Seconda puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov riletta nei termini della fiaba. Dopo il Faust (2011), il riavvolgimento del nastro prosegue verso Il Sole (2005).
«C'era una volta...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno». (Collodi)
Il Sole è la storia di un dio burattino che voleva diventare un bambino vero. Il burattino si ritrova a capo del Giappone, viene nominato imperatore e venerato dai sudditi come una divinità. Non deve far nulla, ma quel nulla deve farlo bene: scrivere patetiche poesie, sezionare granchi, presiedere riunioni di gabinetto, mangiare, dormire e andare regolarmente al gabinetto. Ma soprattutto deve reggere la pantomima del dio sceso in terra, lanciare proclami, difendere l'orgoglio di una nazione – se necessario, fino a far la guerra.
Se poi la guerra la dichiara davvero (e gli capita pure la sfortuna di farla con gli americani, che la prendono troppo sul serio e, pieni di retorica e privi di ironia come sono, la fanno diventare mondiale per la seconda volta) e le cose vanno male, ecco che al burattino iniziano a venire i primi dubbi. Si guarda intorno, e vede che il palcoscenico del palazzo reale si è ridotto a uno scantinato antiatomico. Il copione e le coreografie di rito dei cortigiani sono diventati d'improvviso grotteschi. Unico segno della sua gloria, un separé dorato a far da sfondo ai suoi consigli da gabinetto. Il burattino comincia a sospettare che esistano dei fili che conducono i suoi movimenti: del resto, è egli stesso ad aver bisogno di un servitore che lo guidi per non perdersi nei cunicoli del bunker e che gli elenchi il programma della giornata. Sembra che la sua divinità consista proprio nel non appartenere al mondo, nella noncuranza per gli affari terreni: sono altri a prendere le decisioni per il suo popolo e del suo popolo il burattino preferisce non saperne nulla. Ma non è per la sua indifferenza che il popolo lo guarda con circospezione: egli è figlio del dio-sole e dio egli stesso, è l'incarnazione della gloria divina, ma questo figlio e dio non vuole più avere nulla a che fare con il sacro.
A tutt'oggi l'immagine dell'imperatore, per i giapponesi, non è raffigurabile. Sokurov pare avere anch'egli la stessa soggezione, ponendo spesso la camera in basso e mettendo tutto a fuoco, in modo tale che ogni elemento della scena sia nitido. Da questa posizione contempla le immagini che egli stesso compone, riducendo al minimo i movimenti di macchina in luogo di mistici long take. Ma per rappresentare l'irrapresentabile decide di desaturare l'aria della luce solare: la fotografia del film, curata dal regista stesso, è ingrigita, fredda, come se un altro sole, ben più potente (la bomba nucleare) sia sceso sulla terra e, una volta spentosi, abbia portato via con sé la luce del dio. Non resta quindi che filmare la bigia vita quotidiana di una marionetta.
Si vede il dio burattino giocare con tre statuette, feticci dell'Occidente. Uno (e che sarà il primo a finire in un cassetto) è Napoleone, il condottiero che si incoronò da solo, senza aspettare che fosse un potere spirituale a legittimarne l'impero. L'altro è Lincoln, simbolo, suo malgrado forse, dell'eguaglianza: e il dio si è persuaso che il suo corpo non sia diverso da quelli degli altri uomini. L'ultimo è Darwin, punto di riferimento per i suoi studi naturalistici, e un dio che crede nell'evoluzionismo è un dio che non crede più in se stesso. Tre feticci che paiono star lì a rappresentare la secolarizzazione del potere, della società e della scienza.
Poi il burattino viene ripreso mentre sfoglia un album di foto color seppia: eccolo con il suo costume da gentiluomo inglese – come sta bene fra gli alberi della campagna!; eccolo con la moglie, così aggraziata nel suo vestitino da fanciulla in fiore; e poi i figli, in braccio alla madre, o nel passeggino, con la bandierina nazionale: tutte immagini da oleografia, da nido familiare borghese. Eppure l'atmosfera (come spesso accade durante il film) è perturbata da qualche sibilo o fruscio o ronzio di sottofondo che genera inquietudine. Subito dopo prende un altro album e stavolta sfoglia le foto delle star di Hollywood: ecco, queste sì che sono immagini eteree, divine (da divi), l'unica gloria rimasta è quella che traspare da quei volti. Il sole si è tramontato in Oriente per spuntare in Occidente.
Gli americani vincono la guerra e portano con loro il Governo della razionalità a discapito del Regno glorioso dei giapponesi. Di colpo il tempo del mito finisce, il mondo perde ciò che resta della sua innocenza ed esce definitivamente dall'infanzia. Il generale americano MacArthur, di stanza a Tokyo, dirà dei giapponesi che "sono come bambini" e, tanto per essere coerente con il proprio pensiero, nel film regala delle casse piene di cioccolata all’imperatore.
