decalogo5-2Ci sono autori che immeritatamente finiscono nel dimenticatoio di pubblico e critica. È la sorte toccata a Krzysztof Kieślowski, autore su cui è calata una spessa coltre di silenzio. Una rimozione sfrontata e colpevole. Nell’anno in cui tutti vogliono celebrare il centenario della nascita di Nicholas Ray, a noi sembra giusto dedicare un po’ d’attenzione anche ai quindici anni della scomparsa del regista polacco, autore d’una delle opere di più ampio respiro di tutti gli Anni ’80, Il Decalogo. Con la speranza che si torni a far letteratura critica anche attorno al suo cinema.


L’aggettivo centrale, comunque lo si voglia usare, sia in senso proprio - di riguardante il centro - che figurato - utilizzato per indicare un qualcosa di fondamentale importanza - è particolarmente indicato per connotare il quinto episodio del Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Il tema di questo episodio, collocato nel mezzo della struttura complessiva dell’opera, relativo all’imperativo apodittico di Non uccidere, può essere considerato come la premessa che ha dato origine all’intero progetto.


L’entrata in vigore, nella Polonia del 1982, della legge marziale con annessa pena capitale segna nel profondo l’attività registica di Kieślowski. La gravità della situazione politica pone il regista nella condizione di non poter fuggire il presente, egli sente che il suo primo dovere, come intellettuale non asservito al potere, è quello di riflettere sulle contingenze che stanno travolgendo il suo paese. Kieślowski vuole realizzare un documentario sui processi d’insubordinazione alla legge marziale, ormai sempre più frequenti e terminanti con condanne sproporzionate rispetto all’entità dei reati commessi. Riesce ad accedere nelle aule di tribunale grazie alla collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, specializzatosi nella difesa di organizzazioni sindacali e politiche clandestine. Ma il progetto di denuncia ideato da Kieślowski fallisce. La presenza della macchina da presa condizionava l’esito delle sentenze. Le Corti diminuivano le pene, evitavano di farsi riprendere nell’atto d’assegnare condanne ingiuste. Come sostenuto da Serafino Murri «la realtà sfuggiva dalle mani di Kieślowski per adeguarsi all’immagine» (Murri 1997, p. 69).

Nonostante l’insuccesso del documentario il regista non rinuncia a riflettere sulle aberrazioni di cui è testimone e decide di concentrarsi su quella che, ai suoi occhi, è una macroscopica contraddizione in termini che sta innescando effetti devianti all’interno dell’amministrazione della giustizia: la condanna a morte. L’idea di Kieślowski è quella di realizzare un film sull’illogica genesi di un omicidio, un film violento ed estremo, che culmina con la condanna dell’assassino. Anche Piesiewicz, coinvolto in fase di sceneggiatura, è desideroso di lavorare attorno al tema dell’"uccisione dell’omicida" da parte della Legge, col quale s’era già dovuto concretamente scontrare nel corso della sua attività forense. Propone al regista di rielaborare e ampliare il progetto di partenza per realizzare una rilettura dei precetti morali dell’Antico Testamento a cui si ispira gran parte dell’ordinamento giudiziario.


«[….] un sistema di norme, una convenzione, una sorta di costruzione universale che vige da migliaia di anni e che nessuno finora ha mai messo in discussione. Nessuna ideologia, nessun sistema filosofico o politico».
(Kieślowski in Crespi 1989).

