Tarkovskij-AndrejRublev1 - Il passato: cinema e storiografia

Ogni volta che si assiste ad un film di ambientazione storica (in questo caso medievale) o “in costume”, il pensiero corre subito alla sua “fedeltà” rispetto agli avvenimenti narrati e/o all’"ambientazione" (soprattutto scenografia e costumi). Si ritiene opportuno, ora, fissare alcuni “paletti” circa il problema della “riproducibilità” del passato e delle relazioni (pericolose) fra Cinema e Storia. Va dunque ricordato che il passato non è riproducibile, che vi è una differenza di linguaggi fra cinema e storia perché il cinema è sequenza di immagini in movimento e la storia, anzi la storiografia, è studio di temi e problemi riguardanti il passato, è prevalentemente basata sullo studio dei documenti e sul confronto continuo con quanto prodotto dalla ricerca storica e i suoi risultati vengono comunicati attraverso la forma scritta. Va infine ricordato che il cinema è finzione e fenomeno artistico-industriale.


Filoni cinematografici, cinema commerciale e cinema “d’autore”

In sostanza, una pellicola non può riprodurre il passato e non è un saggio storico, ma ciò non toglie che un film fornisce un’immagine o una interpretazione (intenzionale o meno) del passato. Tale aspetto si fa particolarmente complesso quando il cinema propone vicende a noi più vicine o intende denunciare determinati avvenimenti. È il caso, ad esempio, di Amen (di Costa Gavras), sull’ambiguo atteggiamento del Vaticano (in particolare di Pio XII) nei confronti del nazismo, di Garage Olimpo (di Marco Bechis), sulle persecuzioni e sulla politica di eliminazione degli oppositori messa in atto dalla dittatura argentina fra il 1976 e il 1983; di Segreti di Stato (di Paolo Benvenuti), sulle oscure trame dietro il massacro di Portella della Ginestra.
Si pongono, insomma, alcune questioni aperte. Prima questione: con quali criteri è possibile analizzare i film che, sia pure in maniera diversa, hanno per oggetto un tema storico? È sufficiente prendere in considerazione il soggetto, l’approccio al tema scelto dagli autori (regista e sceneggiatori), le tecniche e le modalità di ripresa e di montaggio adottate, le scenografie, i costumi ed il linguaggio dei protagonisti?

Seconda questione: siamo sicuri che per i film ambientati in un passato remoto (il Medioevo, appunto) le cose siano più semplici? Ovvero: può bastare il confronto fra i succitati criteri minimi di analisi con i più recenti orientamenti storiografici sul tema oggetto del film? Gli autori di un film, sempre in bilico fra “intenti artistici”, botteghino e “gusti del pubblico” (quale?), difficilmente si trasformano in medievisti dilettanti, e spesso anche il ricorso al “consulente storico” può risultare inutile. Naturalmente l’industria cinematografica segue la sua strada (e i suoi interessi) continuando a produrre pellicole di ambientazione storica su epoche e soggetti diversi. Ovviamente, lo stesso vale per i film sul Medioevo: uno sguardo ai diversi raggruppamenti tematici che questo sito propone è piuttosto indicativo al riguardo.
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, quali aspetti del Medioevo la cinematografia ha privilegiato nel corso della sua centenaria esistenza. Questione non trascurabile (anzi!), potenzialmente in grado di aprire squarci, ad esempio, sulle logiche dell’industria cinematografica, sui “gusti del pubblico”, sulla percezione e interpretazione che, attraverso il cinema, del Medioevo si è avuta nel corso del XX secolo.

Qui preme interrogarsi su una questione più a monte: quale Medioevo è stato rappresentato a cinema? Quello dei luoghi comuni (secoli bui, jus primae noctis, piramide feudale, ecc.) o quello variegato, diversamente articolato per periodi ed aree geografiche e le cui società presentano un elevato grado di complessità? È in base a tale distinzione che si propone una classificazione dei film di ambientazione medievale in due categorie, senza snobismi e in maniera molto generica (con ampio beneficio d’inventario): film ad interesse prevalentemente commerciale e film cosiddetti “d’autore”. La principale differenza tra le due categorie sta nel fatto che i film commerciali presentano, in genere, un’immagine di Medioevo infarcita di luoghi comuni, molti dei quali hanno loro origine nella cultura romantica e nella letteratura cavalleresca, e sono chiaramente rivolti ad un pubblico il più ampio possibile. I film “d’autore”, invece, offrono un’immagine del Medioevo piuttosto complessa e articolata che può anche non basarsi su letture specialistiche, ma che raggiunge risultati notevoli anche partendo dalla lettura “personalissima” che gli autori di un film hanno deciso di dare ad un certo tema. Va inoltre precisato che il criterio adottato per definire le due categorie non è assoluto: di stereotipi è pieno anche il cinema dei grandi registi.

L’economia di questo scritto permette solo di citare, a titolo esemplificativo, qualche regista e qualche titolo fra quelli più significativi. Prima, però, si ritiene opportuno evidenziare una tendenza che connota i film “commerciali” sul Medioevo da circa vent’anni a questa parte: l’uso massiccio dell’ironia e di riferimenti al filone horror: si veda per tutti il Robin Hood di Kevin Reynolds interpretato da Kevin Kostner.
Ritornando al cinema “medievale” “d’autore”, lo spazio a disposizione consente solo di fare poche segnalazioni. È dunque il caso di ricordare i film di Ingmar Bergman (La fontana della vergineIl settimo sigillo) e quello di Robert Bresson su Giovanna d’Arco. Un’altra Giovanna d’Arco interessante è quella portata sullo schermo da Carl Theodor Dreyer (La passione di Giovanna d’Arco). Ancora, vanno segnalati Aleksandr NevskjiIvan il TerribileLa congiura dei boiardi, di Sergei M. Ejzenštejn, e Perceval le Gallois, di Eric Rohmer. E infine i film di

Akira Kurosawa
, interessanti perché, fra l’altro, permettono di riflettere su un altro “Medioevo”, quello giapponese la cui periodizzazione non coincide con quella europea. Nell’ambito della cinematografia italiana è d’obbligo il riferimento, fra gli altri, al Decameron, a I Racconti di Canterbury e al Fiore delle Mille e una Notte di Pier Paolo Pasolini.
A proposito di autori italiani va ricordato che il cinema italiano, nei suoi risultati migliori, ha posto un accento particolare sul Medioevo che potremmo anche definire “popolaresco” ed ha mostrato un maggiore interesse al vissuto quotidiano della società medievale. È il caso de L'armata BrancaleoneBrancaleone alle crociate di Mario Monicelli, di Magnificat di Pupi Avati, e dei tre film di Pasolini cui si è accennato qualche riga sopra.

Presente/Passato

Si è scritto, in precedenza, che l’industria cinematografica risponde anche alle sollecitazioni del contesto politico, economico e sociale, alle “mode culturali” ed alle “richieste” del pubblico. Ciò è vero anche per i film sul Medioevo. È però impossibile determinare con precisione corrispondenze fra produzione di film sul Medioevo e determinati contesti e mode culturali. È possibile, invece, individuare almeno tre categorie di classificazione.
La prima è il contesto culturale. Succede spesso, infatti, che all’interno della società, in particolari periodi di crisi o di “riflusso”, si guardi al passato come luogo mitico, come luogo delle radici, come luogo fantastico e così via. Allo stesso tempo può succedere che il Medioevo sia una moda culturale: si veda il successo del romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco, poi tradotto nell'omonimo film
.

In altri casi, la produzione di film sul Medioevo può essere anche dovuta a motivi politici, funzionale ad un uso strumentale del passato. In proposito, sono da citare almeno due casi. Il primo lo abbiamo in Italia con Il re d’Inghilterra non paga, girato nel 1941, dove le vicende del fallimento della banca dei Bardi e dei Peruzzi sono il pretesto per una polemica antibritannica molto forte (l’Italia era in guerra contro l’Inghilterra). L’altro caso è Aleksandr Nevskji, dai connotati antitedeschi e nazionalisti - il film venne ritirato dalle sale in seguito all’accordo Molotov-Von Ribbentop. Infine, la produzione di film sul Medioevo può anche rispondere a interessi meramente commerciali. In Italia abbiamo un caso eclatante agli inizi degli anni Settanta dove, dopo il successo del Decameron di Pasolini, si ebbe un’esplosione di film del filone cosiddetto “boccaccesco”
.

Conclusione, ovvero l’asino di Buridano

I film (più o meno come i libri) una volta ultimati e proiettati, camminano sulle proprie gambe, per dirla con Umberto Eco. Essi possono prestarsi ad interpretazioni che vanno oltre le intenzioni degli autori. A maggior ragione un film storico. Le precisazioni iniziali sulla non riproducibilità del passato non significano che non bisogna analizzare l’immagine del passato che una pellicola trasmette, ma si pongono come primo elemento di interpretazione riguardante le pellicole a carattere “storico”, perché altrimenti lo spettatore rischierebbe di fare la fine dell’asino di Buridano, che morì di fame a causa della sua indecisione fra due fasci di fieno. Fuor di metafora, il rischio è che si resti in dubbio perenne fra il criterio di analisi basato sulla “fedeltà storica” di un film e quello che vuole un film come pura finzione.
Giovanni Buridano (filosofo del XIV secolo), infine, pare che non abbia mai raccontato l’ esempio dell’asino: al massimo, lo si può ricavare dalla lettura dei suoi scritti… tutta finzione. Appunto.



