Americana

Jonas Mekas e Shirley Clarke lo dissero chiaro a Marcorelles, critico dei Cahiers che li attaccava sostenendo la mancanza, da parte del New American cinema, di dimensione politica, e di una disconnessione (a differenza, ad esempio, del cinema novo brasiliano) dalla vita: il loro cinema, sostenevano, era (a pensarci e a guardarlo bene), radicalmente politico e completamente americano. perché filmava l’essenza dell’uomo, affamato di una fame differente da quella dei suoi fratelli latinos: fame dell’anima che non vuole diventare macchina fordista o denaro (non a caso serializzato dal 200 One Dollar Bills di Warhol del 1962).

Nel suo primo romanzo che chiude, emblematicamente, la decade dei ‘60 (Americana, 1972) De Lillo parla di un regista che potrebbe essere uno del gruppo del New American cinema (Jonas Mekas?): in quello che è anche un diario di lavoro e una cronaca di viaggio, il narratore-montatore si propone di girare un film lungo e confuso, autobiografico, pieno di frammenti di una vita riassunta attraverso alcune “immagini semplici” (e risuona nelle orecchie la frase di Godard «giusto un’immagine»). Per questo utilizzerà (obbedendo ad specie di decalogo minimale autoimposto), la luce naturale, ridurrà la scala dei colori al bianco e nero e (ovviamente), rinuncerà al plot. Poi, nel corso del romanzo, allarga il piano d’azione e passa, come faranno un po’ tutti (Brakhage, Anger, la stessa Maya Deren) dall’io embricato su se stesso, all’occhio camera e al montaggio-palinsesto articolato secondo brevi e brusche epifanie: funerali, file di traffico, mobili, porte, finestre elementi che formano le ennesime stanzette dell’underground. Quindi, presenze, una donna, un uomo: minutiae. Termine curioso questo, con il quale Rauschenberg chiama uno dei suoi Combine creato per essere usato-attraversato-manipolato dai ballerini di Merce Cunningham (in un balletto per il quale John Cage aveva scritto la musica di forma indipendente), collage di tele ricoperte di colate di pittura, immagini e fotografie serigrafate, a formare una specie di paravento-schermo.

Alla fine, il film delilliano assume proprio la forma di un combine: Manifestazioni | vacanze in Vermont | estratti di una avventura amorosa | gli amici che improvvisano davanti alla macchina da presa (come in Pull my Daisy) | case, chioschi di giornali, sale d’attesa | monache in processione | donne e bambini dentro corridoi d’ospedale | sordomuti giocando a scacchi | musei, vestiboli di marmo | niente (per lunghi momenti) Il film, attraverso il montaggio, mette insieme schegge di paesaggio americano per formare un paesaggio interiore, un paesaggio dell’interno. Jonas Mekas fa la stessa cosa: in un frammento di uno dei suoi Diari, alla notazione di luogo “New Hampshire”, fa seguire una implacabile sequenza di immagini corredata da un flusso di coscienza irrefrenabile e ultrarapido: «ho visto frammenti di Paradisi perduti e cercherò di tornare ad essi disperatamente», mentre scorrono le immagini della moglie e del figlio, di un pozzo, di una casa, dei fiori e una lunga soggettiva su un auto, «ho visto frammenti di parole e sintassi lungo i paesi dove sono stato», dolore di una mancanza di stabilità, terra che frana sotto i piedi, «come nelle prime strofe di Dante», dolorosa condizione umana narrata in 5 minuti, e la cui soluzione è (esattamente come per il narratore di De Lillo), quella di fare una composizione di se stessi o fare di se stessi una composizione.