Un’idea ispiratagli da un polittico trecentesco polacco, conservato al Museo Nazionale di Varsavia, raffigurante le Tavole della Legge: un grande dipinto ligneo diviso in dieci parti, ognuna illustrante, attraverso brevi scene di vita quotidiana, uno dei comandamenti. L’iniziale proposta di Kieślowski confluirebbe così nel quinto episodio, Non uccidere. Un episodio determinante, questo, anche per quanto riguarda la riuscita produttiva dell’intero progetto. Il budget assegnato al regista dalla Televisione di Stato Polacca, per la quale il Decalogo è stato pensato, risulta insufficiente alla realizzazione dell’opera. Per riuscire ad ottenere un capitale più consistente Kieślowski propone al Ministero della Cultura di realizzare due film a basso costo, indirizzati al circuito cinematografico, tratti dalle sceneggiature del Decalogo. La sola condizione posta dal regista è che uno dei due film sia il numero cinque, mentre, lascia ai responsabili del Ministero la scelta dell’altro, che ricade sul numero sei. Nascono Breve film sull’uccidere e Breve film sull’amore, i cui finanziamenti vengono dirottati sul progetto televisivo. Breve film sull’uccidere, premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1988, è l’opera che permette a Kieślowski di affermarsi internazionalmente come uno dei più lucidi autori del cinema contemporaneo. Seppur essendo l’uno l’estensione dell’altro, come giustamente sottolinea Stefania Rimini, «niente autorizza la sovrapposizione dei due testi, operazione assolutamente impropria da un punto di vista filologico, dal momento che si tratta di due opere autonome, destinate a una fruizione diversificata, legate, dunque, a ordini e criteri compositivi differenti» (Rimini 2000, p. 90).

Mi atterrò quindi al lavoro televisivo.

Se negli altri episodi il rapporto con il precetto biblico è spesso solo tangenziale, allusivo, in questo caso il comandamento – Non uccidere – è preso da Kieślowski e Piesiewicz nel suo significato letterale, materiale. È proprio la materialità dell’uccidere quel che raccontano, ponendola al centro del film e lasciandole la parola. Sotto un cielo basso e cupo, irreale fino a sembrare artificiale, in una giornata "fangosa", come la descrivono in sede di sceneggiatura i due autori, tre uomini diversi, tra loro sconosciuti, ripresi in luoghi fra loro lontani, sono progressivamente trascinati in una spirale d’inarrestabile violenza. Sono: uno scostante ed umorale tassista, inquilino dell’anonimo condominio situato nel quartiere periferico Stowki di Varsavia - lo stabile che fa da cornice alle dieci storie che compongono il Decalogo -; Jacek, giovane errabondo sciagurato e solitario, incoscientemente predestinato alla violenza, uno dei tanti sconosciuti miserabili rigettati ai margini della scena pubblica; il neo-avvocato Piotr, garantista e libertario come si evince dal discorso che sostiene di fronte alla Commissione esaminatrice per essere ammesso all’Ordine di categoria:

«Il deterrente. La "punizione esemplare" […] È una delle motivazioni più opinabili della severità della pena, una motivazione spesso ingiusta, a mio avviso. Credo che più importante sia l’ineluttabilità della pena. Nei confronti di tutti. […] Dai tempi di Caino nessuna pena ha migliorato il mondo o l’ha dissuaso dal commettere il crimine» (Kieślowski - Piesiewicz 1991, pp. 155-156).

Attraverso un serrato montaggio alternato il regista mostra come Jacek e il tassista siano tra loro similari: uno aggressivamente umbratile – lancia sassi dal cavalcavia sulle auto in corsa e in un bagno pubblico spinge un avventore nella latrina -; l’altro sguaiato, sfrontato – cerca d’intrattenersi, con fare ambiguo, con una giovane ambulante; contro ogni logica professionale seleziona la clientela a seconda delle impressioni che ne riceve -, entrambi sembrano votati unicamente a molestare il mondo. I loro comportamenti sono svuotati di qualsiasi logica di causalità o finalità, sfociano soltanto nella violenza gratuita. Due esistenze precarie, totalmente sfiduciate nel futuro, e che, proprio per questo, «approfittano pericolosamente del presente» (Stok D. in Simonigh 2000, p. 144). Due individui superficiali, scontrosi e insensibili, capaci, però, d’improvvisi e ingiustificati gesti di tenerezza – il tassista rinuncia al proprio misurato pasto per darlo a un cane randagio; Jacek diverte due bambine che guardano dalla vetrina del bar dove lui sta facendo colazione.