2 - Il bianco e il nero. Aleksander Nevskij (di Sergej M. Eizenštejn)

Svolgere alcune riflessioni sui film di Ejzenštejn vuol dire affiancare alla visione delle pellicole la lettura degli scritti del regista. A sua volta, Ejzenštejn è stato oggetto di studi numerosi e importanti. Anche il tema sul quale ci si intende soffermare - l'uso del bianco e del nero in Aleksandr Nevskij
- è stato oggetto di numerosi lavori. Avere la possibilità di accedere a tali lavori è veramente difficile per chi vive a Bari. Di conseguenza, queste riflessioni corrono il duplice rischio di apparire anguste e dejà vu. Appare d'obbligo scusarsi fin da ora.
Si ritengono necessarie alcune precisazioni iniziali. Secondo Ejzenštejn, ogni elemento espressivo che contribuisce alla realizzazione di un film è portatore di significato, sia in quanto tale sia perché frutto di una scelta voluta dal regista. Questo vale per la musica, il sonoro, il colore, ecc. Ogni colore, ogni tonalità deve avere, in un film, una forte caratterizzazione tematica. In secondo luogo, Ejzenštejn sottolinea che deve essere il regista (in quanto artista) a saper proporre ("educare") allo spettatore il significato che egli intende dare ai colori che appaiono in un film e, di conseguenza, all'intero film. È il caso, appunto, dell'Aleksandr Nevskij, a proposito del quale Ejzenštejn afferma che se convenzionalmente si attribuisce al bianco il significato dell'innocenza, il regista propone allo spettatore un significato opposto, negativo, facendo identificare con il bianco i cavalieri teutoni e le loro azioni.


I russi, invece, sono rappresentati con le diverse tonalità di grigio, colore cui convenzionalmente viene attribuito un significato negativo, soprattutto alle sue tonalità più scure. In questo modo, Ejzenštejn ha proposto una soluzione formale in cui i significati normalmente attribuiti al bianco ed al nero (tonalità di grigio) sono capovolti. Il bianco rappresenta la parte negativa e, in quanto monocromo, una massa di uniformi; le tonalità di grigio, invece, la parte positiva e, in quanto policrome, la massa di individui (il popolo). Va infine tenuto presente il contesto politico e culturale in cui fu realizzato l'Aleksandr Nevskij. Il film fu girato nel 1938. Una tensione crescente caratterizzava le relazioni internazionali, con la Germania nazista che ormai non nascondeva più i propri obiettivi espansionistici e di dominio. Stalin, finita la stagione dei "grandi processi" controllava saldamente l'Unione Sovietica. L'anno successivo a quello in cui fu girato il Nevskij fu anche quello dell'accordo Molotov-von Ribbentrop. Il film di Ejzenštejn farà le spese di tale accordo. Infatti, pur avendo un soggetto nazionalista e antitedesco, non venne proiettato nelle sale per circa diciotto mesi perché non ritenuto opportuno dal regime staliniano.

Si è sempre insistito, analizzando l'Aleksandr Nevskij, sull'uso fortemente caratterizzante del bianco e del nero. Giova ricordare che il film è in bianco e nero o, più correttamente, in scala di grigio. I russi ed i teutoni sono caratterizzati, rispettivamente, dalle diverse tonalità del grigio e dal bianco. L'inversione di significato convenzionalmente attribuita ai due colori è evidente. Si veda quanto teorizzato da Ejzenštejn in proposito e riportato nelle righe precedenti.
Si consideri, ora, il significato attribuito dal regista ai colori bianco e nero (tonalità di grigio) nel corso del film. Il film si apre con un'inquadratura dall'inequivocabile significato di morte: scheletri bianchissimi sparsi sulla brulla terra. Ejzenštejn attribuisce al bianco un significato opposto a quello normalmente accettato. Nelle sequenze successive, invece, ai Mongoli, in grigio scuro, si contrappongono i russi, in bianco. Tale contrapposizione assume un duplice significato. Il primo è tematico e risente della temperie politica e culturale del periodo in cui il film è stato girato. Infatti, i pescatori russi rappresentano la "nuova Russia": giovane, laboriosa e orgogliosamente proiettata nel futuro; lo stesso Aleksandr Nevskij indossa un abito in cui il bianco predomina. I Mongoli rappresentano il passato barbarico, dell'uomo sottomesso all'uomo. Essi portano prigionieri vestiti di bianco e un loro soldato si stende a pancia in terra per far salire il suo capo sulla carrozza trainata da uomini. Il secondo aspetto è di tipo formale - va ricordato che ogni elemento formale è comunque portatore di significato - in cui il bianco ed il nero vengono usati nei loro significati convenzionali.


Il bianco ed il nero sono usati nel loro significato convenzionale anche quando un reduce dall'assedio di Pskov annuncia, in toni cupi, l'incombente minaccia dei cavalieri teutoni. Il reduce, contraddistinto dal colore scuro, tiene il suo discorso sulla piazza di Novgorod, sullo sfondo vi sono le bianche mura della chiesa principale della città. Non è da sottovalutare, questo aspetto delle mura. Spesso, infatti compaiono le mura di Novgorod, anch'esse bianchissime, che, pure ed innocenti, simbolo della Russia che resiste, rischiano di essere assediate. Ma è da sottolineare che in questa parte del film si incontrano due diverse utilizzazioni del bianco e del nero.
Nella pellicola, come si è visto, ai russi sono associate le diverse tonalità del grigio. Tale scelta cromatica è stata voluta da Ejzenštejn per rappresentare l'eterogeneità del popolo russo. Ora, nella piazza di Novgorod si succedono diversi oratori, tutti vestiti di scuro. il significato è evidente: si tratta del popolo russo che, democraticamente, dibatte sulle scelte da compiere. Ma solo quando a prendere la parola è un oratore favorevole ai teutoni il significato del bianco e del nero è quello convenzionale. Quest'ultimo, infatti, è un traditore, un russo che è passato dalla parte del nemico. Successivamente, anche altri russi, vestiti di nero e rappresentanti dei diversi gruppi sociali della città, prenderanno la parola su una torre della piazza. Ma qui il significato è quello inverso voluto dal regista. I suddetti oratori si pronunciano contro i teutoni. Dunque, il loro grigio (ed il loro nero) è quello voluto dal regista: rappresentare il popolo russo.


Le sequenze della battaglia sul lago ghiacciato sono il nucleo del film. Esse possono essere tranquillamente lette secondo la valenza semantica inversa loro attribuita da Ejzenštejn, cui si è fatto cenno in apertura di questo scritto. Non sarà il caso di insistervi: è una battaglia (oltre che una lezione di regia) in cui il nero "dilaga" e batte il bianco. Va però notato che nella sequenza finale di tale battaglia si assiste ad un ennesimo mutamento di significato attribuito al bianco ed alle tonalità di grigio: da quello "inverso", proposto dal regista, a quello convenzionale. Infatti, il ghiaccio si rompe ed appaiono le acque scure del lago in cui sprofondano i cavalieri teutoni. Le tenebre e la morte "risucchiano" i personaggi negativi: l'ordine semantico convenzionalmente accettato viene ristabilito.
In ogni caso, l'uso del bianco e del nero, sia che venga usato nel suo significato convenzionale sia in quello opposto, è comunque netto, identifica determinati personaggi e/o sequenze. Tranne in un caso: Buslai, un cavaliere russo cui Ejzenštejn ha attribuito un carattere allegro e giocoso, ulteriormente evidenziato dall'abito fantasioso che indossa. Durante la battaglia, egli si traveste da cavaliere teutone. Ora, in una sequenza in cui i parametri cromatici sono netti e funzionali ad una precisa identificazione dei combattenti, Buslai confonde le carte in tavola. Tale rovesciamento è possibile in virtù del carattere giocoso di Buslai. Il comico sembra confermarsi, ancora una volta, elemento "carnevalesco", sovvertitore della realtà e delle convenzioni.


Da queste annotazioni, si evince che è il regista a condurre il gioco: è Ejzenštejn a stabilire la convenzionalità o meno dei significati da attribuire alle scelte cromatiche.
Un'ultima considerazione. L'intenso lavoro svolto da Ejzenštejn sui rapporti tra elementi formali e temi del film investe, inevitabilmente, l'immagine di Medioevo che scaturisce dall'Aleksandr Nevskij. Anche se questo tema meriterebbe una trattazione a parte, in questa sede si evidenzia che i significati attribuiti da Ejzenštejn al bianco ed al nero (o tonalità di grigio) per sottolineare la contrapposizione fra diverse società medievali producono un’immagine di Medioevo poco convenzionale. È un Medioevo in cui coesistono la "minaccia barbarica" sempre presente (i Mongoli), la società militar-feudale (i cavalieri teutoni) ed una società, quella russa, variamente articolata.
Un'immagine più convenzionale di Medioevo la offre un secondo aspetto: l'età medievale è l'"età di fondazione" della nazione russa. In questo caso, gli elementi formali, il bianco puro e "aurorale" dei pescatori nelle sequenze iniziali, il discorso di Aleksandr Nevskij ai Mongoli, hanno poca incidenza. Ad essere determinante è la scelta di un soggetto cinematografico conforme al contesto politico e culturale dell'Unione Sovietica del 1938.



3 - Innovazioni tecniche, aspetti formali e immagine del Medioevo. L’avvento del sonoro e del colore nei film di ambientazione medievale.