Poi, In the old Soho, fra strade, finestre di un caffè, la cucina durante la prima colazione, una tenda, delle mele, il tetto della casa: quest’occhio autobiografico comprende che è necessario cambiare il corso, andare verso dentro, e scoprire nell’altro, nel due, un aiuto e un compagno perché «siamo come due astronauti solitari nello spazio profondo», e ci si trova come il narratore seduto a scrivere, come il filmmaker a montare, o il malinconico che lentamente prende confidenza con gli oggetti intorno a sé e comincia a manipolarli: «seduto, penso a tutto questo». In un altro frammento che chiama Walden dedicato a “Lumiere” (Luis ma anche “luce”) Jonas mostra come il vento e la neve possano essere animati da un respiro di primavera; poi, la casa dove si consumano febbrili cene notturne con gli amici; la moglie Barbara con il suo giardino d’Inverno che dà sullo skyline; quindi, tracce di impegno politico (Paul Adam Sitney, presidente delle cineteca, con i polpastrelli neri per le impronte che gli hanno appena preso i poliziotti); infine, Central Park con una ragazza di spalle, fra gli alberi, «morbid days in New York and gloom…».

Mekas filma anche la cronaca di quando decide di ritornare in Lituania, suo paese d’origine: il risultato è un diario in tre parti. La prima trasforma (traduce) il documentarismo irriducibile della scuola di New York nella prassi del racconto breve joyciano: il set è Williamsburg, un quartiere di immigrati di Brooklin. La cinepresa registra (come si registrano un paio di tasche sfondate cercando da fumare, o gli spicci per la metro) persone che camminano o lavorano o ci vivono, lì dentro, stipati nei palazzoni simili a quelli di Philip Roth, di Will Eisner, i lenzuoli stesi, i bambini ovunque (ah, «Henry Miller grew up there»). Tutti loro, folla urbana che si addensa e scorre in un incrocio transitato, e tutto, nonostante i balli e le feste, configura un altro mondo della paralisi (eccolo, Joyce, che scappò da Dublino come Mekas da questi «animali moribondi in un posto al quale non appartengono»). La seconda parte è il viaggio, o meglio le reminiscenze del titolo, brevi epifanie intervallate dai numeri in b\n (identici a quelli utilizzati nei film sovietici). Al centro, la figura dell’anziana patriarca, attivissima, e il nucleo familiare allargato al collettivo agricola.

Qui Mekas trasforma (traduce) il documentario vertoviano sulla forza-lavoro rivoluzionaria e la sua capacità di modificare il reale in una elegia al mondo contadino meccanizzato e collettivizzato che mescola le immagini del lavoro con quelle dell’album familiare. Poi, la cucina di “Mamma” all’aperto, le feste e i canti, il rito di calcolare l’altezza, il culto dei morti, e su tutto, l’immenso paesaggio sterminatamente piano dell’est. Infine, la partenza in una giornata di cielo plumbeo, nell’aeroporto piccolissimo, dove Jonas inquadra le gambe dell’amica. Nella terza parte, l’occhio di Mekas registra il passaggio in Austria, dove incontra Kubelka, visita la casa di Wittgenstein, quindi il Castello dove si consumavano le orge del teatro di Herman Nitsch, filma un matrimonio in un antico monastero e, infine un incendio nel mercato della frutta di Vienna. Finiscono così le sue reminiscenze, come un pezzo di carta che brucia, come il dettaglio ravvicinato di un trionfo della morte di Brueghel. E capiamo che Jonas non ha filmato nient’altro che questo: né Brooklin, né la Lituania, né l’Austria, ma il lavoro inteso non vertovianamente come forza che imprime un movimento in avanti incessante e unanime al reale, ma come flusso del tempo che trascina con sé ogni cosa nella sua caduta, facendone un’offerta povera, singolare, una infima messe d’immensa terra. Nella sua catastrofe di action painting, di dripping sensuoso, filamentoso, selvaggio, tratteniamo immagini che colano giù, che non “tengono”, sfarfallano e si disperdono nel grande fiume della storia. Perché filmare è continuare a vedere rimanendo con gli occhi (ben) aperti.