Il burattino si accorge di regnare senza governare: il suo imperio è legittimato dalla natura divina, ma questo non si traduce in una reale amministrazione delle cose. È come se a guidare il destino del suo popolo fosse il dio sole di cui egli è un riflesso intrappolato in uno specchio: in questo specchio il popolo giapponese vede se stesso e quindi la propria superiorità divina rispetto agli altri popoli.
Se il burattino non ha libero arbitrio allora non ha colpe per il disastro nucleare, è innocente come un bambino, sebbene questo bambino sia figlio del dio sole. Il dio è invece libero, regna e governa, ovvero decide: per questo è responsabile (quindi colpevole) della rovina precipitata sul suo popolo. Il burattino per restare innocente deve liberarsi della sua natura divina e diventare un bambino.
L'uscita dallo stato di divinità è messo in scena senza drammi, senza alcun senso del tragico. Il luogo è un raffinato salotto borghese illuminato dalla debole luce lunare in cui la coppia imperiale colloquia amabilmente del cambiamento avvenuto. Sembra di assistere al dialogo di un film classico in bianco e nero, il marito potrebbe anche solo dire «cara, sono stato trasferito a un altro ufficio ma stai tranquilla, lo stipendio rimarrà invariato» e la scena reggerebbe allo stesso modo. È come se i due non stessero aspettando altro, la moglie accoglie con un certo sollievo la notizia: «Siamo liberi» le dice il marito «ho rifiutato il destino e non sono più una divinità». La moglie può togliersi il velo che fino ad allora ha portato sul volto per proteggersi dallo splendore della gloria del sole. Su questo gesto di "svelamento" Sokurov indugia molto quasi a farlo diventare una sorta di rituale. L'imperatore era il tramite della gloria divina tanto che prima non si poteva guardare in volto senza restarne abbacinati: è un'immagine molto simile a quella biblica del volto di Mosè, sebbene rovesciata. Nell'Esodo si racconta che Mosè, strumento e tramite del volere divino, incontrava dio in una tenda e che, alla fine dei suoi convegni con la divinità, si metteva un velo sul volto per non accecare gli ebrei, tanto era splendente la gloria che la sua pelle rifletteva.
Disconosciuto il suo dio, il volto dell'imperatore, anch'egli strumento e tramite divino, non risplende più. Ma non è per questo che ha perduto la gloria. La vera infrazione è proprio l'aver scelto, il burattino in fine ha fatto la sua prima decisione infrangendo il suo stato di inoperosità e rifiutando il ruolo di beata marionetta che gli era stato assegnato dal destino.
Perso il riflesso del dio, si rompe lo specchio divino in cui il popolo giapponese vedeva il suo destino di dominatore sugli altri popoli. Crolla un intero sistema governamentale, non senza macchiare questa scelta con il sangue: il radiotrasmettitore che ha letto il messaggio con cui l’imperatore comunicava la sua decisione fa harakiri.
E con lui pare suicidarsi il sentimento religioso, ovvero la trascendenza, la gloria stessa che nel Novecento, secolo secolarizzato, sembra non avere posto. Eppure Sokurov con la sua stessa arte pare mettere in discussione tutto questo, forse sapendo che a dare la gloria sono i poeti - e le sue Elegie sembrano fatte per questo scopo, un continuo glorificare e girare a vuoto di immagini e pellicola per liberarsi del linguaggio significante e razionale. Così dio può essere un'invenzione letteraria per giustificare la composizione e la recitazione degli inni e dei poemi; e il compito di "edificazione dell'umanità" (l'idea di umanità è solo una costruzione artistica) risulta essere un escamotage che l'arte ha trovato per darsi un senso di utilità, per tranquillizzare i benpensanti che la osteggiano considerandola un futile passatempo.
L'arte di Sokurov sembra fatta per rompere gli schemi del cinema, insinua il dubbio che la forma quadrangolare dello schermo sia una convenzione inadatta allo splendore delle sue immagini. Fulgida è la visione che il burattino ha della guerra durante un delirio da insonnia: pesci gatto fluttuano nelle increspature dell'aria incendiata dalle bombe e si ha l'impressione di essere in un sottomarino e di assistere allo spettacolo deformato dall'eccentricità di un oblò. Accecante è la scena in cui il burattino accosta il volto alla riproduzione di un disegno di guerra le cui figure paiono sovrastarlo come ingrandite al fuoco di una lente. E forse per contenere il fulgore abbacinante dell'immagine sarebbe meglio abbandonarsi a una visione su uno schermo circolare, tondo come uno specchio da camera o un ostensorio simile al disco solare.
Correndo il rischio di essere bacchettati dallo stesso Sokurov (2009):
«Nella gioia infantile c'è troppo corpo e troppa poca anima. Nella vita di un bambino la componente fisica ha un peso eccessivo, la necessità di banali "raggi di sole" è preponderante. Il compito di un adulto intelligente dovrebbe consistere nel far disimparare gradualmente ai bambini questo egoistico amore per il sole...»
Bibliografia
Sokurov A. (2009): Nel centro dell’oceano, Bompiani, Milano.
Filmografia
Il Sole (Solntse) (Aleksandr Sokurov 2005)
(continua)