(Versione originale)
La mia amicizia con Theo Angelopoulos risale al 1971, anno in cui fu rappresentata ad Atene la mia prima pièce teatrale. L’anno precedente era uscito il suo primo film Ricostruzione di un delitto. Ne ero entusiasta. Theo Angelopoulos utilizzava un linguaggio cinematografico, su più livelli, completamente nuovo. Anche il suo sguardo sulla contemporaneità greca ai tempi della dittatura militare era nuovo: distaccato e oggettivo. Esaminava minuziosamente la situazione di uno spopolato villaggio greco con lo sguardo distante dell’osservatore.
Dopo la rappresentazione della mia pièce venne da me e mi chiese se io volessi prendere parte, come co-sceneggiatore, al suo prossimo film.
«Volentieri, ma non ho idea di come si scriva una sceneggiatura.»
«Non fa nulla. Te lo mostrerò io.»
Era l’inizio di un’amicizia destinata a durare quarant’anni, sino alla sua morte.
Da Theo ho imparato la tecnica di scrittura di una sceneggiatura. Ma le sue sceneggiature assomigliavano più a delle opere di prosa. Poiché lui non girava scene o inquadrature individuali, bensì sequenze, aveva bisogno di una narrazione particolareggiata. Non poteva iniziare da quelle che nelle sceneggiature sono le solite tecniche di scena.
Si scriverà all’infinito sui piani sequenza di Theo Angelopoulos. Quello che io non vi trovo quasi mai è l’influsso di Brecht su Theo. Le sequenze dei suoi film sono molto simili alla struttura delle pièce di Brecht. Brecht racconta in una singola “immagine” una storia autonoma, che viene inserita in una pièce attraverso la tecnica di montaggio. Analogamente funzionano le sequenze nei film di Angelopoulos. Raccontano piccole storie indipendenti che vengono poi congiunte in un taglio onirico.
Questo lo si può spiegare facilmente. Theo ha girato il suo primo film durante la dittatura militare. Brecht a quei tempi rappresentava per tutti noi l’emblema, artistico, della resistenza alla giunta militare. Entrambi ne eravamo fortemente influenzati. E forse il fatto che noi ci comprendevamo così bene dipende proprio da questa radice comune.
Il lavoro su una sceneggiatura iniziava sempre con una telefonata. Theo: «ho una nuova idea. Dobbiamo discuterne».
E si trattava realmente di “discutere”. Perché ci impegnavamo in discussioni infinite che duravano settimane, mesi. Quella sulla sceneggiatura di Lo sguardo di Ulisse (1995) durò poco meno di sei mesi.
In queste discussioni spesso non si parlava del tema del film o della sceneggiatura. Erano discussioni generali sulla politica, sui film che vedevamo, o sui libri che avevamo letto. Ci approssimavamo al tema seguendo strade tortuose.
Solo dopo queste discussioni eravamo in grado di scrivere un riassunto dell’idea del film o una piccola storia sul tema. E per elaborare la storia nei dettagli ci volevano ancora ulteriori settimane. Solo allora iniziava il vero e proprio lavoro sulla sceneggiatura.
Collaborare con Theo non era un’impresa semplice. Ci siamo scontrati continuamente, perché lui scriveva in prima persona e io avevo la funzione di un redattore. Avanzavo continue obiezioni, non mi convinceva questa o quest’altra cosa della sceneggiatura, proponevo correzioni. E quando lui non ce la faceva più, usava sempre la stessa argomentazione:
«lavoriamo insieme da trent’anni ma sull’arte e sulla tecnica cinematografica da me non hai imparato niente».
«Hai perfettamente ragione. Ma non ho avuto tempo. L’ho dovuto impiegare tutto a correggere le tue mediocri sceneggiature».
«Come? Le mie sceneggiature sono mediocri?», si arrabbiava Theo.
E poi cominciava a ridere e io ridevo con lui. Era una sorta di sketch ricorrente fra di noi.
Quando si faceva sul serio, gli dicevo: «sono sicuro che puoi trovare una soluzione migliore, e aspetterò fin quando sarai pronto».
Dopo di che sospendevo qualunque contatto. Passavano tre giorni o una settimana e poi il mio telefono squillava di nuovo. Di solito la chiamata arrivava la mattina molto presto. E mia madre gridava dalla sua camera da letto «Angelopoulos!».