B
eat, Bebop

Come si sa, Beato (come San Francesco) e picchiato o in fuga (come i loro fratelli nelle manifestazioni o per sfuggire alla leva del vietnam): prima di loro, diversissimi profughi metropolitani, il Bardamu di Celine, che osserva fuori dalla finestra cieca della nostra civiltà (ma senza il suo disincanto - cinismo – paura), Henry Miller (ma aggiungendo al suo appetito inestinguibile di corpi e poesia lacerata o andata a male l’LSD, i Sutra e la wilderness), questa generazione affannata (come nella parte finale di un assolo di sax tenore, quando manca il fiato), insegue una forma di diversa affermazione spontanea che parla a favore delle cose, che fantastica in trance, e persegue la liberazione delle inibizioni (nel sesso, nella scrittura) in un flusso senza tagli di idee verbali e personali che soffiano come l’inevitabile Africa-americana del bop. Bop, il cui stesso nome è un germoglio accidentale, un grumo pulsante di caso e suono e che con il Beat (e il new american cinema) si incontra in omologia strutturale. Come scrive Kerouac:

«Dizzy o Charley o Thelenious stava camminando per la strada quando un rumore, un suono, metà Lester Young, metà grezza-nebbia-piovosa che ha quel brivido di eccitamento da baracca, binario,pezzo di terra vuoto, l’improvvisa enorme testa di tigre sullo steccato dei bagnati di pioggia di un sabato mattina a scuola, “Ehi!” e corse via a passo di danza».

Nessun punto a separare il respiro retorico virtualmente infinito, in questa ispirata prosa dell’era spaziale che pratica l’accumulazione infantile di parole, proiettate attraverso un proiettore installato come fosse un terzo occhio della mente, scrittura della semi-trance, improvvisazione, jam session. E in Pull my Daisy eccoli, i poeti beat, apparire in un'opera tragicomica dove mettono in scena se stessi in una serata folle e assurda, all the things you are:

«“Soffia!” disse Dizzy, e C.P. attaccò il suo innocente grido pigolante, Monk batté il nocciolo d’angoscia, le dita strisciavano sulla tastiera a strappare le basi e gli intestini del jazz dalla grande matrice, per far sentire a Charley Parker il suo grido e il suo sospiro – perché l’orchestra vibrasse in dissonanza – per tirare fuori la malinconia dal triste destino del pianoforte nero. Spalancò gli occhi selvaggi sui suoi tasti come un matador davanti al muso del toro. Mormorio. Figure sfumate di ubriachi sullo sfondo mosso, barcollanti....».

Doveva essere una notte non troppo diversa da quella rievocata da Gregory Corso in For Miles: “when you & Bird | wailed five in the morning some wondrous | yet unimaginable score?

Connection

Come nello spettacolo del Living Theatre: un gruppo di jazzisti drogati, irriducibili, aspettano il loro uomo come nella canzone dei Velvet Undreground, scoppiati nella sacca d’angoscia affamata, nuda, isterica, che precede il down in a hole della dose di eroina, mentre tutto viene filmato da una troupe di documentaristi che vogliono registrare un «pezzo di vita» nell’interieur sudicio di un “drug’s addiction department”. Mentre la cinepresa si muove come uno scarafaggio lungo il muro, rapida, a tentoni, spinta da un impulso vitale immediato e del tutto semplice, la droga anima la stanchezza letargica del gruppo. Suonano, mentre lo sguardo si muove fra i giornali pornografici, la ragnatela di un vetro rotto, strumenti musicali, apparati di registrazione. «Credi che stiamo recitando?» cominciano a rinfacciare al regista, che promette allo spacciatore, “Cowboy”, stravaccato e all’erta come un cobra, un virtuale ruolo di protagonista: è lui, un Ben Carruthers drogato, che mette a nudo, lo sguardo in macchina, non la vita dello spacciatore, fuggiasco che inventa nuove rotte ogni sera e scappa tutta la vita, ma la condizione servile dell’essere ripresi dall’occhio estraneo dell’ennesimo passante per caso bramoso dell’esotismo degli slum, e, in generale, da un dispositivo che si crede in grado di restituire la vita così com’è: «che credi che facciamo qui? Un freak show?» Impossibilità di filmare dal vero un’esistenza scivolosa (pelle sudata, pupille arrovesciate, bianche) senza rimanerne invischiato oppure senza modificarla, fingendola. Uno scacco, in entrambi i casi. Intanto uno del gruppo dei tossici, Leach, fa a spintoni verso la sua overdose: dopo essersi lamentato di non sentirsi “high” si inietta una seconda dose mentre gli altri suonano, e ogni sua membra sembra respirare e ballare in sincrono con la musica, in un atletismo del corpo drogato e fatto fino al white light della sincope finale, che quasi lo lascia stecchito.