In che modo due fondamentali innovazioni tecniche, quali il sonoro e il colore, che hanno segnato profondamente la storia del cinema hanno influito sul modo di raccontare il Medioevo e sull’immagine che di questo periodo storico si vuol trasmettere al pubblico? È intorno a tale questione che si articoleranno queste brevi considerazioni.
I film di ambientazione storica, in questo caso medievale, accompagnano la storia del cinema dai suoi primordi, seguendone gli sviluppi di natura tecnica, teorica, narratologica, commerciale e i rapporti con i contesti politici, economici, sociali, culturali e territoriali che da poco più di un secolo a questa parte hanno caratterizzato le vicende del pianeta. Come si può intuire, il racconto (qui nel senso pieno di finzione) del passato e la sua percezione sono stati condizionati da numerose variabili. In questa pagina ci si soffermerà su una delle variabili appena citate, le innovazioni tecniche, in particolare il sonoro e il colore, per rilevarne le ricadute sui film di ambientazione medievale. Lo spazio esiguo a disposizione costringe ad esporre in maniera essenziale e schematica un tema di grande ampiezza e complessità ed a prenderne in considerazione solo alcuni aspetti.
Prima di procedere, però, si ritiene opportuno precisare che l’utilizzazione di determinate tecniche in un film non è un fatto neutro. Esse, infatti, pur essendo strumenti a disposizione degli autori di un film (sono questi ultimi a deciderne l’uso più appropriato), qualora utilizzate, diventano parte integrante della struttura filmica.

L’età del cinema muto

Soprattutto agli esordi, il cinema è stato percepito come riproduzione “realistica” del mondo fenomenico. Era questo l’approccio iniziale al cinema degli spettatori e dei fratelli Lumière: innovazione scientifica che permette di vedere “riflessa” la realtà e luoghi non comuni o difficilmente visitabili. Funzionali a tale percezione erano le proiezioni di film muti: accompagnati, spesso, da musica dal vivo e, meno spesso, da attori che leggevano dialoghi e brevi commenti1. Date tali premesse, appare scontata la costante sperimentazione che, fin dagli inizi della storia del cinema, mira ad unire sincronicamente suono e immagine. Si tratta di aspetti che valgono anche per i film di ambientazione storica. Tali film, dalle origini ad oggi, sembrano accomunati da un’ambizione di fondo: poter riprodurre le vicende del passato così come si svolsero, procurare allo spettatore l’illusione di essere testimone della storia. E allora, in quel cinema degli inizi, come era possibile ottenere ciò? Si può dire che, fino all’avvento del lungometraggio, la breve durata dei film e la sostanziale staticità delle inquadrature orientarono i cineasti su una soluzione di questo genere: dell’episodio storico si isolavano le parti ritenute più significative, non in senso storiografico, ma nel senso che avevano maggior potere di catturare l’attenzione dello spettatore e fargli percepire il senso della storia. Come si può intuire, è il trionfo spesso volontario - la lettura del passato, in questo periodo, è prevalentemente di tipo nazionalistico - della storia evenemenziale allo stato puro: l’avvenimento, il gesto, l’atto individuale che, poco raccordati o sganciati da qualsivoglia contesto, generano la “Storia”.

A partire dagli anni Dieci del XX secolo, gli sviluppi tecnici e tecnologici, che permisero la realizzazione dei primi lungometraggi, e lo strutturarsi del cinema come industria provocarono un intenso dibattito teorico sul cinema e la produzione di film in cui le tecnologie a disposizione, le tecniche di ripresa ed il montaggio, cui viene accordato un ruolo primario, sono usati con consapevolezza, con il fine di creare film fortemente strutturati2.
Con la possibilità di realizzare film di “lungo metraggio”, la narrazione delle vicende storiche può essere più articolata. Tenendo presente che mancava il sonoro, che le immagini erano in bianco e nero e che il cinema è essenzialmente racconto per immagini in movimento, i problemi fondamentali che gli autori si ponevano allora sembrano essere due: come raccontare in maniera efficace per sole immagini? Come utilizzare le didascalie (o interi titoli), dando loro una parvenza di dialogo, accompagnando in maniera sintetica ed efficiente la visione del film e interrompendo il meno possibile l’azione? Le risposte si possono individuare nell’uso opportuno di inquadrature e modalità di ripresa e montaggio, nonché nella realizzazione di didascalie3 poco frequenti con dialoghi e commenti sobri. In maniera più esplicita, le nuove tecniche sono usate in maniera, diremmo oggi, “convenzionale”: ad esempio, l’alternanza campo/controcampo per il dialogo fra due personaggi e un uso semplice ed efficace del montaggio alternato. Allo stesso modo, le didascalie commentano brevemente l’azione, orientando così lo spettatore nella vicenda e, se il caso, riportano dialoghi essenziali, mentre la recitazione si rifà esplicitamente alla pantomima, esibendo volti esageratamente arrabbiati, cupi o divertiti, insieme ad una costante ed eccessiva gestualità.

Quale immagine di Medioevo, allora, dalle nuove modalità di realizzazione dei film? Anzitutto non è il caso di stabilire l’equazione regia “convenzionale” uguale Medioevo convenzionale. Il cinema è fenomeno artistico-industriale; in quanto tale, si rivolge ad un pubblico il più vasto possibile ed ha la necessità di rendersi facilmente percepibile. Va poi sottolineato che si era agli inizi della sua storia e che un certo uso di determinate tecniche di ripresa e di montaggio non appariva così convenzionale. Si può affermare, però, che rispetto al periodo immediatamente precedente le novità sono più formali che sostanziali: l’andamento più disteso e complesso delle vicende narrate ripropone comunque un Medioevo evenemenziale, pieno di stereotipi4, a quel tempo più saldi di oggi. Quel che si può aggiungere è che il cinema amplifica tali stereotipi, rendendoli semmai più radicati, quando non immettendoli nella cultura diffusa, evitando poi di proporre interpretazioni originali di quel periodo storico5. Le caratteristiche, i limiti e i pregi di questo cinema si trovano, fra gli altri, nei film dinamici e spettacolari di Douglas Fairbanks (Robin Hood, 1922, Il ladro di Bagdad, 1924).

All’interno di questo contesto vi sono film che si distinguono per originalità. È il caso de La passione di Giovanna d’Arco(1928), di Carl Theodor Dreyer. Il titolo del film non è casuale, perché Dreyer cerca di far percepire allo spettatore la similitudine fra il processo e la condanna subiti da Giovanna d’Arco con la passione di Cristo. Per conseguire tale obiettivo, Dreyer fa ampio uso di dettagli, primi piani e movimenti di macchina che si soffermano quasi esclusivamente sui volti dei personaggi, dei quali sembrano indagarne emozioni, pensieri e stati d’animo. La magistrale regia di Dreyer, però, ha anche il merito di rendere, attraverso la focalizzazione sul processo a Giovanna d’Arco, il clima culturale (nel senso più ampio) e politico del contesto storico in cui tale vicenda si svolse.

L’avvento del sonoro

Sul finire degli anni Venti del XX secolo, dopo molte sperimentazioni, si giunse ad ottenere un sonoro accettabile6. La nascita del film parlato, tuttavia, incontrò la freddezza di molti autori, convinti che il racconto per immagini possa fare tranquillamente a meno del sonoro. Effettivamente, le tecniche di narrazione cinematografica sviluppatesi fino all’avvento del sonoro costituiscono ancora oggi la base del linguaggio cinematografico ed i film prodotti allora non necessitano di alcun supporto sonoro, tanto è esplicita la comprensione dell’intreccio.
Qui, però, interessa stabilire in che misura l’introduzione del sonoro ha influenzato i film storici di ispirazione medievale.
La possibilità di abbinare il parlato alle immagini permette di rendere ancora più “realistico” il racconto del passato e consente una narrazione per immagini più fluida rispetto a prima: le didascalie scompaiono. Queste ultime, come poi il bianco e nero, verranno usate per particolari esigenze narrative. Si pensi all’uso che ne fa Mario Monicelli nei due Brancaleone (19661970), dove le didascalie scandiscono, in omaggio al cinema muto, le diverse fasi della storia.
Con il parlato cambia anche la tecnica di recitazione adoperata nel cinema. La dizione, la gestualità controllata, l’impostazione della voce e finanche la stessa voce degli attori assumono grande importanza.

Le possibilità offerte al cinema dal sonoro sono variamente sfruttate dagli autori. Un primo esempio lo forniscono le trasposizioni cinematografiche dei lavori di Shakespeare. L’Enrico V (1944) di Laurence Olivier innesta sapientemente sui nuovi mezzi offerti dal cinema (il film è anche a colori) una recitazione di tipo teatrale. Il sonoro, pur avendo lo scopo di rendere Shakespeare al cinema, contribuisce a diffondere un medioevo “shakespeariano”, elaborato dal drammaturgo inglese alla fine del XVI secolo e funzionale alla creazione di un immagine forte ed autorevole della monarchia.
Ne Il processo di Giovanna d’Arco (1962), Robert Bresson costruisce il film sul “dibattimento processuale”. I dialoghi si basano sugli atti del processo a Giovanna d’Arco e su altre fonti e sono resi dagli attori in maniera fredda e misurata. Ma tale freddezza, tale (finta) asetticità sono in realtà la spia della stupefatta e devota interiorità di Giovanna d’Arco e di un mondo dove la credulità popolare e la sua manipolazione, il volto arrogante del potere (chiesa e monarchia) e lo stato di incertezza e paura creato dalla guerra dei cent’anni la fanno da padrone.