Era ogni volta proprio così. «Continuo a non essere affatto d’accordo con le tue obiezioni, ma ho un’idea».
Se ci ripenso, allora credo che questa piccola frase «ho un’idea» è ciò che mi ha legato più fortemente a Theo. Ho sempre ammirato il suo talento nel risolvere tutti i problemi e le controversie con delle nuove idee.
La maggioranza dei registi mi snerva, perché si aggrappa a delle ideuzze e non vuole mollarle. L’argomento stereotipato suona: «me lo sono immaginato così».
E tuttavia, quando mi arrabbiavo veramente, perché lui si ostinava testardamente su un’idea, mi è sempre venuta in mente la frase di Spinoza, dall’Etica: «tutte le cose preziose sono tanto difficili quanto rare».
Per me il lavoro con Theo era veramente prezioso e quindi doveva essere anche difficile. Ed era straordinario. Non ho avuto la stessa relazione con nessun altro regista che fosse di cinema o di teatro.
Il terzo membro del team di sceneggiatura era Tonino Guerra. Per quanto possa suonare assurdo, in questi quarant’anni non abbiamo mai lavorato in tre. Tutto muoveva da Theo. Di solito andava così: io e Theo lavoravamo alla sceneggiatura e quando avevamo abbastanza materiale, allora Theo andava in Italia. Di solito lavorava con lui una settimana. Dopo di che ritornava con i suggerimenti e le osservazioni di Guerra e ci rimettevamo al lavoro. E tutto questo si ripeteva dalle tre alle quattro volte.
Lungo tutti gli anni della sua attività creativa in Grecia è circolata la voce che Theo fosse un uomo difficile, duro ed esigente. Può anche darsi, ma quelli che hanno diffuso questa voce tacciono intenzionalmente quanto egli fosse duro ed esigente con se stesso.
Quando lavorava ad un nuovo progetto era come posseduto, non si concedeva nessuna pausa e aveva a malapena una vita privata. Solo quando diventò nonno trovò una qualche pace e si concesse del tempo per i suoi nipoti.
Quello che in Grecia, inoltre, si tace è la fedeltà di Theo ai suoi collaboratori. Non eravamo solo io e Tonino Guerra. Lui ha lavorato sempre con la stessa gente e la stessa troupe. Loro lo seguivano ovunque, in qualunque situazione.
Quando lavoravamo alla sceneggiatura del film Lo sguardo di Ulisse, aveva la fissazione di girare le scene ambientate in Jugoslavia a Sarajevo.
«È assurdo. A Sarajevo infuria la guerra. Non otterremo mai un permesso.»
Come sempre si ostinò sulla sua idea. La sua compagna era terrorizzata. Io la calmai ed ero pressoché sicuro che non avrebbe ottenuto alcun permesso. Alla fine se ne sarebbe convinto lui stesso che era impossibile.
«Bene! Non posso girare a Sarajevo», disse facendo marcia indietro, «ma a Mostar sì. Dobbiamo muoverci, perché adesso a Mostar vige un cessate il fuoco e possiamo andarci».
«Theo ma abbiamo appena mezza sceneggiatura pronta.»
«Lo so ma non ho alternative.»
Non solo i suoi collaboratori e la sua troupe andarono con lui, senza preoccuparsi del pericolo, ma lo fecero anche i suoi tre attori principali Harvey Keitel, Maia Morgenstern e Erland Josephson. Theo aveva una forza di persuasione immensa.
Mi telefonava da Mostar ogni due sere per discutere con me sulla sceneggiatura. È sopravvissuto a Mostar e ora è morto in un assurdo incidente stradale ad Atene. La vita può essere così perversa.
Theo Angelopoulos. La sua vita e la sua opera si sono formate in circostanze veramente difficili. È cresciuto nella povertà della Grecia postbellica, della guerra civile e del dopo guerra civile. E ha girato i suoi primi tre film durante la dittatura militare. La sua vita e il suo lavoro sono la migliore dimostrazione che l’arte e il talento possono vincere la povertà e delle circostanze difficili. Una lezione preziosa in un tempo in cui, di nuovo, la Grecia è sconvolta da una crisi difficile ed è ritrascinata nella povertà.
[Traduzione di Arcangelo Licinio]