Shirley Clarke sa bene che un documentario non è la messa in mostra di una realtà più o meno tipica – Bowery, un ponte o la droga fa lo stesso – ma si tratta di inseguire quella regione centrale, quel punto cieco che rimane sempre fuori dal filmabile e che si può solo provare ad inseguire, o provare a perlustrare (come si fa con un corpo o un appartamento sudicio) perché qualcosa è appena successo o ha lasciato l’impronta liquefatta, organica, del suo scorrimento. Strano o inevitabile che Jim Morrison dedicasse due poesie ai Connectors: nella prima la connection  è una trasgressione epifanica che accade quando due mozioni, ritenute infinite e reciprocamente contrarie, si identificano per un attimo di tempo per poi aggiungere «Il tempo non esiste. Il tempo è una prigione rettilinea»; come quello che si sperimenta nel “drug’s addiction department”; nella seconda, i connectors balenano “sulla strada” a mezzanotte, fra i muri zuppi di pioggia: un angelo, uno gnomo, un viale che diventa fiume e la folla che smagrisce nell’attesa, tutto visto da una finestra di motel mentre in una stanza anonima, window water baby moving, «qualcuno veniva al mondo».

Danza, Disegno, Deren (Dunham)

Scivolare da una sequenza all’altra come in un sogno, come una Keaton-donna che, riletti gli esperimenti di Sherlock Junior insieme all’ubiquità de Le Sang d’un poete e agli isterismi di una qualche Age d’Or che si sa perduta per sempre, decide di cucire fra loro gli spazi vuoti e di non ammettere cesure ma, invece, un’unica deriva infinita, ambiente fluido ridefinito ad ogni istante (in At Land, Maya scivola nello stesso tempo in una spiaggia, fra felci e arbusti e in una stanza del potere, su una tavolata affollata di uomini e donne che non possono vederla, verso un individuo a capotavola e il suo gioco di scacchi). Modificando leggermente Valery, «Se voglio recarmi dall’Etoile al Musée posso realizzare il mio desiderio anche passando per il Pantheon», perché nel sogno e nel suo montaggio tutto si può congiungere, nulla è separato attraverso lo stato di danza, abbandono ipnotico, risonanza, figura che compone o ricompone il suo sogno (la Primavera del Botticelli in Meshes in the Afternoon, “immagine-vetrata” bella come quella di Gance in J’Accuse, arabesco fisso ma non durevole). Ogni gesto di Maya appare, nello stesso tempo, leggerissimo e appesantito da una minaccia d’altrove, attraverso l’espediente del ralenti che, più che intensificare pateticamente il gesto (Epstein), lo sovraccarica di ponderosità onirica, di brandelli di sogno, di una fatalità remota e opprimente, satura fino a scoppiare di presagio, di catastrofe incombente. Nel suo primo film tutto è già segno, tutto è divinazione (ombra e fiore, porta e chiave, coltello e gota, pane e brocca, telefono e giradischi), e Maya può sdoppiarsi all’infinito, vedersi inseguire da una misteriosa donna con il viso specchio (origine delle infinite moltiplicazioni di sé?) coté, questo, assimilato dal Lynch di Mulholland Drive, fino alla scena di violenza tentata dall’uomo che viene colpito dal coltello.

