cristo_in_corpo«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Merleau-Ponty)

Pasolini è stato un uomo d’azione, «carico di rabbia politica e sociale, di una consapevole tristezza e di una tragica solitudine» (Morandini in Pasolini 1998, p. I), pronto a «gettare il proprio corpo nella lotta» (Pasolini 2003, p. 150), a fare della propria biografia, non soltanto intellettuale, materiale pubblico del suo fare poetico.
Il percorso artistico pasoliniano è profondamente segnato dallo scandalo della corporeità, dalla fisica e fortemente anomala partecipazione dell’autore alla sua opera. Il poeta, riversandovi la propria esistenza (anche quella più intima, personale, sempre però filtrata e arricchita da influenze letterarie ed artistiche che, come messo in luce da Stefano Casi (cfr. Casi 1990, pp. 23-25), hanno dato vita non tanto a un codice autobiografico quanto piuttosto autobiografistico), risulta essere sempre presente «come protagonista corporeo, scrivente-scritto e quasi toccabile» (Giudici in Pasolini 1995-1999, p. XIX).


La sua opera (un unicum nel panorama culturale italiano, e, nel suo proprio svolgimento, un continuum dove non è possibile rintracciare soluzione di continuità  tra i differenti universi espressivi con i quali è arrivato a confrontarsi), come fa notare Giovanni Giudici, è un’entità translinguistica, non condizionata da una particolare lingua di comunicazione; da intendersi semplicemente come azione, come utopistica forma espressiva aperta e libera: «Nella dilagante liturgia dell’azione-poesia pasoliniana c’è un attore unico e polivalente. È, dunque, lui stesso il suo testo; e non soltanto per ossessione narcisistica, ma anche per quella fame di “realtà” che forse non sopporta l’idea di uno “scritto” scisso dall’“atto” e dall’«attore» dello scrivere» (ivi, p. XVI).
La scrittura pasoliniana, dunque, qualunque forma assuma (poetica, prosastica, filmica, corsara) si fa inevitabilmente proiezione e prolungamento del corpo del suo autore, così come questo, a sua volta, diventa linguaggio attraverso il quale egli può esprimere, per mezzo di un differente canale espressivo, la propria personale concezione etica ed estetica. Corpo dunque come entità polisemica e ambivalente che Pasolini ha saputo interpretare magistralmente divenendo, di fatto, uno dei grandi interpreti della corporeità: «Al lettore […] di Pasolini non resta altra scelta che quella di portarsi a casa, ancor prima del poema, il Poeta» (ivi, p. XX, mio il corsivo).

Tutto ciò ha impedito a Pasolini di adottare cauti distacchi dai propri interventi; a chi gli domandava quali fossero i fondamenti delle affermazioni e delle denunce contenute nei suo scritti polemici, rispondeva: «Queste cose le so perché le vivo». Nella consapevolezza del rischio rinnovato e crescente man mano che le sue scelte lo portavano più lontano dall’élite progressista, come dal sistema, Pasolini ha deciso ogni volta inflessibilmente di continuare a perseguire la propria mania di verità, consumata con sempre più terribile, allucinante amarezza: «Ma bisogna pure che qualcuno porti sulle miserabili spalle una croce [...] Perdere la reputazione per una santità equivoca» (Pasolini 1995-1999, p. 956).

Una «disperata passione di essere nel mondo» (ivi, p. 232), di «restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo» (ivi, p.196), che lo ha accompagnato fin dall’inizio della sua strada, facendosi criterio di esistenza, di conoscenza, «accorata sete di chiarezza» (ivi, p. 195), di lotta ideologica e politica, di ricerca espressiva: in altri termini consapevolezza critica. È stato un artista che ha avuto il coraggio di mettere in scena le sue contraddizioni fino all’esibizione, che ha scritto anche per mezzo della propria azione, non a caso da lui considerata come il «primo e principe linguaggio degli uomini» (Pasolini 2003, p. 199): «Una doppia scrittura capace di coesistere e di connettersi poiché egli la considerava non una spaccatura tra arte e vita bensì la possibilità e il piacere di […] una “contaminazione totale”» (Oliva in Pasolini 1995, p. 92). Egli sentiva il bisogno di allargare la concezione del linguaggio, includendo nuove possibilità di comunicazioni umane, di segni. Quello che Pasolini ha cercato di mettere in atto è stata una scrittura del quotidiano, dettata da un’esigenza di confronto, da un bisogno di comunicazione reale. Ciò che egli cercava non era il consolidato rapporto gerarchico solito stabilirsi tra artista e pubblico, ma un contatto diretto, personale con il proprio interlocutore, per lui condizione essenziale per la creazione dell’opera:

