morto-theo-angelolupos_02-large A Erland


Prologo


Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odyssea, 1995) è il film che – non solo per la posizione intermedia che occupa nella filmografia di Angelopoulos, tra la prima trilogia della storia, seguita da una serie di opere dal contenuto via via più esistenziale, e la seconda (incompiuta) trilogia della storia, anticipata da un film-ponte come L’eternità e un giorno – ci racconta meglio di ogni altro   che cosa significasse, per lui, il cinema: una perenne, estenuante meditazione per immagini sulle potenzialità e i limiti della visione cinematografica, sul complesso rapporto tra visibile e invisibile. Lo sguardo di Ulisse è il film che ci racconta meglio di ogni altro come ciascuna opera del regista greco sia stata un modo d’interrogarsi sul senso del fare cinema oggi, dopo l’eclisse del moderno e le mistificazioni del postmoderno – almeno a giudizio di Angelopoulos, che ha continuato fino alla fine a concepire il cinema come continuum narrativo e a sperimentarne la struttura più classica: quella del viaggio.


Corpo e spazio

Nel 1994, invitato, assieme ad altri grandi registi, a celebrare il centenario della nascita della settima arte, Angelopoulos accetta l’invito e naturalmente lo onora a modo suo, da coerente testimone di un cinema per definizione “alto” e di strenua assolutezza formale, fondato su un principio di rappresentazione della storia mutuato dalla drammaturgia antica e tradotto su palcoscenici di grande suggestione evocativa.


In Lo sguardo di Ulisse l’omaggio di rito ai fratelli Manakis, pionieri del cinema greco, si trasforma così in una ghiotta occasione di confronto – esistenziale e drammaturgico insieme – tra lo sguardo puro e innocente del cinema delle origini (vengono mostrati frammenti della prima prise de vue dei Manakis, datata 1905: il lavoro di filatura di un gruppo di contadine in un villaggio della Macedonia) e lo sguardo impuro e manierato del cinema di oggi, tra il prima della caduta e il dopo la caduta – dove la caduta è inevitabilmente rappresentata dall’esperienza delle guerre che hanno insanguinato l’Europa del Novecento, dalla Sarajevo del 1914 alla… Sarajevo del 1994.    Per questo parlavo di ghiotta occasione. Angelopoulos è vissuto e ha lavorato a due passi dal teatro di guerra dei Balcani. I Manakis hanno documentato negli anni Dieci del secolo scorso eventi culturali e politici (compresa l’esecuzione dei Macedoni insorti contro i Turchi nel 1907) della vita dei Balcani. È sufficiente immaginare che un regista greco di oggi – alter ego dell’autore e perciò chiamato A –, esule negli Stati Uniti e ritornato nella città natale, Florina, per presentare, tra aspre contestazioni, il suo ultimo film (dall’arena all’aperto si sente per qualche secondo il sonoro in inglese di Il passo sospeso della cicogna), si proponga di rintracciare le bobine perdute della prima pellicola dei Manakis e si predisponga all’impresa con la consapevolezza di dover attraversare gran parte dei Balcani in guerra per poter mettere le mani sul prezioso reperto, perché la dinamica del confronto tra gli sguardi prenda corpo e spazio. 

Spazio, in primo luogo. E, in secondo luogo, corpo. A non è forse un nuovo Ulisse alla ricerca di sé e della conoscenza attraverso mari e confini perigliosi? E non è forse chiamato, come Ulisse, ad anteporre alla nostalgia di Itaca – in questo caso la nostalgia del cinema del passato – la nostalgia, nel senso etimologico di desiderio pungente, di frontiere sconosciute da conoscere pur con tutto il loro cumulo di orrore? Per cui A le attraversa – Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania, Serbia, Bosnia – nella stessa misura in cui ne è attraversato, dimidiato, tagliato in due da quel medesimo conflitto che sta tagliando in due i Balcani. E le attraversa solcando un palcoscenico della storia che non è più, come in La recita (1975), un fattore aggregante della rappresentazione, funzionale a una comunità concorde di personaggi, bensì disaggregante, discordante, individualizzante.