I cocci di vetro appuntito prima terminano nella parte di mare che sarà quella di At Land, poi feriscono a morte la stessa Maya. L’occhio della cinepresa si è fatto veggente, e il film successivo (At Land appunto) inizia con il corpo della donna-anima rigettato sulla riva del suo stesso inconscio, e la ragazza onirica dopo un cammino in un’ansa di tropico, accompagnata dall’uomo che aveva appena ucciso in un sogno precedente, è condotta in una casetta di tronchi, dove incontra, in mezzo a un mobilio ricoperto di lenzuola bianche, il Padre morente. Sulle dune del mare, di nuovo, dovrà sfuggire da se stessa, mentre tiene con sé una pedina di scacchi, le braccia tese formando un angolo verso l’alto come una statuetta ieratica primitiva. Maya, corpo anadiomene, danzatrice assoluta, creatura di una sostanza incomparabile, fragile, può essere uccisa a distanza dagli effetti di uno stesso sogno e, umbratile e erotica, è l’occhio sempre a metà fra l’abisso del sogno e l’aria letale del risveglio, che danza e filma la danza. Come quella dei ballerini afroamericani che in A Study in coreography for camara vedono la loro performance frammentarsi, parcellizzarsi, e il passo dato nella selva finisce in una stanzetta (prototipo delle innumerevoli stanzette chiuse del New American Cinema) e, quindi, si allarga in una sala museale di sculture arcaiche e seducenti prima del grande salto nel vuoto irrigidito nella posizione ieratica sulla rupe davanti al mare.

Ma bisognava andare fino alla radice di questa danza animica, pagana: ed ecco, allora, il corpo del danzatore voodoo (argomento dell’ultimo film di Maya, Divine Horseman, alla cui riprese tardò anni: si vocifera che la stessa morte della cineasta sia legata alla fascinazione per queste pratiche di culto e pensiero selvaggi): dopo la bruma nella selva e la processione delle donne-canefore haitiane, inizia la danza attorno al palo sacro guidati dal sacerdote vestito di bianco, fino al parossismo del corpo contratto nell’epilessia soffiata dentro la psiche dal nume benefico che possiede e conduce altrove, orbite fissanti il vuoto di chiusi orizzonti selvaggi, meccanicamente rivelatori della completa assenza di volontà e che Maya filma e blocca nel freeze frame del primo piano estatico (cliché che potrebbe stare benissimo alla fine delle Lacrime di Eros di Bataille, vicino alla foto del suppliziato cinese). Pensieri selvaggi incarnati dalla sua prima “maestra” Katherine Dunham, danzatrice, coreografa e antropologa capace, ad esempio, di trasformare un banale noir - Casbah, dove interpreta Odette, nome proustiano - con Yvonne de Carlo, l’attrice della decadenza amata da Jack Smith, in un Capriccio spagnolo, in un film esotico-caraibico, caricandolo al massimo, nella scena del ballo nella taverna, di frenesia erotica.


F
emenin / Masculin

Sapeva, Jack Smith, che per rifare una diva (si amavano troppo alcune di quelle che c’erano già: Marlene Dietrich - Veronica Lake - Maria Montez - Yvonne de Carlo, per inventarne di nuove) è sufficiente, secondo la logica, arcaica, dell’appartenenza, servirsi di un “dettaglio costitutivo”, il taglio di capelli, o le labbra (come farà Warhol moltiplicando all’infinito le lips di Marilyn beatamente sorridente come una Buddha femmina dell’età dei consumi: il suo fico sacro è l’empire state building, la sua kesa il vestito bianco di Seven year Itch), di una “postura patetica” (meglio se reclinata o caduta e sed non satiata, demonio senza pietà che profuma di muschio e d’avana, come tutte le ninfe moderne) e di un “tiaso di figure accessorie” (parassitarie, come nelle scene di massa del Veronese). La diva ricostruita di Smith utilizza, nel bel mezzo della società dei consumi occidentali dove aleggia come un totem, un espediente simbolico che è quello del pulaaku dei FulBe dell’Africa occidentale, insieme costruzione fittizia e programma, summa di caratteri innati (agilità, bellezza o singolarità dei tratti) e possesso di attributi morali (controllo, dandistico, di sé) il cui risultato è «un essere del tutto culturale e indipendente dalla natura». Il pulaaku ha una dimensione eminentemente sociale, ed è soltanto la presenza del pubblico ad attivare questo comportamento nell’individuo. Così Smith: quello che il cineasta riproduce è un programma, che passa attraverso la riproduzione di una radiance di contrabbando, di una fotogenia metafisica di cui si riproduce all’infinito, come su una catena di montaggio, la formula.

