Radicalmente altri sono gli oggetti inanimati, per esempio le pietre, che Heidegger prendeva a emblema delle cose «prive di mondo» (prive di mondo, direi, in quanto costituiscono il mondo, nella loro estraneità minacciosa, incomprensibile). Il problema comincia con gli animali («poveri di mondo», li definiva Heidegger), di cui percepiamo l’estraneità, e insieme i sintomi di una misteriosa affinità, almeno con alcuni, almeno con quelli ai quali conferiamo il privilegio di un nome (il nome sopravvive a chi lo porta, scriveva Derrida, uno dei pochi pensatori che si sono occupati del ruolo degli animali nella filosofia).
È proprio la percezione di un’affinità virtuale, indotta forse dai residui mnestici di un’antica comunanza, di una lontana condizione comune, a darci il senso di un distacco e al tempo stesso di una vicinanza, quel distacco/vicinanza che confina coi territori del Sacro e che Herzog, per esempio, ha saputo così esemplarmente leggere sulle pareti dipinte, preistoriche, della grotta Chauvet.
Ma basta dare un nome a un animale per renderlo meno distante, meno misterioso, meno altro? Basta a far sì che il suo sguardo risulti, per noi, meno radicalmente insondabile? Basta alla ragazza Maria “battezzare” l’asino Balthazar, perché questo diventi davvero suo compagno fraterno (cui poter dispensare perfino una sorta di Sacramento) o il vero “mondo” di Balthazar è quello della stalla, o del Circo, a contatto, come animale sapiente, con l’estraneità ancora più spaventosa delle fiere (la tigre), o è lo scenario della sua morte, dove tutto dolcemente si acqueta, in mezzo allo scampanellio tranquillizzante d’un gregge di pecore?
Ovviamente, non basta dare un nome all’animale, non più di quanto basti darlo a una bambola o a un orsacchiotto di pelouche. Bisogna che l’animale in qualche modo risponda, cioè sia in grado di associare più o meno stabilmente il suono di determinate sillabe, emesso da una voce, a una chiamata, a un appello che lo riguarda in quanto essere unico e dotato di individualità. Non tutti gli animali ci riescono: il cane certamente sì. Non solo: sembra che il cane, anche un cane senza padrone, non possa fare a meno di riconoscere l’umanità dell’uomo, perfino quando quest’umanità non è più riconosciuta da altri uomini. Mi riferisco a Bobby, il cane randagio di cui parla Lévinas, che si aggirava amichevole tra i prigionieri del lager tedesco in cui il filosofo era allora rinchiuso, e per questo poteva meritare, scherzosamente, il titolo di «ultimo cane kantiano della Germania nazista».
Non sono sicuro, invece, che ci riescano i gatti. O meglio, forse ci riescono, ma solo nella misura in cui sanno fingere affetto e sono pronti a tradirci, salpando senza rimpianti, ove se ne presenti la necessità, per altri lidi.
Neppure sono sicuro che ci riescano i cavalli: qui i pareri sono divisi.
C’è il cavallo di Torino. Nietzsche lo riconosce come fratello, lo abbraccia, poi sviene. Nella versione di Bressane (Dias de Nietzsche em Turin), questa scena canonica diventa tutt’altro che canonica: in alcune inquadrature vediamo l’attore che interpreta Nietzsche abbracciato a un cavallo vero, in altre, si tratta di un cavallo di pietra, appartenente a qualche statua equestre, qualche monumento a Carlo Alberto o a Don Chisciotte – cavallo simbolico o metaforico. Nietzsche riconosce il cavallo come amico e fratello, ma Bressane lascia comunque nell’incertezza se egli abbia abbracciato un cavallo vero (soluzione per la quale opta la Cavani nel suo Al di là del bene e del male) o un cavallo di pietra – forse il cavallo di carne gli si era mutato in pietra sotto le mani, o viceversa – non tanto come in una dissolvenza, quanto come in una prise à disparition mélièsiana. Cavallo di pietra o di carne, comunque si tratta di un cavallo cinematografico, dunque d’un cavallo-fantasma.
