The-Tree-of-Life-trailer-stunning-image1In questi ultimi mesi è accaduto qualcosa di molto importante, non solo inteso dentro l'ambiente della cultura, ma dentro l'ambiente in generale, cioè in “naturale”, se è vero, riprendendo Deleuze (non vedo chi altrimenti, pur volendo), che ogni storia dell'arte è, innanzitutto, storia naturale. La comparsa di quel The Tree of life, che, piaccia o no (e a molti non è piaciuta l'estrema pulizia, rigorosa, religiosa purificazione delle immagini, divenute così stucchevoli, o solo apparentemente), si installa come uno scuro (cioè misterioso) monolito, nella truculenza del mercato-contemporaneo.

 

Ed è un segnale dell'eccezionalità del film, che in un cinema di Bologna sia stato proiettato invertendo inavvertitamente i rulli del primo e del secondo tempo, mantenendo inalterato il suo abbagliante e commovente portato. Era naturale allora, che il nuovo numero di Uzak gli dedicasse spazio, del resto mai sufficiente a dipanare i dettagli, i chiaroscuri, le liriche distonie di questo cinema-mondo, anzi cinema-cosmo, adiacente ai già vertiginosi universi kubrickiani e tarkovskiani. Perciò riprendiamo due interventi usciti di recente su “Filmcritica” (aprendo la consueta finestra su quella che è la rivista più vecchia eppure, a mio avviso, più “giovane” e all'avanguardia del panorama italiano), a firma rispettivamente di Bruno Roberti e di Lorenzo Esposito; e un altro inedito di Raffaele Cavalluzzi, il quale muove proprio dalle contrapposte e ossimoriche osservazioni della critica.

Quella stessa che Roberto Escobar, in un articolo recente sul domenicale del “Sole 24 ore”, criticava, anzi prendeva in giro (parlando di critici-agrimensori, critici-preti, critici-profeti, critici-sociologi, critici-riassuntori, giustamente colpevoli, tutti, delle loro angustie e dei loro risibili vezzi), rivendicando, al contrario, una fruizione cinematografica “normale”, affidata al piacere (e al divertimento) del pubblico, e di lì una "critica relativa" (e memore della propria origine spettatoriale), convinta che il film sia solo un film. Ora, se non ho capito male, Escobar vorrebbe liberarsi di recensori paludosi (e presuntuosi) in favore di una democratizzazione del giudizio, che si esprimerebbe al livello del film, ma anche del relativo giudizio critico. Certo verrebbe da essere generalmente d'accordo, ma se le condizioni fossero diverse, cioè se il pubblico non coincidesse, per lo più, con i tasselli di quella “cultura di massa” – terreno di applicazione e amplificazione del Potere, del Mercato – di cui parla spesso e con cognizione di causa, Slavoj Žižeck. Un'utenza simbioticamente immersa nell'offerta di immagini volgari, violente, come mostra il bel libro di Arturo Mazzarella, Politiche dell'irrealtà, il quale fa combaciare la dimensione del quotidiano proprio con questo truce coacervo iconografico che riguarda lo scambio.

D'altronde, ammettendo questa coincidenza, lo stesso Mazzarella ne indica il contrappunto congruente, cioè l'insieme dei “miraggi” herzogiani (le immagini del cinema d'arte), con il loro patrimonio dialettico, inalienabile eppure, ora, ancora più marginalizzato. Ed è qui che ri-emerge, credo, la funzione della critica, anche nei contrasti di vedute (e oltre le sviste, le maschere, ecc.), perchè da ciò si svela, evidentemente ossia contraddittoriamente (secondo il contraddirsi, divenirsi costante delle immagini) il concetto (e la forma), che va fatto uscire dai margini e va illuminato, dispiegato mediante gli attributi fatici della scrittura rivolta a un pubblico, adesso, in gran parte ignorante: va narrato, ri-visualizzato, condiviso, cercando di esaltare al massimo (anche tendenziosamente) lo spunto immaginativo implicito a ogni sequenza, perchè poi l'utenza ne sia incuriosita o, nel migliore dei casi, ammaliata, e ritorni così ad essere partecipe e responsabile del suo conformarsi.

Ma, mettendo da parte questa divagazione, che forse Escobar definirebbe tipica del “critico-profeta” (e per la quale faccio ammenda), torno all'illustrazione sintetica del nostro Uzak. Pertanto, collegata alla visione (profetica) malickiana è da considerare la pragmatica volontà indagativa (verso l'al di là) di Hereafter, che è l'occasione per una disamina del cinema recente di  Eastwood da parte ancora di Cavalluzzi. Restando in argomento ("religioso"), Matteo Marelli propone una lettura civistica del Decalogo 5. Non uccidere, di Krysztof Kieslowski, quando sono passati oramai 15 anni dalla morte del grande regista polacco. Mentre la sezione dello “Stato delle cose” si chiude con con un articolo di Michele Sardone su un altro evento importante degli ultimi mesi, il programma televisivo “Zaum”, stupefacente tentativo di ri-verbalizzazione e sedizione delle immagini, andato in onda su Rai Tre tra luglio e agosto, a cura di Enrico Ghezzi e della redazione di “Fuori orario”.

Strettamente inerente allo “Stato delle cose”, e coerente col presupposto nomade di Uzak,  inizia poi la nuova rubrica dedicata ai libri sul cinema, “Inchiostro di Kine”, in riferimento al kinetoscopio, cui abbreviazione è “kine” appunto, una rudimentale cinepresa approntata da Edison negli anni del pionerismo cinematografico. Nella prima ricognizione è parso consequenziale partire da CaratteriMobili (che ci edita) e da due novità del suo catalogo, la raccolta di racconti “cinematici” di Lorenzo Esposito, Il prossimo villaggio, e il saggio, tra cinema e letteratura, Per gli occhi magnetici. Campana Pasolini Erice Tarantino, di cui si occupa contemporaneamente, nell'ibridazione di una recensione-saggio, Gemma Adesso. Michele Sardone invece riporta l'intervista a Sara Sagrati e Alberto Brumana, curatori del volume I Dispersi, chiaramente contiguo al programma e al campo di indagine della nostra rivista.

Chiudono il numero la sezione di “Cinema e Medioevo” a cura di Raffaele Licinio (con l'attualità dei contributi di Franco Cardini e Francesco Violante), e la “Cineteca” curata da Vito Attolini, entrambe finestre su un passato riverberante, tanto più che proprio in questi giorni si stanno svolgendo le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, magnificamente fantasmatiche, nella carne di figure oramai assolute, per quanto isolate.

Manca Venezia, di cui magari nel prossimo numero faremo un approfondimento. Del resto un'ampia panoramica, realizzata con lo sguardo peculiare di Uzak, la si trova nello “Speciale Venezia” aperto nel numero 3, squarcio che, nonostante le esigenze di cronaca, non rinuncia all'approfondimento, alla ri-creazione (del film), alle corrispondenze intessute tra opera e mondo (fino a disperderne il displuvio), che è il nostro modo di intendere e vivere la critica.