Circostanze fortuite li fanno incontrare. Jacek, nel suo sbandato girovagare, si ritrova passeggero del tassista. Una volta arrivato a destinazione, il ragazzo uccide il conducente. Non ne ha alcuna ragione immediata: non lo odia, non lo teme, non desidera il suo denaro. Vuole solo uccidere. E lo fa, con ostinazione, con rabbiosa meticolosità. La scena del delitto è una delle più lunghe della storia del cinema – quasi sette minuti e mezzo -, girata però senza nessun compiacimento. Kieślowski rifiuta l’uso consumistico della violenza nel cinema, non vuole confrontarsi con la sua rappresentazione estetica e plastica, ma raccontarla semplicemente per quella che è: un gesto materialmente difficile, faticoso, stremante. Il tutto è reso attraverso lunghi primissimi piani dei volti, fotografati in smorfie di sforzo o di sofferenza, e dei dettagli, come quello delle mani di Jacek gonfie e tumefatte per la stretta della corda con cui sta strangolando la sua vittima. A rendere la sequenza quasi insostenibile, più che la straziante messinscena della morte, è il suo irrompere inaspettatamente nella quotidianità, il suo manifestarsi come evento incontrollabile e assurdo.


Per mezzo d’una spregiudicata ellissi il regista, saltando a piè pari tutta la rappresentazione dell’iter processuale, porta lo spettatore immediatamente al momento della lettura della sentenza di morte.


«Ho detto a Kieślowski che non avevo mai visto al cinema un processo ben rappresentato. Un’aula giudiziaria è molto teatrale. Ognuno interpreta un ruolo ed è difficile fare del cinema nel cinema. Per quanto mi riguarda, trovo molto più interessante incontrare qualcuno in prigione, perché allora mi sento davvero di fronte a un essere umano. In cella non vedo più il criminale, ma la paura» (Piesiewicz in Ciment M. in ivi, p. 147).

Uno scavalcamento temporale, una cesura violenta, che determina un radicale ribaltamento di prospettiva. L’assassino è ora vittima di una legge implacabile, che lo vuole veder morire nello stesso modo in cui ha ucciso la propria vittima. A prendere consistenza, in questa seconda parte, è lo sguardo prima defilato di Piotr, avvocato difensore del ragazzo. L’esito di pena capitale non rappresenta, per lui, soltanto una sconfitta professionale ma anche morale. Quella emessa è una sentenza che attesta la vittoria di un sistema di valori che si vede rappresentato dalla negazione radicale dell’altro, dall’eliminazione materiale del colpevole. «Quando una società giunge a credere che sia sufficiente asportare un membro imputridito per ristabilire l’ordine, significa che il suo stato generale di salute è fortemente compromesso» (ivi, p.148). Come affermato da Piesiewicz:

«L’ordinamento giuridico deve preservare determinati valori e non può sanzionare l’omicidio attraverso l’omicidio stesso» (Sobolewski T. in ivi, p. 150).

Alla figura di Piotr è affidato sia il compito di rappresentare la concezione che ha Piesiewicz della professione avvocatizia, - «il quale, influenzato da René Girard, vede l’avvocato come "il sovvertitore di ogni rappresentazione persecutoria" e individua nel processo la forma propria dell’oppressione» (ivi, p. 150)-, sia quello di sostenere la tesi già espressa nel titolo del film.

Kieślowski e Piesiewicz non giudicano l’assassino, né lo giustificano. Non commiserano la vittima. Raccontano l’insensatezza del delitto, l’inspiegabilità del male, la sua genesi illogica, casuale, priva di qualsiasi finalità. Come sempre, anzi più di sempre, cercano di trasmettere la fatica di vivere dei loro personaggi, senza identificarsi con loro. Sono due osservatori quasi metafisici, che non sanno, ma non per questo vogliono sfuggire il dolore del mondo. Il regista evita qualsiasi tipo di interpretazione; contrariamente a quanto di solito accade nell’industria dell’immagine, la cui caratteristica è quella di spiegare, razionalizzare e descrivere il mondo intero attraverso un  unico punto di vista, Kieślowski si sente in dovere di rendere lo spettatore cosciente, mostrandogli la parzialità delle sue convinzioni.