Quel cavallo di Torino passa nel film di Bela Tarr, gli dà il titolo. Vi si riferisce brevemente la scritta iniziale, che ricorda l’avvenimento. Ricorda anche gli anni della quieta demenza di Nietzsche, ma sottolinea il fatto che del cavallo non si è saputo più niente. Parte il piano-sequenza iniziale del film, e vediamo un cavallo lanciato al galoppo nella steppa ungherese, mentre traina un calessino a una sola stanga e sta per scatenarsi una tempesta di vento. Alla guida del calesse, un uomo con un solo braccio valido (l’altro è paralizzato). Se ne deve inferire, secondo le convenzioni del montaggio filmico, che si tratta proprio del cavallo abbracciato dal filosofo a Torino il 3 gennaio 1889, finito chissà come, attraverso chissà quali passaggi, in proprietà d’una coppia (padre e figlia) di poveri contadini ungheresi?
La scritta iniziale del film si avventura in ipotesi sul nome del cocchiere torinese (Giuseppe? Carlo? Ettore?) co-protagonista dell’episodio, ma non fa cenno al nome del cavallo, dato e non concesso che ne avesse uno. Ciò che si trasmette, dunque, dal film di Bressane a quello di Bela Tarr, tramite il cavallo, è una sensazione d’insensatezza che coglie all’improvviso un filosofo tedesco emigrato a Torino e si trasmette, a distanza di tempo, ai componenti della famiglia Ohlsdorfer, annunciando loro la fine del mondo (o almeno, la fine del loro mondo); ma il vecchio Ohlsdorfer non è Nietzsche, rifiuta perfino di ascoltare i filosofemi del suo vicino di casa, e quando deciderà di andarsene con la figlia e il cavallo, abbandonando la fattoria, rimasta per ragioni misteriose senza più acqua nel pozzo né luce della lampada a petrolio, è troppo tardi. Il cavallo comunque non collabora, non offre alcun tipo di solidarietà o partecipazione: rassegnato, rifiuta il cibo e si lascia morire, come se avesse riconosciuto la premonizione, tornata a trovarlo dopo tanti anni, di un terribile mistero, che nessuno (tanto meno lui, come animale) è in grado di decifrare.
Trascuro, forse ingiustamente, altri cavalli cinematografici, come quelli del film Cavalli di Michele Rho o come il puledro di Oceano di fuoco – Hidalgo (Joe Johnston). Al cavallo di Torino si aggiunge ora il cavallo da guerra (War Horse) di Spielberg. Di questo seguiamo la nascita, e l’imposizione di un nome, Joey, da parte del giovane Albert Narracott. Non solo Joey “riconosce” Albert (e ne è riconosciuto), come “riconosce” sua madre, e un altro cavallo Topthorn, un animale amico, dal manto nero; soprattutto, posto di fronte all’insensatezza della guerra (è la prima guerra mondiale), Spielberg gli assegna il compito di restituire nuovamente all’umanità brandelli di senso, brandelli del senso perduto. Come se Joey fosse lo specchio in cui gli uomini potessero misurare l’abisso della loro incoscienza, e in qualche modo risalire. Dunque, qui l’animale è portatore di un’attribuzione di senso, per quanto precaria, e ha quindi, malgrado gli orrori che si trova ad attraversare, funzione salvifica. È questo il senso, ma (per me) anche il limite del film: limite disneyano, o forse, addirittura, limite di ogni riallaccio al cinema classico hollywoodiano, fosse pure quello di John Ford.
Anche i Narracott, come gli Ohlsdorfer, conducono una vita grama, in una fattoria del Devon. Anche su di loro si abbatte un’impressionante catena di avversità – ma non salta mai l’ultimo anello, non ha mai luogo la perdita della speranza. Joey, venduto per poche ghinee alla cavalleria inglese, deve lasciare Albert, e finisce addirittura a fare da cavallo da tiro per l’esercito tedesco, che lo ha catturato durante una battaglia in Francia. Liberatosi, si lancia in una furiosa galoppata attraverso la terra di nessuno, nel campo della morte tra le due trincee contrapposte; e qui morirebbe, dilaniato dai reticolati, se non fossimo, appunto, in un film di Spielberg, dove il sogno, alla fine, non può non riprendere il sopravvento.
Personalmente, non posso non vedere come un sogno la liberazione di Joey dal filo spinato, il ritorno a casa assieme ad Albert, l’abbraccio di questi ai genitori, la riconsegna al padre dell’insegna, ricordo della guerra boera… È un sogno che si sopporta (credo) solo in quanto sogno, per la luce rossa di quel tramonto purissimo che bagna le immagini, ci ricorda (qui sì davvero) un John Ford per sempre perduto, e ci prospetta una speranza impossibile, in un mondo dove solo i cavalli, che galoppano ignari verso la loro morte, meritano il nostro abbraccio.