Ad un livello diverso si colloca Aleksandr Nevskij (1938), di Sergej M. Ejzenštein. La recitazione piuttosto retorica ed il piglio imperioso del prestante Nikolai Cerkasov (Aleksandr Nevskij), volti ad accentuare l’immagine di Nevskij come “uomo guida” della riscossa russa contro i tedeschi, ed una torsione interpretativa del passato in chiave nazionalista ed antitedesca (il film è del 1938) che rischiano di portare il film ad una deriva meramente evenemenziale (leader e battaglie motori della storia) e convenzionale (nascita della nazione russa), sono stemperate da una regia particolarmente attenta all’uso del bianco e del nero (in realtà scala di grigio), come si dirà in seguito.
Interessanti, poi, gli esiti linguistici di film fra loro diversi come Perceval, le gallois (di Eric Rohmer, 1978) e i due già richiamati Brancaleone di Mario Monicelli. Uno dei tratti caratterizzanti di Perceval è l’immagine di alterità del Medioevo. Sul piano linguistico tale alterità è data dall’uso degli ottonari del poema epico-cavalleresco Perceval (di Chretien de Troyes) come dialoghi. Sul piano del linguaggio figurativo, l’alterità è data dal carattere “miniaturistico” delle inquadrature. E la miniatura è prodotto figurativo medievale per eccellenza. Di alterità si deve parlare anche del Medioevo dei due Brancaleone. Quell’autentico pastiche che è la lingua inventata dagli sceneggiatori, oltre a far percepire la distanza linguistica e culturale dal Medioevo, potrebbe, paradossalmente, essere strutturalmente affine alle lingua parlata quotidianamente in età medievale: un Medioevo così finto, quindi, da risultare “realistico”.

L’avvento del colore

Come per il sonoro, la sperimentazione del colore si è svolta fin dagli inizi della storia del cinema, così come non sfuggono ai primi grandi cineasti i rapporti fra colore e contenuto: Intolerance (1916), di David Wark Griffith, si compone di quattro episodi storici, ognuno con un suo cromatismo. Solo negli anni Trenta e Quaranta, però, si giunge ad ottenere una tecnologia che permette l’impiego diffuso del “colore naturale”, mentre a partire dagli anni Cinquanta, le riprese a colori diventeranno sempre più diffuse7. Il bianco e nero, però, resiste e si presta ad essere usato in particolari situazioni. È il caso dell’Aleksandr Nevskji, dove Ejzenštein gioca l’intero film su uno studio accurato della scala di grigio. Ejzenštein, accostando i personaggi positivi alle tonalità scure e quelli negativi alle tonalità chiare, fornisce un’immagine di Medioevo poco convenzionale. Viene infatti mostrata la coesistenza (non certo pacifica) fra le società barbariche (i Tartari), la società militar-feudale (i cavalieri teutonici) e la società variamente articolata (i russi)8. Robert Bresson, invece, nel citato Processo a Giovanna d’Arco (1962), usa il bianco e nero per conferire al film quel tono essenziale e minimalista che lo contraddistingue.

In ogni caso, il cinema può ora proporre al pubblico “storie medievali” nello splendore dei costumi e dei paesaggi “d’epoca”. Quale epoca? Per l’abbigliamento, il millennio (fine V – fine XV secolo) che la storiografia classifica come “medioevo” è rappresentato da personaggi che vestono in fogge quattrocentesche: è chiara l’ispirazione fornita al cinema dalla pittura; in particolare, dalle opere di autori bassomedievali. Si può anzi notare come proprio il colore permette al cinema di attingere nuovamente, e con maggiore intensità e ampiezza rispetto al suo passato recente, al vasto repertorio iconografico della pittura9. Più che mai con il colore, inoltre, il cinema ha accentuato, a livello di cultura diffusa, il suo carattere di rappresentazione verosimile della realtà. Anche in questo caso si registrano svariati modi di utilizzazione del colore. In un film destinato ad un vasto pubblico, come ad esempio La leggenda di Robin Hood interpretato da Errol Flynn (di Michael Curtiz, 1938), il colore è adoperato per catturare costantemente l’occhio dello spettatore: abiti sgargianti e paesaggi dall’intensa tonalità verde sono elementi funzionali ad una spettacolarizzazione del passato.

L’uso del colore nel finale di due film ispirati al ciclo di Re Artù, Il primo cavaliere (di Jerry Zucker, 1995) ed Excalibur (di John Boorman, 1981), è invece indicativo del diverso taglio che li connota. Il finale “wagneriano”, dalle intense tonalità rosse, de Il primo cavaliere conclude un film che si distingue per l’originalità ed i colori vivaci dei costumi e delle scenografie, accentuando il carattere fiabesco delle vicende arturiane. Excalibur è invece film dalle tonalità spesso cupe e spente, da cui emerge un Medioevo fantasy (a tratti kitsch), “barbarico”, ferino e per niente epico, il cui finale è la degna conclusione, con quelle tonalità grigie e livide.

Nei film di Pier Paolo Pasolini, l’uso del colore è soprattutto funzionale al citazionismo pittorico che li connota. Molte sequenze dei film di Pasolini (La ricotta, Decameron, I racconti di Canterbury, Il Fiore delle Mille e una notte), infatti, riecheggiano o riproducono opere di pittori bassomedievali. Sono citazioni che, nella poetica pasoliniana, concorrono ad affermare l’immagine di un medioevo “realistico” eppur lontano dal nostro tempo in quanto luogo della vitalità, delle passioni e della purezza popolare. Tempo senza iato fra cultura “alta” e cultura “bassa”.


I dieci minuti finali a colori di Andreij Rublev (di Andrej Tarkovskij, 1966) sono una sorta di documentario sull’arte di Rublev, pittore russo di icone attivo agli inizi del XV secolo. L’indugiare della macchina da presa sulle opere di Rublev consente allo spettatore di riandare liberamente con la memoria alle due ore di film in bianco e nero in cui si è narrata la storia di colui che ha dipinto quelle icone, al suo travaglio spirituale e intellettuale, all’intrecciarsi della vita dell’artista con le vicende collettive di un popolo stretto fra le crudeli scorrerie dei Tartari e il forte potere della grande nobiltà locale. Le sequenze finali a colori hanno dunque valore evocativo, sono imprescindibili dalla parte in bianco e nero e il Medioevo che tali sequenze rievocano è più che mai “storico” e popolare.



4 - Morti sospette. La figura della morte in due film di Ingmar Bergman e Mario Monicelli


Si propongono qui alcune riflessioni sulla figura della morte in due film: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman) e Brancaleone alle crociate
 (di Mario Monicelli).
Ne Il settimo sigillo, la Morte ha un ampio mantello nero ed il volto pallido. Non ha la consueta falce. Non si è, insomma, in presenza dello stereotipo della figura antropomorfizzata della morte. L'elemento di novità è il volto pallido. Nel film di Bergman, tale volto ha una valenza fondamentale. Si è in presenza, infatti, di un elemento di "umanizzazione" della Morte, funzionale ad una riflessione problematica, e dai toni drammatici, della condizione umana e del suo rapporto con il divino (sacro), che Bergman affronta ne Il settimo sigillo. Una Morte che non avesse avuto il volto pallido ma il consueto teschio avrebbe assunto connotati grotteschi e, di conseguenza, avrebbe indebolito la riflessione del regista svedese: il film ne avrebbe perso in profondità. Non solo. Una Morte dal volto pallido che gioca a scacchi (gioco riflessivo per eccellenza) sarà sempre più credibile del solito "teschio".

L'"umanizzazione" della Morte, attuata da Bergman, assolve anche al compito di rendere allo spettatore il carattere di compresenza fra la vita e la morte che connota la cultura (in senso antropologico) delle società medievali in Europa occidentale. Sia consentita una digressione. Sia sul tema appena enunciato che nella figura dell'attore che ha le visioni, Bergman, nella finzione cinematografica, sembra quasi prefigurare quanto scriveranno su tali argomenti Philippe Ariès e Jacques Le Goff.
Nel film di Bergman, lo stereotipo popolare e grottesco della morte fa da controcanto alla Morte "umanizzata" e "umanistica". Infatti, nel film, la morte dall'aspetto stereotipato compare nella rappresentazione "popolaresca" che ne danno il capocomico, quando fa la parodia di se stesso con una maschera a forma di teschio, ed il pittore, che affresca le pareti di una chiesa con una "danza della morte" in cui la Morte è rappresentata secondo lo stereotipo dell'abito nero, del teschio e della falce. Ma anche nel corteo dei flagellanti che ha un teschio fra i suoi oggetti di adorazione. E infine nella visione finale del comico: una "danza macabra" in cui della Morte si intravedono solo l'abito nero e la falce ma che, stando a quello che afferma il comico, ha il volto a forma di teschio e porta anche una clessidra.

La Morte, per Bergman, è anche subdola e beffarda. Si vedano, in proposito, due sequenze. Nella prima, la Morte è dietro una grata e, cercando di non farsi riconoscere, prova a sondare meglio il pensiero del cavaliere. Essa, inoltre, ottiene un'informazione sulla prossima mossa che Blok (il cavaliere) farà nella partita a scacchi. La seconda sequenza in oggetto è quella in cui la Morte appare all'improvviso e sega, ghignando, l'albero sul quale si è rifugiato un attore. In definitiva, la Morte ha diversi aspetti. Ma Bergman concede maggiore interesse a quello trascendentale e problematico.
La Morte rappresentata nel film di Monicelli è quella dello stereotipo popolare: abito nero, volto a forma di teschio e falce. Tale rappresentazione rientra nei canoni di un film che vuole dichiaratamente rappresentare un Medioevo popolare e, a tratti, grottesco. E la Morte, nella mentalità popolare, è quella dello stereotipo. La stereotipizzazione operata da Monicelli ha lo scopo di "avvicinare" la Morte al livello di Brancaleone. Quest'ultimo la riconosce subito e subito cerca di non soccombere, di ingannarla cambiando significato alle parole pronunciate poco prima. Va precisato, infatti, che il dialogo di Brancaleone con la Morte si avvia a partire da un monologo in cui lo stesso Brancaleone, magniloquente e cialtrone, invoca la Morte.