Egli non imita, ma «cita col segno», come si dice di una moneta di Cesare che è Cesare e di una cartina dell’Italia che è l’Italia (Marin), segno che è ciò, secondo Agostino, che fa venire in mente qualcos’altro, instituendo un legame non di mimesis, ma di semiosis. Semiosis, però deviata e selvaggia perché, a interpretare la sua “Maria Montez”, la sua “Marlene” è un travesti, un female impersonator “camp” fuoriuscito da un sogno lisergico, un para-divo che nel momento in cui indossa la “pelle” di quello originario (un poco come i sacerdoti aztechi indossavano, dopo la cerimonia del desollamiento, l’aspetto della vittima facendo aderire su di loro la pelle scorticata) conserva la sua e, incarnandola, la disconosce («Our Lady of the docks» è inesplicabile come l’Onnagata kabuki). E, nello stesso tempo, le addobba in maniera superlativa (in the Secret of the Rented Island, da Ibsen, fa svolgere l’azione in un ambiente con ricchi drappeggi, una volta moresca, lustrini e frammenti di un’abitazione borghese: è un caso che Fassbinder farà una Nora Helmer trasformando la piece in un sogno oppiaceo, huysmaniano e smithiano-beniano?) secondo una logica sovrabbondante che invece di essere energetica (Anger) è, quando non funerea, elegiaca: si agghindano, formano un ambiente decorativo come l’animale di Kafka la sua tana, per garantirsi l’immunità data dall’aderenza superficiale con la stella di celluloide. Poi, estendendo il procedimento, è possibile trasformare una foresta del New Jersey in una radura dantesca, un party di travestiti a New York in un’orgia pagana, una pellicola scaduta in una incisione di Rembrandt…


H
obart, Rose

Joseph Cornell fa quello che faranno il gruppo di “giovani turchi” de Quieremos tanto a Glenda di Cortázar: rimontare un film e far “insorgere” solo i pezzi nei quali emerge la protagonista (nel romanzo breve si tratta di montatori ancora più implacabili e selvaggi, che non si limitano ad un film, ma all’intera filmografia dell’attrice; inoltre modificano il materiale di partenza alterando i finali o aggiungendo parti inedite). Cornell trasforma la paccottiglia kitsch e isterica di East of Borneo della Universal, con la sua India ricostruita in studio, in un film di Maya Deren, dove lo sviluppo, il plot, lo scorrimento, diventano migrazione, e la trama, lacerazione che lascia emergere contenuti “altri”, pericolosi, inquietanti (il found footage lascia sempre affiorare l’inconscio del film). Innanzitutto, l’immagine anadiomene, di Rose («a rose is a rose is a rose») ninfa fluida che riemerge continuamente e scivola da una sequenza all’altra: è attraverso di lei, il suo corpo, le sue reazioni, che si ripiega l’intero flusso del film (il modo in cui stringe le mani in preda alla tensione; la maniera di estrarre la pistola; come osserva, respinge, urla). Rose, in cappotto e in sottoveste, è presente praticamente in ogni inquadratura, e si relaziona con un mondo tropicale e incomprensibile come quello del Dr. Moreau; assurdo come quello di un altro dottore che, in un film di Clair, immobilizzò Parigi; e si muove a scatti come Lya Lis de L’Age d’Or, in uno spazio completamente fuori di sesto.