 Se in La recita il movimento attraverso i tempi e gli spazi della storia era di natura collettiva e convergeva comunque verso un punto di comune appartenenza, il movimento di Lo sguardo di Ulisse – come già di Il volo, Paesaggio nella nebbia e Il passo sospeso della cicogna (1986-1991), una sorta di trilogia “dell’anima” che fa da preludio al film – è di natura dispersiva, erratica: indirizza A verso la deriva di frontiere sempre più labili, bianche di neve o di nebbia, battute da singoli profughi o clandestini o nomadi come lui, e non lo riconvoglia a sé, non essendoci alcun punto di appartenenza verso cui riconvogliarlo.
 
La vertigine del personalissimo dopo la caduta di Angelopoulos è in fondo tutta qui, rispetto a un prima che nella sua biografia è stato comprensibilmente carico di utopie (la caduta delle utopie coincide pressappoco con Viaggio a Citera, 1984). Tramontate le quali – il momento forte di Lo sguardo di Ulisse, con l’immagine di una gigantesca statua di Lenin fatta a pezzi per essere trasportata a bordo di una motonave lungo il Danubio, metaforizza probabilmente un tramonto del genere –, non resta a A/Ulisse che assecondare il pathos dell’erranza: da un confine all’altro, da una donna all’altra – il fatto che le provvisorie compagne di strada siano ben quattro, tutte interpretate dalla stessa attrice, e che nessuna di esse corrisponda a Penelope, la dice lunga sul carattere estetico della sua odissea, intrapresa come quella di Ulisse più per ritardarne che per affrettarne la conclusione. Sulle tracce di un pretesto – le bobine scomparse – concepito come puro invito al viaggio, anche se al fondo della notte, un viaggio, si badi, la cui sosta più intrigante non si consuma tanto nello spazio quanto nel tempo: a Bucarest, la Bucarest devastata dell’immediato dopoguerra – devastata ma illuminata dal ritrovamento della madre e dell’infanzia/identità perduta.
 
Il piano-sequenza, la nozione estetica per eccellenza – una nozione quasi metafisica – della pratica cinematografica di Angelopoulos, ha la capacità di incorporare porzioni quanto più vaste possibili del reale, di convogliare in sé spazi e tempi diversi, di spingere l’esplorazione del visibile oltre il limite, oltre la soglia stessa dell’inquadratura, là dove si apre un vuoto semantico che per forza di cose fa cessare la visione.

Ho appena ricordato, in un film come Lo sguardo di Ulisse, tutto pieno di sconfinamenti e di devianze, la sosta a Bucarest. A apre lo sportello del treno sul quale è salito a Plovdiv assieme alla seconda compagna di viaggio e si trova di fronte un cartello: Bucarest Nord. Ma non è la Bucarest del 1994, è la Bucarest del 1945. Il marciapiede della stazione è affollato di profughi, soldati, gente in attesa di parenti scomparsi, e A tende il braccio verso una donna con il tailleur e il cappellino, la fa salire, la scorta verso la carrozza. La quale non è però la carrozza moderna su cui viaggiava prima. È uno scompartimento da tempi di guerra; e la donna con la quale s’intrattiene in tenero colloquio non è la compagna che lo ha seguito fin lì: è, come accennavo, la madre, la madre ritrovata, la guida che lo introdurrà prima nello scenario sconvolto della Bucarest del 1945, pieno di cortei e bandiere rosse e sfollati, e poi nello scenario accogliente della vecchia casa borghese che è stata la sua, della famiglia che è stata la sua.

Un altro esempio: la prima inquadratura di carattere narrativo, ancora appartenente al prologo e inserita in dissolvenza dopo i frammenti del film dei Manakis sulle vecchie contadine all’arcolaio. Siamo nel 1954. Milton Manakis, in piedi su un molo e intento a riprendere con la cinepresa l’ingresso in porto di un veliero, improvvisamente si sente male e si accascia su una sedia, tra le braccia di un assistente. Finché un carrello da destra non fa entrare in campo A – e con lui il 1994 –, il quale assiste alla scena e in qualche modo eredita l’ultima visione di Milton Manakis, sostituendosi a lui nell’osservazione del veliero che lentamente si avvicina al loro punto visuale fino a occupare per intero, e a lungo, il centro dell’inquadratura. Simultaneità dei tempi e degli sguardi in un trapasso spazio-temporale che è a un tempo sincronia e diacronia, campo e fuoricampo, testo e contesto, centro e disseminazione.