«Nei miei film lascio sempre un margine di inspiegabile, do piuttosto dei misteri, perché risposte non ne ho, se le avessi, mi occuperei d’altro».
(Kieślowski in Crespi 1989).

Il regista pone il pubblico in una costante condizione di disorientamento, cerca di far oscillare il punto di vista fra poli opposti e inconciliabili: «Kieślowski ha filmato la storia di questo delitto senza volerci rassicurare per mezzo della repulsione che ci ispirano i suoi personaggi. Questi, alla fine del film, lasciano in noi il ricordo di un’innocenza incapace di esprimersi. Il fango su cui crescono questi due destini ci restituisce l’immagine di un mondo in cui la forza di un uomo significa la morte di un altro» (Strauss F. in Simonigh 2000, p. 146).
La messa in scena di Kieślowski riproduce questa ambiguità di fondo attraverso una continua moltiplicazione delle traiettorie degli sguardi resa per mezzo dell’accumulo di oggetti riflettenti, corpi che rifrangono la luce irregolarmente producendo continue distorsioni della percezione. Tortuose traiettorie di sguardo che sono metafora dell’inestricabile labirinto di scelte, della complessità della morale. Non ci sono risposte certe e definitive, ogni storia si sottrae a un’interpretazione univoca, alla sommarietà degli imperativi categorici astratti. Una frammentarietà percettiva acuita dalle cesure e dalle contrapposizioni nette e brutali di un montaggio destrutturante. Il montaggio per Kieślowski non deve assolvere tanto una funzione narrativa, ma ritmica, drammaturgica. I blocchi sequenziali non sono organizzati secondo un principio di ordine diegetico ma in base alla loro efficacia emotiva. Piccoli fatti diventano il punto d’avvio di un’informazione ingannevole.

La vicenda viene frammentata in elementi che appaiono pregni di significati, a cui si è portati ad attribuire la funzione terribile di indizi sibillini, di oscure forme di presagio, ma che invece si dimostrano falsificatori: il regista fa «un uso fuorviante del dettaglio combinato alla soggettiva che sembrerebbe tradurre visivamente i pensieri del personaggio, i suoi impulsi omicidi. Jacek è seduto in un bar, guarda attraverso il vetro al di là della strada. Vede un poliziotto. La macchina da presa mostra in dettaglio la mano di Jacek resa gonfia e tumefatta dalla stretta di una corda che, alla vista del poliziotto, egli attorciglia ancora più fortemente. Di nuovo appare in soggettiva il poliziotto. Sopraggiunge un veicolo della polizia, c’è un cambio di guardia, il poliziotto viene sostituito da un collega. Jacek si distrae, esce dal bar e sale su un taxi e là trova la sua vera vittima» (ibid.). Kieślowski spoglia il segno del suo rassicurante bagaglio di depositi interpretativi stereotipati, opera col fine di complicare la percezione della realtà. Sono da leggersi in questa direzione anche le scelte compiute dal direttore della fotografia Slawomir Idziak che, ricorrendo all’utilizzo di filtri, sporca l’occhio della m.d.p. per restituire l’immagine di un mondo laido, inzaccherato, limaccioso che riproduce la distorsione dell’animo dell’assassino.


Kieślowski attraverso queste soluzioni formali realizza una "soggettiva libera indiretta", cioè guarda la realtà immergendosi in uno dei suoi personaggi, rivivendo i fatti attraverso il suo sguardo. L’orditura dell’impianto strutturale e formale è volto a disorientare lo spettatore, che è così impossibilitato ad abbassare il livello d’attenzione o di considerare scontato l’esito di qualsiasi scena, anche quella che apparentemente può sembrare insignificante. L’intento del regista è quello di condurre il pubblico a spogliarsi delle proprie certezze, a fare i conti con l’indecifrabilità, l’instabilità dei comportamenti umani.



Bibliografia

Crespi A. {1989}: La mia Bibbia senza certezze. Intervista a Krzysztof Kieślowski e Krzysztof Piesiewicz, «L’Unità».

Kieślowski K. - Piesiewicz K {1991}: Decalogo, Einaudi, Torino.