Per esempio si affaccia dal balcone del palazzo del Maharaja: sotto di lei, un lago sul quale un assurdo corpo gettato dall’alto crea un gorgo che, proiettato al contrario, introduce nell’universo fittizio e glamour dell’avventura made in hollywood il dettato onirico - avanguardista di Epstein e le sue metamorfosi spazio-temporali. O accade che il sovrano, in ralenti, apra all’improvviso una cortina per mostrarle il vulcano fumante: l’immagine di questa montagna sacra ritorna continuamente, trasformandosi in un leitmotiv che come un coperchio grave pesa sull’esistenza della ragazza. Rose sa che il mondo delle feste galanti e delle indecenti profferte amorose è anche quello dei riti innominabili ai quali è costretta a partecipare, lei, ragazza-faro, ragazza-spuma, ragazza-fiotto (di lava) ragazza tutto fare (è spia, donna galante, giovane innamorata, turista), è la sorella di Nadja, di Madame Edwarda l’oscura, della Maga di Cortázar e nipote dell’anonima passante baudelariana che, “un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva”, con il potere dello sguardo richiama dalla morte perduti frammenti sui quali costruire rovine, e che però, a differenza della fanciulla-vortice parigina, possiamo rivedere ancora ancora, dato che ogni found footage è un play it again giocato sulla bocca stessa della morte.


L
ook back (don’t)

Peter Kubelka vestito da pope come in un Prato di Bezin di Eisenstein girato da Zapruder; Jack Smith che entra in campo in Blonde Cobra come Artaud in Dreyer; Mick Jagger che si aggiusta il fiore sulla giacca e inizia a ruotare su se stesso in un pezzo di luna, Umano non umano; Lou Reed  che beve una coca cola in primo piano protetto dagli occhiali scuri fra intervalli di flash bianchi negli screen test di Warhol come in una pubblicità della bibita fatta mentre sta aspettando il suo uomo (intanto l’immagine si solarizza fino a scomparire, come se fosse un altro Empire state building); Bob Dylan che legge le lettere dei fan in Don’t Look Back, accanto a Joan Baez: la cinepresa si avvicina, si sposta, Dylan ha la chitarra imbracciata e l’armonica, legge insieme a Joan, ripiega il pezzo di carta e rimette tutto in ordine: non si tratta più di indossare altra maschera che quella che siamo. Non guardarsi né indietro né, tantomeno, dentro, ma solo accettare la propria irriducibile superficialità ed esporla davanti alla macchina da presa come se fosse una finestra aperta, una bottiglia, un paio di gambe, una lettera (scarlatta).


M
agik

Curioso come Anger iniziò con opere che sembravano la deriva infinita della più estenuata delle epoche stilistiche nelle quali si affanna, mangia, dorme, l’occhio curioso, cioè il rocaille. Eaux d’artifice (1953), fuga notturna, in una Villa d’Este sognata da de Quincy, di una Moon Woman (Pollock, 1942), incarnazione dell’astro “madre e asilo di fantasmi” e principio di generazione e fecondità che fa zampillare le fonti perché tutte le umidità le sono soggette, come ne La mosca cieca di Fragonard (1773). Lei, terza delle Due cugine (1716) di Watteau, decide, all’improvviso di scuotersi e muovere verso il lago e la statua di marmo che la fissa davanti alla spessura, e di cui , magari, vuole solo succhiarne, avida, gli alluci; e allora fugge nella notte. Qualcuno, un nume, la insegue? Gioca a nascondino con un amico? le manca il tempo, come il bianconiglio di Alice? si reca a un appuntamento galante come ne L’Incontro di Fragonard (1771), dove entrambi, ragazzo e ragazza, sono deliziosamente colmi di paura, lui perché è a un passo dell’inattingibile amata, lei perché non smette di guardarsi alle spalle, impaurita da ogni trasalimento d’ombra, da ogni fruscio improvviso. Luna, ovunque, tenero coniglio che illumina il suo Pierrot mentre tutto, intorno ad essa, si anima e la fontana diventa un’altra scrematrice-calice del Graal di Eisenstein: ad Anger però non interessa il passaggio dialettico dal Vecchio (delle sterminate campagne, della superstizione e dell’inedia) al Nuovo (della tecnica umanizzata e innervata dei soviet) e invece dello choc e della cesura, pensa alle connessioni: la luna connette «armonie, simmetrie, assimilazioni, partecipazioni, forma un tessuto interminabile, una rete di fili invisibili, che lega fra loro uomini, piogge, vegetazione, fecondità salute, animali, morte, rigenerazione, vita d’oltretomba» (Eliade), ossia destino, come già aveva filmato in Rabbit’s Moon.