Monicelli mette in scena una Morte che non vuole mostrarsi anche problematica e ieratica ma che risponda alla necessità di "creare" un Medioevo popolare. Il linguaggio della Morte, in Brancaleone alle crociate, è secco, essenziale, a suo modo popolare in quanto semplice e diretto.
L'aspetto ed il linguaggio della Morte sono dunque fondamentali nell'economia narrativa dei due film e funzionali agli obiettivi che i due registi perseguono.
Bergman e Monicelli partono, come si è visto, da premesse diverse di genere (drammatico il primo, commedia il secondo) e di obiettivi. Entrambi, però, nella loro riflessione finale sulla morte, approdano ad un esito che è simile per alcuni versi. Sia nel film di Bergman che in quello di Monicelli, è rilevante il fatto le uniche armi che l'uomo ha nei confronti della morte sono la beffa e l'inganno. Ne Il settimo sigillo, il cavaliere giunge alla conclusione che l'unico gesto veramente degno della sua condizione di uomo e di cavaliere consiste nel distrarre la Morte per far guadagnare tempo alla famiglia di attori e permettere a questi ultimi di salvarsi. E non è secondario che a salvarsi siano dei comici. Per Bergman, insomma, l'appuntamento con la morte, conseguente alla precarietà dell'esistenza, si può rinviare; di poco, ma si può.

Brancaleone, come si è detto, cerca subito di evitare la morte attraverso giri di parole e infine ottiene di poter morire eroicamente entro un certo termine. Nel finale, Brancaleone non sospetta che la Morte si presenti puntuale all'appuntamento. Quando ciò avviene, Brancaleone la sfida a duello. Egli riesce anche a trafiggerla, ma è inutile: la Morte è invulnerabile ed inesorabile. Brancaleone si salva solo perché la strega, per amore, si prende il colpo di falce a lui destinato. Ma è la stessa Morte a dire, poi, che risparmia Brancaleone solo perché «li conti tornano». Qui, l'appuntamento con la Morte è solo rinviato grazie al sacrificio di un essere umano ed alla "generosità" della Morte. Amara constatazione. Ma il risvolto tragico del genere commedia è ben noto al regista toscano per averlo praticato in alcuni suoi film (si pensi, fra gli altri, a La grande guerra ed a Parenti serpenti).

Si rendono necessarie alcune osservazioni. In primo luogo, il "sacrificio" della strega va anche interpretato come un ennesimo tentativo di beffare la Morte. Infatti, la strega sa - e lo spettatore lo apprende in precedenza, nella sequenza del dialogo fra la strega ed il re Boemondo al campo dei crociati - di potersi trasformare in una gazza. Cosa che avviene subito dopo la sua morte. Dunque, la vita di un essere umano si interrompe, e questo basta alla Morte; ma la medesima vita rinasce in forma di animale, e questa è la beffa nei confronti della Morte. In secondo luogo, va sottolineato un aspetto di singolarità nella parodia messa in atto da Monicelli di alcuni temi del film di Bergman. Il regista toscano attua una chiara parodia del film di Bergman in almeno due punti: il dialogo del cavaliere con la Morte ed il rogo della strega. Anche il duello finale di Brancaleone con la Morte è una parodia, ma stavolta in tono drammatico, del duello in forma di partita a scacchi tra il cavaliere Antonius Blok e la Morte. La sfida del cavaliere Blok alla Morte è costantemente razionale, anche quando cerca di guadagnare tempo per salvare la famiglia di attori. La sfida di Brancaleone, invece, è istintiva, è la sfida del popolano con il mito della cavalleria: non può che risolversi nel confronto fisico.

Si tratta di differenze che emergono con chiarezza soprattutto nella parte finale dei due film. Antonius Blok è ormai rassegnato al suo destino ed affida alla propria intelligenza la possibilità di una vittoria parziale sulla Morte. Brancaleone ha compreso di essere faccia a faccia con la Morte e decide di affrontarla fisicamente in una lotta impari: ancora una volta, la commedia mostra il suo risvolto tragico. Tanto è vero che tutta la sequenza del duello fra la Morte e Brancaleone, fino all'uccisione della strega, è tesa e drammatica. Brancaleone, in tale sequenza, non "sbruffoneggia" mai, nemmeno quando offre il suo petto alla Morte.
Si potrà obiettare che il finale di Brancaleone alle crociate risponde, sostanzialmente, allo scopo di non far morire Brancaleone per un eventuale seguito. L'osservazione è condivisibile. Ma non sembra fosse nelle intenzioni di Monicelli fare un terzo episodio di Brancaleone. E, in ogni caso, il significato delle sequenze finali, anche in caso di morte di Brancaleone, non cambierebbe di molto.
In chiusura, si può affermare che in entrambi i film il "riso", la beffa, l'astuzia e l'inganno da un lato, il sacrificio dall'altro, sembrano essere le spuntate armi concesse all'uomo nel suo confronto con il soprannaturale.


5 - La storia e l'intreccio. A margine di 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick (1968)


In queste brevi considerazioni si esulerà dal Medioevo e ci si soffermerà sulla rappresentazione e rielaborazione del passato (e della Storia) non in termini di "anacronismo" o di "immagine del passato" fornita da un film, ma sulla funzionalità che hanno espliciti rimandi al passato all'interno della struttura narrativa di una pellicola e delle tesi sostenute in essa dall' (o dagli) Autore.
Lo spunto per tali minime riflessioni è offerto da 2001, Odissea nello spazio, capolavoro della fantascienza realizzato da Stanley Kubrick nel 1968. Nel futuro prossimo (va sempre ricordato che il film uscì nel 1968) un misterioso monolite "appare" su un asteroide e sembra essere puntato verso Giove. Gli Stati Uniti decidono di inviare su tale pianeta un'astronave la cui missione è però sconosciuta agli stessi astronauti.
Il passato apre e chiude il film di Kubrick. Nelle sequenze iniziali viene rappresentata l'"alba dell'umanità", stando all'omonima didascalia. Nel finale, l'unico astronauta sopravvissuto approda in una casa arredata in modo "neoclassico" in cui invecchia e rinasce rapidamente. Qual è il significato di questo "posizionamento" del passato nell'economia narrativa del film?

Come già accennato in apertura, l'analisi della fedeltà dell'ambientazione, per quel che riguarda le sequenze riferite al passato, non rientra negli obiettivi di questo scritto e comunque sarebbe fuorviante nell'interpretazione del film di Kubrick. Infatti, si sa ancora poco sulle scimmie antropomorfe e sulla vita che esse conducevano, ovvero si sa poco della preistoria che Kubrick mostra in apertura. Eppure: lo spettatore si fa un'idea "realistica" dell'"alba dell'umanità". In modo più accentuato, l'ambientazione "neoclassica" di alcune sequenze finali richiama in mente il Settecento (quello "Occidentale"): non è un caso se la critica ha parlato, anche in riferimento a quest'ultimo aspetto, di racconto filosofico.

Dunque, il periodo preistorico (in apertura) ed il Settecento (in chiusura) si connotano come epoche destinate a marcare in maniera decisa il viaggio che l'umanità sta per compiere e che Kubrick intende presentare. L'umanità del futuro (prossimo?) nasce da una "nuova preistoria", che ha come modello ideale la cultura illuminista ed il classicismo. L'umanità di 2001, Odissea nello spazio è "preistorica" perché ancora non sa di passare ad una nuova era (e ad un altro mondo, lontanissimo, ma potrebbe essere la stessa Terra). Infatti in tale "preistoria" le macchine raggiungono un grado elevatissimo di sofisticazione. Esse sembrano ambire a voler sostituire gli esseri umani nel dominio del mondo. Verranno sconfitte dal residuo di "animalità" - memoria di quel periodo di lotta feroce per la sopravvivenza che si è soliti definire come preistoria, memoria giacente nella corteccia cerebrale e dunque patrimonio genetico - esistente nell'uomo e illustrato nelle sequenze iniziali. Ciò è esemplificato dalla vicenda dell'ultimo astronauta in lotta contro Hal 9000, il supercomputer che gestisce l'astronave.

Ma la nuova umanità nascerà anche da quanto di buono l'uomo ha elaborato nel corso della sua storia: dal pensiero che libera l'individuo, dalla conoscenza, dall'approccio razionale alle cose, da rapporti sociali finalmente "umani", tappa finale (o "nuova alba dell'umanità") cui la storia umana approda dopo un viaggio millenario e che viene sintetizzata e suggerita soprattutto dalle sequenze finali.
Ovviamente, un altro passato sta a monte dell'operazione di Kubrick. Si tratta dell'esplicito richiamo all'Odissea come archetipo del "viaggio". Su questo la critica ha scritto molto. Qui si vuole solo evidenziare, una volta di più, che l'analisi del film suggerisce che l'Ulisse cui guarda Kubrick è, forse, più "dantesco" che "omerico". Avevamo promesso di allontanarci dal Medioevo, ma, a quanto pare, non se ne può fare a meno.