«Lo spettatore per l’autore, non è che un altro autore […]. Se infatti lo spettatore fosse in condizione subalterna rispetto all’autore […] allora non si potrebbe parlare neanche di autore […]. Se dunque parliamo di opere d’autore, dobbiamo di conseguenza parlare del rapporto tra autore e destinatario come di un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari. Lo spettatore non è colui che non comprende, che si scandalizza, che odia, che ride; lo spettatore è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona. Tale spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore: ambedue infrangono l’ordine della conservazione che chiede o il silenzio o il rapporto in un linguaggio comune e medio» (Pasolini 2003, p. 270-71).

Pasolini ha posto il fruitore della sua opera in una condizione di complicità, lo ha fatto godere dell’atto  di trasgressione che egli, «martire per autodecisione» (ivi, p. 275) ha compiuto contro la «normalità conservatrice» (ivi, p. 271). Egli ha condotto sino alle estreme conseguenze il precetto secondo il quale l’artista, in quanto tale, ha dovere d’infrangere la norma; un’infrazione che, per essere realmente efficace, deve esplicitarsi al massimo, farsi esibizione: «In ogni autore, nell’atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell’atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone (e proprio alla lettera) agli altri» (ibidem). La trasgressione del codice, che l’autore compie per mezzo della propria azione, deve essere estrema, radicale, scandalosa: «“Libertà”. Dopo averci ben pensato ho capito che questa parola misteriosa non significa altro, infine, nel fondo di ogni fondo, che […] “libertà di scegliere la morte”» (ivi, p. 269).

Quasi una missione cristologica quella delineata da Pasolini, che non a caso, nel Vangelo secondo Matteo, impose a sua madre Susanna la parte e il dolore della Madonna, ponendo così, di riflesso, se stesso come protagonista della Passione; un paragone forse azzardato, che trova però conferma nella performance Intellettuale a cui il poeta prese parte. Il 31 maggio 1975, negli spazi della Galleria d’Arte moderna di Bologna, l’artista Fabio Mauri proiettò sulla camicia bianca indossata da Pasolini sequenze del Vangelo. Stando alle testimonianze, chi ebbe modo di partecipare  rimase interdetto per l’insolita scena. L’artista si fece specchio della propria creazione. Autore ed opera formarono un’inseparabile e drammatica unità materiale e concettuale

«La proiezione provoca un effetto singolare: possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una ‘passione’ che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito (Mauri in "Pagine corsare")».

Il regista prestandosi a questa performance non ha esitato a fare della propria persona fisica un territorio da esplorare, un tramite relazionale, un nuovo mezzo espressivo attraverso cui dare forma a poetiche affermazioni di esistenza. Si è posto nel duplice ruolo di artefice e di artificio, creando intenzionalmente un cortocircuito interno al rapporto tra operator e spectrum (Barthes 1980, p.12), e tra ciò che è tangibilmente fisico e l’immaterialità dell’immagine cinematografica. Ha agito in funzione dell’altro, mosso dalla necessità di mostrarsi per poter essere meglio compreso, per esplicitare, a quanti ancora non l’avessero capito, le forti implicazioni sentimentali e intellettuali tra sé e le proprie creazioni. Del resto è lui stesso ad aver dichiarato: «Tutte le opere sono autobiografiche, anche quelle in cui non si possono decifrare elementi autobiografici espliciti» (Pasolini 1991, p. 254).

