne l’assunto: l’uomo, reso visibile, scompare, e la tecnologia resta a segnalare la poesia celibe di questo vuoto), è probabile che al contrario il cinema possibile sia quello capace, come nelle serie tv Usa, di fissare l’immagine in un basso continuo, di fingerla così immutabile nella sua ronde magistrale, da dirottare ogni scatto visionario sulla parola narrata (scritta e sceneggiata) che la anticipa e la sogna.
Ora, non è forse il caso di scomodare chi come Bret Easton Ellis dichiara l’intenzione di accantonare il romanzo appannaggio della durata seriale (sicuro che non sia lo stesso lungo “periodo”? L’attuale evoluzione dei serial deve molto alla generazione di romanzieri Usa cresciuta negli anni Sessanta e Settanta…), ma è perlomeno sintomatico da parte di uno scrittore la cui novità è sempre stata l’apparenza di novità sotto cui celare l’immane lavoro su quel parco lunare che è la parola classico (sintomatico tanto quanto oggi le serie tv fingono di non avvedersi d’essere rimaste l’unico cinema classico americano). Né forse citare le capacità di sintesi che ci mette per esempio un serial come Homeland (uno per tutti), nel rileggere la stratificazione politico-ideologica dal 2001 a oggi all’ombra però dell’invenzione fiammeggiante (e bipolare) di una vera e propria immagine-paranoia.
Ma è intanto il caso di rimanere a chi già negli anni Ottanta luccicava televisivamente da Miami, con l’idea di liquidare l’immagine facendosi liquido nel film, folgorandola con la collateralità tipica dello sfrangiarsi catodico. Miami Vice: sceneggiatura tratta da articoli di cronaca, tradizione del poliziesco anni Settanta con rilettura glamour progressivamente adeguata ai tempi, narrazione metropolitana, incursioni a tutto campo, Bruce Willis e Miles Davis, Julia Roberts e Frank Zappa. Rimaniamo dunque al capostipite Michael Mann (Lynch/Frost e Twin Peaks a parte), che torna al serial producendo, e dirigendone anche il pilot, il recentissimo Luck (scritto da David Milch – già creatore di NYPD Blue e soprattutto della serie western Deadwood il cui pilot, sarà un altro caso, vide nel 2004 alla regia un grande come Walter Hill – e con, fra gli altri, Dustin Hoffman, Nick Nolte, Kevin Dunn ecc.).
Da sempre in cerca di una sorta di aerodinamica altra dell’immagine, che quanto più si inoltra spuria nel fuori fuoco tanto più si impone l’alta definizione, Mann non poteva non ricominciare dal set insieme più sfrecciante e geometrico (uno dei prediletti da Kubrick: The Killing), l’ippodromo, il luogo dove si stropicciano bigliettini e si perdono bigliettoni, dove colano cifre e quote e si articolano ossessioni, dove si vola lucidi con strattoni alle briglie e velluto alle criniere e si punta su tutti i cavalli cercando di sbrigliare la matassa di tutti i personaggi, dove si sogna che profezie, intuizioni, inganni rovescino infine la simmetria minuziosa d’un congegno, il cui gioco d’incastri ricorda troppo precisamente la meccanica di nome vita.
Già così abbiamo detto abbastanza. E non aggiunge molto specificare che Dustin Hoffman è Chester “Ace” Bernstein, sessantenne giocatore incallito deciso a tornare in pista (a proposito: l’inizio di Luck, con l’uscita di prigione, doppia perfettamente l’evasione-incipit di Public Enemies), che Nolte è un altrettanto esperto padrone di scuderia che scopre di avere in casa un nuovo campione, che tre storici scommettitori hanno l’occhio abbastanza allenato per capirlo e ottenerne una vincita stratosferica, che nuovi fantini salgono alla ribalta, che il business è in crisi e che per uscirne organizza una bella guerra tutti contro tutti (vi ricorda qualcosa?) ecc. Non aggiunge perché – come già in Kubrick – più dei fatti a contare è proprio come si svolge e si dinamizza il racconto dei fatti.
Semmai bisogna dire che a raccontare il racconto di questa trasversale fluttuazione di palcoscenici (la pista, la sala scommesse, gli spalti, le stalle, le prigioni, gli alberghi, i ristoranti) dove tutto sembra emergere da uno sfondo che allo stesso tempo si erode e va in transizione, non poteva che essere Michael Mann, il regista che fa dell’immagine un progetto d’identità, cioè una danza attorno all’unica traiettoria che non smette di sfuggire. Il galoppo liberatorio pazzo e sottilissimo (Kafka ne sapeva qualcosa) del cavallo, da un lato, i milleocchi di scommettitori e allenatori, dall’altro (e i lampi dei colori scelti, bruni e verdi, rossi tramonto, incandescenti, scuri e umidi, ma anche lucidi e abbaglianti): ecco una perfetta metafora del cinema di Mann, che è sempre più una sorta di fisica sperimentale, aggrappato all’idea di corpo nel momento stesso in cui produce accanto la miriade di stati febbrili e di abissi e di dissimulazioni e di movimenti collaterali e di frenetiche derive che lo sbriciolano.
Il primo piano si allunga laggiù, la luce guizza ovunque, la vista alterna defezioni e conquiste. Televisivo? Classico? Diciamo ancora sfrecciante. Diciamo che i piani ascensionali di Miami Vice (versione cinema stavolta), qui piombano in autentici corridoi di luce. Diciamo che anche a costo di continui accecamenti si addensa un pensiero tragico, il tono bruciante di un romanticismo smarrito, come un tessuto di fantasmi che acquista spessore. Facendo di Mann forse l’unico a non scambiare mai la velocità per scarsa visibilità, ma per quella verticalità siderale e malinconica che ci fa sognare tutti di lasciare le redini e vibrare sulla terra che vibra «già senza collo di cavallo e testa di cavallo».
Una prima versione di questo articolo è comparsa su Alias del 10 marzo 2012.