6 - Attila o del cult-trash

Attila il flagello di Dio
, diretto da Castellano e Pipolo e uscito sugli schermi nel 1982, è stato nel 2004 il DVD più venduto in Italia. A partire da questa notizia, Marco Giusti ha condotto una riflessione (apparsa sul «Venerdì» de «la Repubblica» del 13 luglio 2004) sulle pellicole comunemente classificate come trash-movie all'italiana e sul loro attuale successo nelle vendite in formato DVD.
Mi è sembrato opportuno (e liberatorio?) scrivere alcune "note a margine" su tale fenomeno e sulle considerazioni fatte da Giusti nel citato articolo.
Su Attila il flagello di Dio c'è ben poco da dire. Gli autori sfruttano il fenomeno comico del momento, il personaggio del "terrunciello" creato da Diego Abatantuono, lo calano in una realtà temporale distante dalla nostra per fare un film comico basato sul contrasto terrunciello/Medioevo e gli imbastiscono intorno una storia in cui si strizza l'occhio al Brancaleone di Monicelli. L'esito è disastroso, come pure, a suo tempo, l'incasso.

Passando al più ampio e onnicomprensivo contenitore denominato cult-trash («ma come parla?», direbbe Nanni Moretti?), va notato che, ormai, basta appiccicare ad un film qualsiasi l'etichetta "cult" perché questo diventi un capolavoro del cinema mondiale.
Se l'analisi condotta da Giusti è condivisibile per alcuni aspetti (elemento generazionale, l'"oggetto-cult", il citazionismo), per altri non lo è affatto ed è proprio su questi ultimi che mi soffermerò. Ecco il ritratto socio-antropologico dei cultori del trash-movie abbozzato da Giusti: «maschio, trentenne, figlio di pariolini o di borgatari, può essersi formato con le pagine culturali di “la Repubblica” o “il manifesto” come con le copertine di Blitz o, meglio ancora, con i varietà anni Ottanta di Canale 5 e RaiUno. Ha letto Genette o Foucault o, al massimo, Stephen King. Non importa. La sua cultura è assolutamente trasversale a quella imposta dai media. Si vuole sentire completamente libero, politicamente e culturalmente. Non sa chi siano Francesco Rosi, Citto Maselli e Ettore Scola. Non ha mai letto Tullio Kezich».

L'identikit tracciato da Giusti ha il merito di evidenziare la grande eterogeneità dei prodotti culturali di cui potenzialmente disponiamo, ma non considera due questioni fondamentali. In primo luogo, che l'industria cinematografica tende a diffondere, e quasi sempre ad imporre, prodotti diretti ad un pubblico il più vasto possibile o che seguano gli "umori" di un determinato contesto storico (è il caso dei "poliziotteschi") oppure ancora la moda culturale del momento: si pensi al filone dei film "boccacceschi", che sfruttò il successo commerciale del Decameron di Pasolini. Per l'industria cinematografica non esistono B-movie e cult-trash, ma solo pellicole che devono incassare. Questa industria può anche presentare (in caso di uscite in DVD o VHS) i film con le citate etichette, ma unicamente per vendere.

In secondo luogo, che la televisione ha notevolmente amplificato ed esasperato tale "vocazione" e, di conseguenza, il livello di quello che ci viene proposto sul piccolo schermo è così mediocre, la scelta - per calcolo economico, ovvero per favorire la pay-tv, e culturale: gli spettatori sono ritenuti, o vanno fatti diventare, bambini incapaci di scegliere - così scarsa, da far apparire come capolavori film che, nel migliore dei casi, non vanno oltre il buon artigianato e l'onesto mestiere. Certo, il collezionismo e le passioni vanno rispettati, però non è che siccome, per dire, Paulo Roberto Cotechiño, centravanti di sfondamento o Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno sono cult-trash, di conseguenza diventano capolavori imperdibili.
Nel suo articolo, Giusti rievoca brevemente il dibattito interno alla critica cinematografica italiana negli anni Settanta, ne sottolinea la vittoria della linea "parruccona" ed evidenzia come, a tutt'oggi, la "disponibilità" della cultura ufficiale nei confronti dei film di genere non sia cambiata da allora. L'accusa di "mancata attenzione" è condivisibile - basterebbe, però, sfogliare le annate di «Cineforum» per scoprirvi brevi saggi, articoli e recensioni dedicati a questi trascurati generi cinematografici - in quanto soprattutto in questi film è possibile leggervi chiaramente gli obiettivi della produzione, la cultura ad essi sottesa, i modelli di riferimento, e via dicendo.

Verrebbe però da aggiungere (malevolmente?) che una delle massime aspirazioni dei critici è quella di "riscoprire" autori e film ingiustamente trascurati dalla "critica ufficiale". Va ricordato che un'operazione di questo genere, in Italia, è riuscita soltanto per Totò e, si badi, per il personaggio, non per quasi tutti i film da lui interpretati. Eppure a me sembra che la critica, come anche un qualsiasi spettatore intelligente, sappia ormai distinguere, ad esempio, fra la regia di Riccardo Freda e quella di Mariano Laurenti; fra Renzo Montagnani, valido e sottoutilizzato attore, e il bravo caratterista Mario Carotenuto. Collocare fra i grandi attori italiani Lino Banfi e Alvaro Vitali in quanto protagonisti di molti film appartenenti a quel genere che con un eufemismo viene definito "commedia erotica all'italiana"? E, per questo, snobbati (o stroncati) dalla critica? Sbaglierò, ma la migliore interpretazione di Banfi è il commissario in Fracchia la belva umana (grande primo tempo), mentre il destino cinematografico di Vitali è stato irrimediabilmente segnato da Amarcord.
Infine due domande: in tutto questo riscoprire, che fine hanno fatto i "musicarelli"? Siamo sicuri che alla spocchia del cinefilo non si sostituisca la spocchia del cinefilo cultore di trash-movies?

Ad un recente festival di Venezia, Quentin Tarantino è stato l'alfiere della rivalutazione dei B-movie (in particolare, dei "poliziotteschi") all'italiana. Secondo il regista, questi film vanno rivalutati perché piacciono a lui e perché hanno avuto un grande successo di pubblico. Quand'è così...
Chiudo ricordando le regole del gioco. Ognuno è libero di realizzare quello che vuole. Al pubblico e alla critica la libertà di valutazione. E fa niente se alcuni film sono proprio pessimi.



7 - Passato-presente. Montaggio alternato e Medioevo. Note su Highlander, di Russell Mulcahy (1986), e Riccardo III. Un uomo un re, di Al Pacino (1996)

Si propongono alcune brevi riflessioni sull'immagine del passato, in particolare del Medioevo, fornita dal cinema in film le cui storie, attraverso l'uso del montaggio alternato, si connotano per il loro sviluppo su due piani temporali: passato e presente.
I due film in oggetto propongono altrettanti casi differenti: 1) "razionalizzazione" del passato; 2) passato come antefatto del presente.
In Riccardo III - Un uomo, un re (regia di Al Pacino, 1996), il passato è oggetto di continua razionalizzazione. Quale passato? Per rispondere alla domanda è necessario partire dal titolo originale - Looking for Richard, cercando Riccardo (III) - concetto cui si allude nelle didascalie di apertura in cui si "gioca" con la scomposizione del termine "looking" in "look" (guardare, ricercare, ecc.) e "king" (re). Il film, che si presenta come un documentario, è una "ricerca" sia sul Riccardo III di Shakespeare e sul teatro shakespeariano, sia sul personaggio Riccardo di Gloucester e sul lavoro che deve fare l'attore chiamato ad interpretarlo.

Il passato che Al Pacino assume non è l'Inghilterra del XV secolo (subito dopo la Guerra delle Due Rose) ma tale periodo secondo l'immagine datane da Shakespeare. Non inganni, in proposito, la scena in cui il regista afferma che bisognerebbe conoscere meglio il contesto storico in cui operò Riccardo di Gloucester. In tale sequenza si intravedono soprattutto immagini di costumi (forse abiti di scena) probabilmente corrispondenti a quelli in uso alla fine del XV secolo in Inghilterra. Sul significato di questa sequenza si tornerà in seguito.

L'assunzione di un passato che è quello della tragedia shakespeariana, unitamente a quelli che sono gli intenti del regista, comporta che esso sia "razionalizzato" e, di conseguenza, fatto percepire con distacco allo spettatore. Infatti ogni sequenza "in costume" è commentata (e anticipata) da una voce fuori campo o da stacchi sul presente che commentano la scena (si veda, ad esempio, quella della morte di Clarence). Altre volte il rimando al presente è dato dal consapevole guardare nella macchina da presa da parte dei personaggi (Riccardo III su tutti) oppure, ed è ancora il caso della sequenza della morte di Clarence, viene usato lo stesso testo shakespeariano. Infatti il dialogo in cui Riccardo III commissiona ai sicari il suddetto omicidio ha, in realtà, funzione di commento all'azione che si compirà e quindi provoca un effetto di "straniamento" nella scena in cui i sicari passano all'azione.

Risente di queste scelte la tecnica del montaggio alternato usata per lo sviluppo dell'intreccio. Le due storie, quella della compagnia (o del cast) che indaga e prova il Riccardo III di Shakespeare e quella della rappresentazione del dramma, scorrono parallele. Ora, il montaggio alternato viene normalmente utilizzato per separare in maniera netta due (o più) vicende in una storia. Tali vicende possono, ad esempio, incontrarsi in un momento topico del film o essere legate da un tema in comune (anche esilissimo e pretestuoso). Insomma, l'interazione fra le diverse vicende può avvenire a vari livelli e/o con maggiore o minore intensità.