Un altro esempio ancora, decisivo nell’economia dell’opera, in quanto coincide con la sua fase culminante, con il suo sigillo più tragico. Si tratta della quartultima inquadratura delle cento di cui il film si compone. A, una volta rintracciato Ivo Levy, il vecchio conservatore della cineteca di Sarajevo che custodisce le bobine dei fratelli Manakis, s’inoltra con lui e con la figlia di lui all’esterno della cineteca – ridotta ormai a uno scheletro a causa dei bombardamenti –, verso un luogo, una specie di campo sportivo, dal quale proviene la musica di un’orchestra. Tutto è avvolto da una matassa di nebbia, una coltre talmente fitta da offuscare la visione. S’intuisce la presenza di persone, di famiglie convenute, malgrado il pericolo, per onorare il giorno di festa, con i bambini che giocano e uno spettacolo all’aperto da godere in libertà. Poi, di colpo, si sentono degli spari. Ivo Levy si stacca da A e corre verso il punto da cui provengono grida concitate, urla di dolore. È successo qualcosa di drammatico. Probabilmente un massacro degli innocenti. Ora accorre anche A, ma è troppo tardi per soccorrere Ivo e la figlia. Gli amici che gli hanno aperto le porte della cineteca e con essa del cinema perduto dei Manakis sono stesi per terra, morti. Mentre la nebbia continua a infoltirsi, a nascondere pietosamente l’eccidio. Ma è solo questione di pietas? È solo questione di drammaturgia, di regime della rappresentazione? O, con il naufragio della storia, non sta forse naufragando anche il regime della visione, naufragando verso una non-storia, una non-visione, che appare davvero come l’ultima frontiera del filmabile?

Pensiamo alla teoria del quadrage di Pascal Bonitzer. Fino a che punto può spingersi l’inquadratura? Fino a che punto può spingersi l’immagine per potersi ancora dire veicolo di senso? Fino a che punto può spingersi il piano-sequenza nella sua delineazione di un percorso condivisibile dall’autore e dallo spettatore? Quanto di dicibile e quanto d’indicibile può contenere? Perché non basterà a A/Ulisse assimilare, nelle tre sequenze che rimangono, lo sguardo innocente dei Manakis. Sì, potrà finalmente far scorrere sul video le immagini della pellicola ritrovata, ma noi spettatori non vediamo il contenuto di tale epifania. Non vediamo nulla. Solo il bagliore bianco del proiettore. Bianco come la nebbia della quartultima visionaria sequenza. Si dirà. Quelle immagini le abbiamo già viste all’inizio, e l’epilogo vuoto non fa che rinviare al pieno del prologo. Può essere, ma Angelopoulos non ci conforta con alcuna certezza. Anzi, fa dire a A, con gli autorevoli versi di Omero, che il viaggio non può dirsi finito, che la ricerca continua, perché «anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà guardare nell’anima».


Epilogo

Devo alcune delle suggestioni del presente saggio a un libretto (rielaborazione di una tesi di laurea: relatore Marco Dinoi) di Gabriele Biotti, Il cuore della visione, Prospettive Editrice, Siena 2005. L’analisi che vi è contenuta, con la trascrizione del film nelle sue cento sequenze e la teoresi “radicale” che la percorre, mi ha molto aiutato nella disamina della “radicalità” del cinema più recente di Angelopoulos (il mio pionieristico “Castoro” del 1978 si fermava obbligatoriamente a I cacciatori).

Quanto alla dedica, il caso ha voluto che la morte di Erland Josephson, l’Ivo Livy di Lo sguardo di Ulisse, a un mese di distanza da quella di Theo Angelopoulos, aggiungesse in me, bergmaniano della prima ora (una tesi di laurea nel 1968 e, trent’anni dopo, una monografia) emozione a emozione, indirizzando forse il mio inconscio a privilegiare la rivisitazione di Lo sguardo di Ulisse rispetto a quella di un altro o di altri film o dell’intera filmografia del regista scomparso.