Murri S. {1997}: Krzysztof Kieślowski, Editrice Il Castoro, Milano.

Rimini S. {2000}: L’etica dello sguardo. Introduzione al cinema di Krzysztof Kieślowski, Liguori Editore, Napoli.

Simonigh C. {2000}: La danza dei miseri destini. Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski, Testo & Immagine, Torino.

L’aggettivo centrale, comunque lo si voglia usare, sia in senso proprio - di riguardante il centro - che figurato - utilizzato per indicare un qualcosa di fondamentale importanza – è particolarmente indicato per connotare il quinto episodio del Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Il tema di questo episodio, collocato nel mezzo della struttura complessiva dell’opera, relativo all’imperativo apodittico di Non uccidere, può essere considerato come la premessa che ha dato origine all’intero progetto.
L’entrata in vigore, nella Polonia del 1982, della legge marziale con annessa pena capitale segna nel profondo l’attività registica di Kieślowski. La gravità della situazione politica pone il regista nella condizione di non poter fuggire il presente, egli sente che il suo primo dovere, come intellettuale non asservito al potere, è quello di riflettere sulle contingenze che stanno travolgendo il suo paese. Kieślowski vuole realizzare un documentario sui processi d’insubordinazione alla legge marziale, ormai sempre più frequenti e terminanti con condanne sproporzionate rispetto all’entità dei reati commessi. Riesce ad accedere nelle aule di tribunale grazie alla collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, specializzatosi nella difesa di organizzazioni sindacali e politiche clandestine. Ma il progetto di denuncia ideato da Kieślowski fallisce. La presenza della macchina da presa condizionava l’esito delle sentenze. Le Corti diminuivano le pene, evitavano di farsi riprendere nell’atto d’assegnare condanne ingiuste. Come sostenuto da Serafino Murri “la realtà sfuggiva dalle mani di Kieślowski per adeguarsi all’immagine”{Murri 1997, p. 69}.
Nonostante l’insuccesso del documentario il regista non rinuncia a riflettere sulle aberrazioni di cui è testimone e decide di concentrarsi su quella che, ai suoi occhi, è una macroscopica contraddizione in termini che sta innescando effetti devianti all’interno dell’amministrazione della giustizia: la condanna a morte. L’idea di Kieślowski è quella di realizzare un film sull’illogica genesi di un omicidio, un film violento estremo, che culmina con la condanna dell’assassino. Anche Piesiewicz, coinvolto in fase di sceneggiatura, è desideroso di lavorare attorno al tema dell’ “uccisione dell’omicida” da parte della Legge, col quale s’era già dovuto concretamente scontrare nel corso della sua attività forense. Propone al regista di rielaborare ed ampliare il progetto di partenza per realizzare una rilettura dei precetti morali dell’Antico Testamento a cui si ispira gran parte dell’ordinamento giudiziario.

«[….] un sistema di norme, una convenzione, una sorta di costruzione universale che vige da migliaia di anni e che nessuno finora ha mai messo in discussione. Nessuna ideologia, nessun sistema filosofico o politico».
(Kieślowski in {Crespi 1989}).