Come si vede, se da un lato la tecnica del montaggio alternato ha l'effetto di distinguere in maniera chiara le varie "microstorie" di un film, dall'altro le scelte effettuate dagli autori, inerenti gli sviluppi della trama, possono accentuare o meno tale distinzione. Nel caso del Riccardo III di Al Pacino, lo stacco fra le due vicende, e quindi fra presente e passato, è accentuato e ottenuto proprio attraverso la continua razionalizzazione della tragedia da rappresentare cui si è accennato in precedenza.

Il "gioco" fra passato e presente verte, dunque, sulla comprensione del teatro di Shakespeare e del personaggio Riccardo III. Ciò viene ribadito in diverse sequenze ed è fortemente sottolineato quando lo sceneggiatore sostiene che su Riccardo III ne sanno più gli attori che gli studiosi. Se questa è l'intenzione degli autori, il Medioevo che ne viene fuori è quello stereotipato delle corti rinascimentali e, soprattutto, dei sovrani con la corona perennemente in testa. Si è accennato, in precedenza, alla scena in cui gli autori affermano che è necessario conoscere la storia dell'Inghilterra del XV secolo. Tale studio è però funzionale ad una migliore comprensione dell'agire, degli stati d'animo e dei sentimenti che contrappongono i personaggi della tragedia.


La storia che viene presa in considerazione è quella comunemente definita événementielle; il passato è quello consegnato dagli stereotipi iconografici. Non solo. La scarna scenografia è tanto indice di una concezione di Medioevo in cui gli interni delle abitazioni (di qualunque genere) sono scarni, quanto la conseguenza di una scelta, da parte del regista, che privilegia il Riccardo III come dramma alla cui riuscita è fondamentale il lavoro attoriale. Allo stesso modo, la tonalità scura, che contraddistingue le scene in costume, sembra più funzionale all'associazione buio/tragedia che (senza per questo escluderla) ad una concezione di Medioevo quale periodo "buio".
Il Medioevo rappresentato nel film di Al Pacino è, dunque, allo stesso tempo, periodo dal quale estraniarsi, e quindi da valutare con distacco e razionalità, e luogo comune (sovrani sempre con la corona in testa, ambienti spogli, "buio", ecc.) facilmente percepibile dallo spettatore.

Più tradizionale lo sviluppo delle vicende parallele, fra presente e passato, in Highlander (regia di Russell Mulcahy, 1986). Qui va subito precisato che il passato è la Scozia della prima età moderna (primo Cinquecento), ma la distanza temporale è così vicina alla data convenzionalmente assunta per indicare la fine del Medioevo (1492) che si può ipotizzare la persistenza di vari aspetti della civiltà medievale anche per tale periodo. Il passato è, in questo film, il tempo e il luogo dell'"antefatto" di una storia che trova il suo epilogo nella New York di fine XX secolo.
Le due storie (o "microstorie") procedono parallele: ciò che si svolge nel passato serve a chiarire le vicende ambientate in età contemporanea. Il passato che vede lo spettatore è quello che ricorda il protagonista. Esso deve quindi avere caratteri di "veridicità" e di "realismo". Se, infatti, il protagonista è il "testimone del passato", di conseguenza, nella finzione cinematografica, la memoria di Mc Leod (il protagonista) non può non richiamare esperienze realmente vissute. In realtà, il tempo e, soprattutto, il luogo in cui si svolgono le vicende del passato sono indicati essenzialmente attraverso le immagini.

Si tratta, nello specifico, di stereotipi pescati nella cultura diffusa che rimandano facilmente lo spettatore alla Scozia medievale. Il richiamo al Medioevo è dato dal carattere quasi barbarico della società rappresentata nel film. L'identificazione con la Scozia è invece data dalla presenza di kilt e cornamuse. Soprattutto in questo caso si è in presenza di luoghi comuni che non hanno ragion d'essere: la diffusione del kilt risale alla prima metà del XVIII secolo, idem per le cornamuse. Va inoltre precisato che, ancora nel Cinquecento, le Highlands erano abitate soprattutto da coloni irlandesi, i quali erano disprezzati e visti con fastidio dalla popolazione scozzese: Highlander era sinonimo di rozzo irlandese. Va infine puntualizzato che l'abbinamento kilt-cornamusa, anche se rilevato per la prima età moderna e localizzato nelle Highlands, riguardava una porzione esigua degli abitanti delle Highlands, era un'usanza malvista dagli scozzesi e, comunque, non si presentava nelle forme con cui lo conosciamo.

Highlander
è ascrivibile al genere fantastico: nel realismo delle vicende quotidiane del primo XVI secolo e di fine XX irrompe l'elemento meraviglioso, dato dalla presenza di esseri immortali impegnati in cruenti duelli. Paradossalmente proprio quest'ultimo aspetto, sia pure, con molta probabilità, in maniera involontaria, rimanda da vicino alla percezione che del meraviglioso si aveva nelle società dell'occidente medievale. In tali società l'elemento meraviglioso è, allo stesso tempo, privo di legami con la vita quotidiana ma (come dice Jacques Le Goff) «totalmente inserito in ess[a]». Nel film, infatti, la donna con cui Mc Leod vive sa di avere come compagno un essere immortale. Gli anni passano, ma lei invecchia e muore mentre lui resta giovane.
Nel film di Mulcahy, dunque, l'interazione fra presente e passato è data dal ruolo chiarificatore che le vicende del passato assumono man mano che la pellicola si sviluppa. Si tratta di un tòpos piuttosto comune che trova nel montaggio alternato una soluzione ideale. E tuttavia l'adozione del suddetto tòpos non attenua o accentua, in maniera significativa, la separazione fra due (o più) vicende (qui fra presente e passato) così come viene normalmente proposta con l'uso del montaggio alternato.


In conclusione, si può affermare che le differenti premesse da cui partono i due film in oggetto danno luogo ad un esito comune, che è quello di un Medioevo piuttosto stereotipato. Non si rilevano, invece, convergenze per quel che riguarda i rapporti fra intreccio e tecnica narrativa (il montaggio alternato): le due pellicole approdano ad esiti diversi. In particolare, nel caso del Riccardo III la continua razionalizzazione del passato accentua le caratteristiche della tecnica di narrazione adottata - netta separazione fra le "microstorie" che compongono un film - e permette allo spettatore di guardare al passato (e alla tragedia di Shakespeare) con occhio critico.



8 - Cavalleria, razionalità, politica: tre terreni di incontro (e scontro) fra Oriente e Occidente nei film di ambientazione medievale

Nel cinema di ambientazione medievale (almeno di quello europeo e americano) il musulmano (“arabo”) rappresentato è spesso quello della cultura diffusa: astuto (l’“astuzia levantina”) e saggio. Si può forse ipotizzare che le origini di questo stereotipo stiano nel fatto che il fedele islamico è tenuto a conoscere il Corano e ad applicarlo quotidianamente, anche facendo ricorso al ragionamento analogico (qiyās) qualora non sia possibile stabilire una questione sulla base delle fonti tradizionali. Vi è poi da considerare la fama che circondava Saladino, ritenuto politico saggio, uomo liberale - nel senso medievale di “liberalità”, per cui Dante lo mise nel limbo - e cortese. In ogni caso, questa figura si ritrova in tre film di matrice hollywoodiana destinati ad un pubblico il più vasto possibile: Riccardo Cuor di Leone (David Butler 1954), Robin Hood principe dei ladri ( Kevin Kostner 1989), Le crociate (Ridley Scott 2004).
Nel Riccardo Cuor di Leone di Butler, l’arabo saggio si identifica con Saladino (Salah ad-Din), interpretato da Rex Harrison, star della commedia americana. Il film è tratto dal romanzo Il talismano di Walter Scott.


Saladino è l’arabo astuto, intelligente, saggio, che fa suoi gli ideali della cavalleria, applicandoli con coerenza. A fronte c’è il campo cristiano di re Riccardo (Cuor di leone), comandante dell’esercito crociato, uomo spontaneo e generoso, attorniato da alleati infidi e complottardi. La contrapposizione “etica” fra Riccardo III e i suoi alleati risalta ulteriormente se si presta attenzione al titolo originale del film: King Richard and the Crusades, cioè Riccardo III e i crociati, dove la “e” non è congiunzione ma endiadi, opposizione fra due termini. Saladino, dunque, sotto mentite spoglie, va a Londra per conoscere l’“Occidente” e apprendere gli ideali della cavalleria. Gli capita pure di innamorarsi della cugina di Riccardo III. Gli ideali cavallereschi (sempre uniti ad astuzia e saggezza) sono un costante punto di riferimento per Saladino, e lo dimostra durante la crociata guidata da Riccardo III. Saladino, infatti, si finge medico inviato da sé medesimo al campo crociato per guarire Riccardo III e poi sfidarlo a singolar tenzone per decidere le sorti della guerra. La sua permanenza al campo crociato è, in realtà, un espediente per corteggiare la cugina del re conosciuta a Londra, a sua volta innamorata (ricambiata) di sir Kenneth, nobile cavaliere scozzese. A Saladino tocca salvare Kenneth, vittima di un complotto, da morte sicura per mano di Riccardo III. Durante le movimentate sequenze finali, Saladino esibisce saggezza, abilità e coraggio, ma soprattutto lealtà.


Nel film la differenza fra Oriente e Occidente è costantemente rimarcata, ma c’è un punto sul quale tutti sembrano trovare accordo: la cavalleria. Beninteso, l’ideale cavalleresco di questo film è quello di natura letteraria e ariostesca: «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto…». A questo ideale di cavalleria si ispirano sia i principi crociati che Saladino, quest’ultimo mettendolo veramente in pratica. La cavalleria è qui un possibile terreno di incontro, un orizzonte di valori condivisi in cui collocarsi, al quale, però, vengono meno soprattutto i cristiani.