Qui corpo fisico e corpus artistico si legano senza soluzione di continuità in un tutto inscindibile. Pasolini si è lasciato trafiggere dalle sue stesse immagini, crocifiggere dalla propria crocefissione, vittima di una performance che trasuda vocazione al martirio. Tensioni autentiche che si esasperano nella simulazione; i conflitti di cui si è spettatori sono conficcati nel corpo stesso dell’autore-attore, che in una sorta di autoresponsabilizzazione sperimenta sulla sua pelle gli effetti della propria opera.
Quello che emerge dal testo di Matteo è un Cristo mite e violento, animato da una continua tensione verso il suo obiettivo di redenzione del male terreno; un tratto quest’ultimo che consentiva al poeta una sorta di immedesimazione “autobiografica”. Pasolini era certo di contenere il Vangelo che aveva decifrato. L’identificazione è totale, egli ha ritrovato nella propria “diversità” morale la stessa angoscia irruenta e non violenta di Cristo, egualmente dolorosa e incomunicabile, cristallina eppure impenetrabile. La stessa radicalità, la stessa irremovibilità nel perseguire l’obiettivo di una rivoluzione “senza sangue”:

«Dal punto di vista interiore, non credo di avere mai fatto una cosa più mia, più tagliata addosso a me del Vangelo, per […] la mia tendenza a vedere sempre e in ogni cosa, anche negli oggetti e negli eventi più banali, ripetitivi, semplici, qualcosa di sacrale, mitico, epico. In questo senso Il Vangelo era la cosa più adatta a me, anche se non credo nella divinità di Cristo, perché la mia visione è religiosa, improntata a una religione mutila, perché non ha nessuna delle caratteristiche esteriori della religione, ma è tuttavia una visione religiosa del mondo, e perciò per me fare Il Vangelo è stato il culmine del mitico e dell’epico» (Pasolini in Ballerini 2003, p. 27).

Cristo rimane per Pasolini il modello esistenziale e teorico di fondo, l’indubbia origine culturale di quel rifiuto della frattura tra ideologia e vita: «Sono come Cristo ma io sono certamente l’opposto, psicologicamente, di Cristo. Però mi identifico con lui perché come lui soffro, come lui pago questa mia ‘violenza’ nei confronti della società, come lui pago questo mio rifiutare totalmente il mondo nel quale vivo» (Pasolini in Di Giammatteo). Il volto di Cristo è dunque uno specchio in cui Pasolini vede riprodotto se stesso: un autoritratto frutto di un’identificazione proiettiva, la quale ha il suo reciproco nel fatto che è Cristo stesso che si è identificato con noi, che per decreto divino, ha deciso di rappresentarci tutti:

«Nella misura in cui Cristo rappresenta appunto tutti noi, nella misura in cui questa sovraindividualità è il frutto della somma delle nostre singole individualità, il suo volto che, al di là di ogni consolidata iconografia, resta comunque intrinsecamente ignoto, potrà diventare il nostro stesso volto; e ciascuno di noi cercherà di raffigurare o raffigurarsi Cristo con il proprio sembiante, quasi a riempire con questa ‘incarnazione’ della nostra psichicità un vuoto intollerabile» (Ferrari 2004, p. 58).

D’altra parte il presupposto di quest’associazione lo troviamo già nella Genesi, dove si dice che l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Quindi l’uomo  (ciascun uomo) è già di fatto l’autoritratto di Dio. Cristo, in quanto sua incarnazione, ne costituisce il prototipo e il tramite più immediato. In fondo l’artista che si ritrae nei panni di Cristo non fa che dare oggettività a questa premessa teorica. Ad accrescere la suggestione dell’ipotesi che il volto di Cristo vada considerato sostanzialmente come autoritratto dell’uomo abbiamo anche un passo dell’ultimo canto del Paradiso:

«Quella circulazion che sì concetta
Pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circospetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi pareva pinta de la nostra effige:
per che’l mio viso in lei tutto era messo»

Forzando un po’ l’interpretazione del testo, possiamo dire che Dante guardando quella luce accecante riesce a vedere e riconoscere Cristo solo come espressione della propria immagine. Suggerisce che il farsi uomo di Cristo passa attraverso questa identificazione di ogni uomo con lui, nel senso che Cristo si è incarnato per rappresentarci tutti, Cristo è dunque ciascuno di noi e noi siamo Cristo (ivi, p. 62).
Ma Pasolini, facendo interpretare la straziata pietà della Vergine di fronte al figlio morente a sua madre Susanna, decide di autoritrarsi, di immedesimarsi in Cristo proprio nel momento del suo massimo sacrificio. Nell’immedesimazione con il Cristo della Passione e dei dolori, l’arista si fa interprete del disagio della civiltà e sembra voler assumere su di sé, al pari di Lui, tutti i peccati del mondo per redimerli attraverso il sacrificio della sua arte. Nella sua riflessione-imitazione del Cristo esposto, Pasolini si lascia segnare un marchio indelebile nella carne: un modo d’essere, un metodo cioè, di tutto il proprio discorso-prassi.

«Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?)
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda passione…
(questo vuol dire il Crocifisso?
Sacrificare ogni giorno il dono
Rinunciare ogni giorno al perdono
Sporgersi ingenui sull’abisso)» (Pasolini 1995-1999, pp. 376-77).

Come ricordato da Stefano Ferrari, alcuni artisti che si cimentano nell’autorappresentazione mirano a «fare di sé e della propria faccia un correlativo di un sentire universale, seppure nella disperazione più estrema» (Ferrari 2002, p. 184); il che porterebbe a pensare che anche la ferita possa essere ricondotta all’espressione di una condizione esistenziale che non riguarda esclusivamente l’individuo ma comprende l’umanità. È la ricerca di un simbolo, di un equivalente figurativo che sia in grado di esprimere al meglio il proprio stato interiore. L’artista «che sanguina mette a nudo la sua vita e la sua anima è un setaccio sempre a disposizione di chiunque voglia entrare a guardare: egli vi dirà tutto di sé» (Hillman 1988, p. 24):

«L’autoritratto “ferito” riflette le vicissitudini esistenziali a cui si sente soggetto l’artista, in quanto la stessa vocazione artistica viene percepita […] come destinata a un ruolo di sovversione e quindi di rischio all’interno della società, dal momento che l’arte, tutt’uno con la vita, richiede, come la fede, che si sia pronti al sacrificio» (Ugolini in Ferrari 2004, p. 92).

Come sostenuto da Evgenij Evtuscenko «Pasolini cominciava dal prendere su se stesso le colpe dei colpevoli senza colpe. Alcuni, con derisione, consideravano questa “colpevolizzazione totale” come un complesso da intellettuale […]; invece, questo è proprio il cristianesimo» (Evtuscenko in «Pagine corsare»).  E questo è «quello che più mi colpisce di Pasolini. Oltre la lucidità del pensiero, è intuire il prezzo della disperata offerta di sé stesso, che fece redenzione della catastrofe di cui è stato testimone. Sento che quell’offerta è la misura dell’onestà di un’artista» (Ferrario 2000).


Bibliografia e sitografia:

Barthes R. (1980), La camera chiara: nota sulla fotografia, Einaudi, Torino.

Casi S. (a cura di) (1990), Desiderio di Pasolini. Omosessualità, arte e impegno intellettuale, Sonda, Torino.

Ferrari S. (2002), Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari.

Ferrari S. (2004), Il ritratto di Cristo come autoritratto dell’uomo, in S. Ferrari (a cura di), Autoritratto, psicologia e dintorni, Clueb, Bologna.

Hillman J. (1988), Saggi sul Puer, Cortina, Milano.

Pasolini P.P. (1991), Le regole di un’illusione: i film, i cinema, a cura di L. Betti e M. Galinucci, Fondazione “Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma.

Pasolini P.P. (1995), Oder Die Grenzüberschreitung, organizzar il trasumanar, a cura di G. Zigaina e C. Steinle, Marsilio, Venezia.

Pasolini P.P. (1998), Il vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea, Garzanti, Milano.

Pasolini P.P. (1995-1999), Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Garzanti, Milano, 2 voll.

Pasolini P.P. (2003), Empirismo eretico, Garzanti, Milano.

Ballerini D. (2003), Edipo Re e Medea di Pier Paolo Pasolini: mito, visione e storia di due sfortune

Di Giammatteo F., Conferenza del 30.3.1985, in  Atti di “Ricordando Pier Paolo Pasolini”

Evtuscenko E., La politica è un privilegio per tutti, in "Pagine corsare".

Mauri F., “Intellettuale” (installazione) Il Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini, in "Pagine Corsare".


Filmografia

La rabbia (Davide Ferrario 2000)