 Un’idea ispiratagli da un polittico trecentesco polacco, conservato al Museo Nazionale di Varsavia, raffigurante le Tavole della Legge: un grande dipinto ligneo diviso in dieci parti, ognuna illustrante, attraverso brevi scene di vita quotidiana, uno dei comandamenti. L’iniziale proposta di Kieślowski confluirebbe così nel quinto episodio, Non uccidere. Un episodio determinante, questo, anche per quanto riguarda la riuscita produttiva dell’intero progetto. Il budget assegnato al regista dalla Televisione di Stato Polacca, per la quale il Decalogo è stato pensato, risulta insufficiente alla realizzazione dell’opera. Per riuscire ad ottenere un capitale più consistente Kieślowski propone al Ministero della Cultura di realizzare due film a basso costo, indirizzati al circuito cinematografico, tratti dalle sceneggiature del Decalogo. La sola condizione posta dal regista è che uno dei due film sia il numero cinque, mentre, lascia ai responsabili del Ministero la scelta dell’altro, che ricade sul numero sei. Nascono Breve film sull’uccidere e Breve film sull’amore, i cui finanziamenti vengono dirottati sul progetto televisivo. Breve film sull’uccidere, premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1988, è l’opera che permette a Kieślowski di affermarsi internazionalmente come uno dei più lucidi autori del cinema contemporaneo. Seppur essendo l’uno l’estensione dell’altro, come giustamente sottolinea Stefania Rimini, “niente autorizza la sovrapposizione dei due testi, operazione assolutamente impropria da un punto di vista filologico, dal momento che si tratta di due opere autonome, destinate a una fruizione diversificata, legate, dunque, a ordini e criteri compositivi differenti” {Rimini 2000, p. 90}.
Mi atterrò quindi al lavoro televisivo.
Se negli altri episodi, il rapporto con il precetto biblico è spesso solo tangenziale, allusivo, in questo caso il comandamento – Non uccidere – è preso da Kieślowski e Piesiewicz nel suo significato letterale, materiale. È proprio la materialità dell’uccidere quel che raccontano, ponendola al centro del film e lasciandole la parola. Sotto un cielo basso e cupo, irreale fino a sembrare artificiale, in una giornata «fangosa», come la descrivono in sede di sceneggiatura i due autori, tre uomini diversi, tra loro sconosciuti, ripresi in luoghi fra loro lontani, sono progressivamente trascinati in una spirale d’inarrestabile violenza. Sono: uno scostante ed umorale tassista, inquilino dell’anonimo condominio situato nel quartiere periferico Stowki di Varsavia - lo stabile che fa da cornice alle dieci storie che compongono il Decalogo -; Jacek, giovane errabondo sciagurato e solitario, incoscientemente predestinato alla violenza, uno dei tanti sconosciuti miserabili rigettati ai margini della scena pubblica; il neo-avvocato Piotr, garantista e libertario come si evince dal discorso che sostiene di fronte alla Commissione esaminatrice per essere ammesso all’Ordine di categoria:

«Il deterrente. La ‘punizione esemplare’[…] È una delle motivazioni più opinabili della severità della pena, una motivazione spesso ingiusta, a mio avviso. Credo che più importante sia l’ineluttabilità della pena. Nei confronti di tutti. […] Dai tempi di Caino nessuna pena ha migliorato il mondo o l’ha dissuaso dal commettere il crimine» {Kieślowski - Piesiewicz 1991, pp. 155-156}.

 Attraverso un serrato montaggio alternato il regista mostra come Jacek e il tassista e siano tra loro similari; uno aggressivamente umbratile – lancia sassi dal cavalcavia sulle auto in corsa; in un bagno pubblico spinge un avventore nella latrina -, l’altro sguaiato, sfrontato – cerca d’intrattenersi, con fare ambiguo, con una giovane ambulante; contro ogni logica professionale seleziona la clientela a seconda delle impressioni che ne riceve -, entrambi sembrano votati unicamente a molestare il mondo. I loro comportamenti sono svuotati di qualsiasi logica di causalità o finalità, sfociano soltanto nella violenza gratuita. Due esistenze precarie, totalmente sfiduciate nel futuro, e che, proprio per questo, «approfittano pericolosamente del presente» {Stok D. in Simonigh 2000, p. 144}. Due individui superficiali, scontrosi e insensibili, capaci, però, d’improvvisi e ingiustificati gesti di tenerezza – il tassista rinuncia al proprio misurato pasto per darlo a un cane randagio; Jacek diverte due bambine che guardano dalla vetrina del bar dove lui sta facendo colazione –. Circostanze fortuite li fanno incontrare. Jacek, nel suo sbandato girovagare, si ritrova passeggero del tassista. Una volta arrivato a destinazione, il ragazzo uccide il conducente. Non ne ha alcuna ragione immediata: non lo odia, non lo teme, non desidera il suo denaro. Vuole solo uccidere. E lo fa, con ostinazione, con rabbiosa meticolosità. La scena del delitto è una delle più lunghe della storia del cinema – quasi sette minuti e mezzo -, girata però senza nessun compiacimento. Kieślowski rifiuta l’uso consumistico della violenza nel cinema, non vuole confrontarsi con la sua rappresentazione estetica e plastica, ma raccontarla semplicemente per quella che è: un gesto materialmente difficile, faticoso, stremante. Il tutto è reso attraverso lunghi primissimi piani dei volti, fotografati in smorfie di sforzo o di sofferenza, e dei dettagli, come quello delle mani di Jacek gonfie e tumefatte per la stretta della corda con cui sta strangolando la sua vittima. A rendere la sequenza quasi insostenibile, più che la straziante messinscena della morte, è il suo irrompere inaspettatamente nella quotidianità, il suo manifestarsi come evento incontrollabile e assurdo.
 Per mezzo d’una spregiudicata ellissi il regista, saltando a piè pari tutta la rappresentazione dell’iter processuale, porta lo spettatore immediatamente al momento della lettura della sentenza di morte.