Va inoltre notato che il film, girato nel 1954, risente del fenomeno di decolonizzazione allora in atto. Le colonie europee vanno acquisendo rapidamente indipendenza e sovranità. Il mondo ritenuto “inferiore” si colloca sullo stesso piano dei loro dominatori. Eppure, nella mentalità comune europea (occidentale) resta un alone di superiorità. È possibile rinvenire questo alone negli ideali cavallereschi del film di Butler, dove la cavalleria, forma di civiltà superiore, è originaria del mondo cristiano e occidentale, e Saladino si reca a Londra in una sorta di “pellegrinaggio laico” per apprenderne i valori. Da questo punto di vista, gli intrighi, gli inganni e le bassezze dei cavalieri cristiani sono condannati come un venir meno alla propria cultura di origine che, al contrario, tanta ammirazione riscuote nel mondo islamico. Inoltre è possibile spiegare il civilissimo e simpaticissimo Saladino di questo film sia con il contesto di decolonizzazione – vulgo: «quelli del terzo mondo sono come noi» – sia con il fatto che ad interpretarlo è Rex Harrison, che nello star system hollywodiano è attore brillante e positivo per eccellenza.


Nel film di Kostner, invece, è la razionalità a potersi configurare come terreno d’incontro fra mondo cristiano e mondo musulmano. Robin di Locksfield (Robin Hood) torna in Inghilterra dalla crociata insieme ad un islamico di colore. Sarà proprio quest’ultimo ad aiutare Robin nelle imprese che tutti conoscono, oltre che in qualcun’altra inventata di sana pianta per questo film. L’arabo è qui il fratello maggiore di Robin: più forte, più esperto e, soprattutto, ironico e saggio, di una saggezza razionale. Ragionando continuamente sugli uomini, sulle loro azioni e passioni, comportandosi con molto buon senso (è questa la razionalità del film) e umanità, egli dimostra la superiorità della sua cultura, risultando decisivo in alcuni momenti della storia e non mancando mai di sottolineare gli aspetti irrazionali degli occidentali. Significativa, in proposito, è la presenza di una strega (personificazione per eccellenza dell’irrazionale) che lo stesso arabo ucciderà. Anche in questo caso, solo una parte dei cristiani mostra di condividere il valore della razionalità, che, come si è scritto, spesso è buon senso e ragionevolezza.


I crociati
è film che risente del clima dell’11 settembre (attentato alle Torri gemelle). Importante il sottotitolo in inglese: The Kingdom of Heaven (Il regno del cielo), che sarebbe Gerusalemme. Il regno del cielo è un possibile mondo in cui convivono pacificamente le diverse religioni. Affinché questo avvenga, è necessario provare a capire le ragioni dell’altro, esercitare un potere fermo e tollerante, scegliere le armi della politica e non la politica delle armi. Questa prospettiva è condivisa dal re di Gerusalemme e da Saladino, nonché da pochi loro alleati dei rispettivi schieramenti. Fra questi spicca il giovane Bailan, che difenderà strenuamente Gerusalemme dall’assedio di Saladino, ricavandone la pacifica evacuazione della città.
I crociati
si discosta dai due film cui si è accennato in precedenza in quanto volutamente costruito sui temi della tolleranza e della politica come strumento per esercitarla.


Nel film di Scott si cerca di restituire Saladino alla sua dimensione storica di abile comandante militare, accorto e deciso capo di uno schieramento, politico intelligente e tollerante. Saladino non pratica astuzia per secondi fini. Egli dichiara apertamente i suoi obiettivi e mostra forte determinazione nel perseguirli. Saladino e il re di Gerusalemme, pur divisi dalla religione, sono uniti dalla politica, che per loro è mezzo per favorire una necessaria convivenza fra individui di religioni diverse, anche nel clima di tregua armata in cui essi agiscono. Entrambi, però, sono spietati e decisi quando qualcuno – qui i fanatici delle due parti che gridano spesso «Dio lo vuole», soprattutto i templari – infrange il delicato equilibrio: lo è il re di Gerusalemme con il capo dei templari, lo è Saladino quando stermina i crociati che gli muovono contro e durante l’assedio di Gerusalemme. Eppure Saladino, che lotta sempre per fare grande l’Islam, non sottomette mai l’altro alla propria causa, forse rendendosi conto, al fondo, che Gerusalemme è “niente” e “tutto”, come afferma nelle battute finali del film: prima vengono gli uomini.


Note


1 Cfr. G. Rondolino, Storia del cinema, Utet, Torino 2000, pp. 18-92.

2 Cfr. Ivi, pp. 58-172; V. Attolini,Teorie classiche del cinema, B.A. Graphs, Bari 2002, pp. 3-81.

3 Su questo aspetto cfr. l’interessante saggio di G. Zeppa, La fabbrica delle didascalie, in Tecnologie del cinema muto. Discorsi, macchine e professioni, vol. 2, Macchine e professioni, a cura di M. Canosa, G. Carluccio, F. Villa, Roma 2006, pp. 76-89.

4 Sugli stereotipi del Medioevo cfr. G. Sergi, L’idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 2005; F. Violante, L’età dimezzata. Il Medioevo come stereotipo tra ricerca e didattica, in Il Mezzogiorno medievale nella didattica della storia, a cura di R. Licinio, T. Montefusco, Adda, Bari 2006, pp. 21-56.

5 Sul tema dei rapporti fra cinema e storia, con particolare riferimento al Medioevo, si vedano, in via preliminare, M. Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Feltrinelli, Milano 1980, in particolare le pp.157-60; P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenze 1984; C. Salizzoni, La storia al cinema: il Medioevo, Giunta della Provincia autonoma di Trento, Trento 1999; V. Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Dedalo, Bari 1993; M. Lagny, Il cinema come fonte di storia, in Storia del cinema mondiale, a cura di G. P. Brunetta, Einaudi, Torino 2001, vol. V, Teorie, Strumenti, Memorie, pp. 272-76. Sono infine di grande utilità i saggi e gli articoli apparsi nella rubrica L’altro medioevo della rivista «Quaderni Medievali».

6 Sulle sperimentazioni e sull’avvento del sonoro al cinema cfr. Rondolino, Storia cit, pp. 248-58; C. Montanaro, Il cammino della tecnica, in Storia del cinema cit., pp. 145-48 e 155-60, ma l’intero saggio è da leggere con interesse. Anche se riferito al cinema italiano, è da leggere con profitto P. Valentini, L’ambiente sonoro del film italiano degli anni Trenta. Tecnologia cinematografica e contaminazione del paesaggio mediale, in Svolte tecnologiche nel cinema italiano, a cura di S. Bernardi, Carocci, Roma 2006.

7 Sulle sperimentazioni e sull’avvento del colore al cinema cfr. Montanaro, Il cammino cit., pp. 127-38 e 145-148; J. Belton, Il colore: dall’eccezione alla regola, in Storia del cinema cit., pp. 801-26.

8 L’analisi di tali aspetti è in G. Pellecchia, Il bianco e il nero. Aleksandr Nevskij di S.M. Ejzenštein, in www.cinemedioevo.net.

9 Cfr. P. M. De Santi, Cinema e pittura, inserto redazionale allegato al n. 16 di «Art Dossier», Firenze 1987.


Filmografia


2001 Odissea nello spazio
(Stanley Kubrick 1968)

Aleksandr Nevskji (Sergei M. Ejzenštejn 1938)

Amen (Costa Gavras 2002)

Andreij Rublev (Andrej Tarkovskij 1966)

Attila il flagello di Dio (Castellano e Pipolo 1982)

Brancaleone alle crociate (Mario Monicelli 1970)

Excalibur (John Boorman 1981)

Garage Olimpo (Marco Bechis 1999)

Highlander (Russell Mulcahy 1986)

I Racconti di Canterbury (Pier Paolo Pasolini 1972)

Decameron (Pier Paolo Pasolini 1971)

Fiore delle Mille e una Notte (Pier Paolo Pasolini 1974)

Il ladro di Bagdad (Douglas Fairbanks 1924)

Il nome della rosa (Jean-Jacques Annaud 1986)

Il primo cavaliere (Jerry Zucker 1995)

Il processo di Giovanna d’Arco (Robert Bresson 1962)

Il re d’Inghilterra non paga (Giovacchino Forzano 1941)

Il settimo sigillo (Ingmar Bergman 1957)

Intolerance (David Wark Griffith 1916)

Ivan il Terribile(Sergei M. Ejzenštejn 1944)

L’Enrico V (Laurence Olivier 1944)

La congiura dei boiardi (Sergei M. Ejzenštejn 1958)

La fontana della vergine (Ingmar Bergman 1960)

La leggenda di Robin Hood (di Michael Curtiz 1938)

La passione di Giovanna d’Arco (Carl Theodor Dreyer 1928)

La ricotta (Pier Paolo Pasolini 1963)

L'armata Brancaleone(Mario Monicelli 1966)

Le crociate (Ridley Scott 2004)

Magnificat (Pupi Avati 1993)

Perceval le Gallois (Eric Rohmer 1978)

Riccardo Cuor di Leone (David Butler 1954)

Riccardo III. Un uomo un re (Al Pacino 1996)

Robin Hood (Douglas Fairbanks 1922)

Robin Hood. Principe dei ladri (Kevin Reynolds 1991)

Segreti di Stato (Paolo Benvenuti 2003)