«Ho detto a Kieślowski che non avevo mai visto al cinema un processo ben rappresentato. Un’aula giudiziaria è molto teatrale. Ognuno interpreta un ruolo ed è difficile fare del cinema nel cinema. Per quanto mi riguarda, trovo molto più interessante incontrare qualcuno in prigione, perché allora mi sento davvero di fronte a un essere umano. In cella non vedo più il criminale, ma la paura» {Ciment M. in ivi, p. 147}.

Uno scavalcamento temporale, una cesura violenta, che determina un radicale ribaltamento di prospettiva. L’assassino è ora vittima di una legge implacabile, che lo vuole veder morire nello stesso modo in cui ha ucciso la propria vittima. A prendere consistenza, in questa seconda parte è lo sguardo, prima defilato, di Piotr, avvocato difensore del ragazzo. L’esito di pena capitale non rappresenta, per lui, soltanto una sconfitta professionale ma anche morale. Quella emessa è una sentenza che attesta la vittoria di un sistema di valori che si vede rappresentato dalla negazione radicale dell’altro, dall’eliminazione materiale del colpevole. «Quando una società giunge a credere che sia sufficiente asportare un membro imputridito per ristabilire l’ordine, significa che il suo stato generale di salute è fortemente compromesso» {ivi, p.148}. Come affermato da Piesiewicz:

«L’ordinamento giuridico deve preservare determinati valori e non può sanzionare l’omicidio attraverso l’omicidio stesso» {Sobolewski T. in ivi, p. 150}.

Alla figura di Piotr è affidato sia il compito di rappresentare la concezione che ha Piesiewicz della professione avvocatizia, - «il quale, influenzato da René Girard, vede l’avvocato come «il sovvertitore di ogni rappresentazione persecutoria» e individua nel processo la forma propria dell’oppressione» {ivi, p. 150}-, sia quello di sostenere la tesi già espressa nel titolo del film.
 Kieślowski e Piesiewicz non giudicano l’assassino, né lo giustificano. Non commiserano la vittima. Raccontano l’insensatezza del delitto, l’inspiegabilità del male, la sua genesi illogica, casuale, priva di qualsiasi finalità. Come sempre, anzi più di sempre, cercano di trasmettere la fatica di vivere dei loro personaggi, senza identificarsi con loro. Sono due osservatori quasi metafisici, che non sanno, ma non per questo vogliono sfuggire il dolore del mondo. Il regista evita qualsiasi tipo di interpretazione; contrariamente a quanto di solito accade nell’industria dell’immagine, la cui caratteristica è quella di spiegare, razionalizzare e descrivere il mondo intero attraverso un  unico punto di vista, Kieślowski si sente in dovere di rendere lo spettatore cosciente, mostrandogli la parzialità delle sue convinzioni.

«Nei miei film lascio sempre un margine di inspiegabile, do piuttosto dei misteri, perché risposte non ne ho, se le avessi, mi occuperei d’altro».
{Crespi 1989}.

Il regista pone il pubblico in una costante condizione di disorientamento, cerca di far oscillare il punto di vista fra poli opposti e inconciliabili:

«Kieślowski ha filmato la storia di questo delitto senza volerci rassicurare per mezzo della repulsione che ci ispirano i suoi personaggi. Questi, alla fine del film, lasciano in noi il ricordo di un’innocenza incapace di esprimersi. Il fango su cui crescono questi due destini ci restituisce l’immagine di un mondo in cui la forza di un uomo significa la morte di un altro» {Strauss F. in Simonigh 2000, p. 146}.

La messa in scena di Kieślowski riproduce questa ambiguità di fondo attraverso una continua moltiplicazione delle traiettorie degli sguardi resa per mezzo dell’accumulo di oggetti riflettenti, corpi che rifrangono la luce irregolarmente producendo continue distorsioni della percezione. Tortuose traiettorie di sguardo che sono metafora dell’inestricabile labirinto di scelte, della complessità della morale. Non ci sono risposte certe e definitive, ogni storia si sottrae ad un’interpretazione univoca, alla sommarietà degli imperativi categorici astratti. Una frammentarietà percettiva acuita dalle cesure e dalle contrapposizioni nette e brutali di un montaggio destrutturante. Il montaggio per Kieślowski non deve assolvere tanto una funzione narrativa, ma ritmica, drammaturgica. I blocchi sequenziali non sono organizzati secondo un principio di ordine diegetico ma in base alla loro efficacia emotiva. Piccoli fatti diventano il punto d’avvio di un’informazione ingannevole. La vicenda viene frammentata in elementi che appaiono pregni di significati, a cui si e portati ad attribuire la funzione terribile di indizi sibillini, di oscure forme di presagio, ma che invece si dimostrano falsificatori: il regista fa «un uso fuorviante del dettaglio combinato alla soggettiva che sembrerebbe tradurre visivamente i pensieri del personaggio, i suoi impulsi omicidi. Jacek è seduto in un bar, guarda attraverso il vetro al di là della strada. Vede un poliziotto. La macchina da presa mostra in dettaglio la mano di Jacek resa gonfia e tumefatta dalla stretta di una corda che, alla vista del poliziotto, egli attorciglia ancora più fortemente. Di nuovo appare in soggettiva il poliziotto. Sopraggiunge un veicolo della polizia, c’è un cambio di guardia, il poliziotto viene sostituito da un collega. Jacek si distrae, esce dal bar e sale su un taxi e là trova la sua vera vittima» {ibid.}. Kieślowski spoglia il segno del suo rassicurante bagaglio di depositi interpretativi stereotipati, opera col fine di complicare la percezione della realtà. Sono da leggersi in questa direzione anche le scelte compiute dal direttore della fotografia Slawomir Idziak che, ricorrendo all’utilizzo di filtri, sporca l’occhio della m.d.p. per restituire l’immagine di un mondo laido, inzaccherato, limaccioso che riproduce la distorsione dell’animo dell’assassino.
 Kieślowski attraverso queste soluzioni formali realizza una «soggettiva libera indiretta», cioè guarda la realtà immergendosi in uno dei suoi personaggi, rivivendo i fatti attraverso il suo sguardo. L’orditura dell’impianto strutturale e formale è volto a disorientare lo spettatore, che è così impossibilitato ad abbassare il livello d’attenzione o di considerare scontato l’esito di qualsiasi scena, anche quella che apparentemente può sembrare insignificante. L’intento del regista è quello di condurre il pubblico a spogliarsi delle proprie certezze, a fare i conti con l’indecifrabilità, l’instabilità dei comportamenti umani.


Bibliografia
Crespi A. {1989}: La mia Bibbia senza certezze. Intervista a Krzysztof Kieślowski e Krzysztof Piesiewicz , «L’Unità».
Kieślowski K. - Piesiewicz K {1991}: Decalogo, Einaudi, Torino.
Murri S. {1997}: Krzysztof Kieślowski, Editrice Il Castoro, Milano.
Rimini S. {2000}: L’etica dello sguardo. Introduzione al cinema di Krzysztof Kieślowski, Liguori Editore, Napoli.
Simonigh C. {2000}: La danza dei miseri destini. Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski, Testo & Immagine, Torino.