In questo piccolo esercizio di memoria, ritorno a Méliès che però, invece del viaggio alla luna, ci mostra l’attrazione-repulsione della maschera verso l’astro che la reclama come in Laforgue, mentre un paio di bambini-Pierrot gli porgono gli arnesi del suo martirologio (uno specchio, un mandolino) e Arlecchino lo sfida a duello. Poi, con l’ausilio della lanterna magica, può trasformare la luna in fata. È necessario sempre il dispositivo-cinema, in Anger, per “registrare” il numinoso: già in Fireworks, pensando a Cocteau (che lo premiò in un festival di cinema indipendente) e ancor di più a Genet, il sognatore una volta sveglio esce per imbattersi nel suo personale Shadow Garden (potrebbe essere questo il titolo per tutto il cinema della così detta seconda avanguardia - vedi sotto), giardino che però qui è un angolo di strada notturno e illuminato da una striscia di lampioni a gas, fanali d’auto, dove non si avanza come Mamma Roma ma si aspetta di cambiare un fiammifero con un fascio d’erba secca; come in Deren, si scivola dall’interno all’esterno, come in Brakhage, vedere significa patire, e invece degli occhi, all’io protagonista gli viene aperto il costato.

Ed ecco sorgere così il primo tecnomorfo della modernità, già atrocemente tsukamotiano (ma pieno di malinconia invece che di impotenza e terrore e rabbia), il cui cuore è un apparecchio ad orologeria, il pene un fuoco d’artificio che sembra una di quelle pistole che sparano segnali dalle barche alla deriva e la testa, esplosa, un immenso albero di Natale. Albero che invece di venire tagliato (come in Dog Star Man) è bruciato come in un rito della fertilità dell’Europa dell’Est (vedi sopra)…. Alla fine, il sogno mostra le sue fotografie che si accumulano ai piedi del sognatore, segno che tutto è accaduto davvero, o che si fotografa-filma solo il sogno. Ah, l’interminabile sequenza di risvegli in Anger! Si risveglia Kenneth dopo aver sognato la Pietà del marinaio, si risveglia il nume di Inauguration of the Pleasure Dome in una stanza adorna smithiana la cui porta rossa aspetta di essere Paint it Black, e si risveglia anche il mago di Lucifer’s Rising, prima della grande fuga a ritroso nei secoli. In Inauguration il set della festa è una piccola cosa tenera, a metà fra lo scenario di una lanterna magica e una prova di prospettiva, piccolo scenario inclinato rocaille (di nuovo), balconata di Barry Lyndon ridotta al suo schema essenziale, dove si organizza un party divino che culmina con la distribuzione del soma, starter della libera fantasmagoria delle sovraimpressioni e delle invocazioni.

In Lucifer (sonorizzato da Bobby Beausoleil, che scappò rubando un furgone e soldi a Anger e finendo in panne davanti al ranch della Manson Family) gli Antichi non vengono immaginati o ricostruiti (come fa Smith con la loro controparte terrena, i divi, “invertendoli” di segno) ma evocati mediaticamente, attraverso un rituale metodicamente preciso. In questo “film”, dopo aver attraversato l’ennesimo shadow garden (stavolta druidico) si scivola prima in Egitto, poi a Stonehenge e infine davanti ad un portale gotico, le tre grandi età religiose che l’esoterismo nero crowliano mette in comunicazione: le forze esistono e sono gli Dei. E proprio dai lacerti della prima versione del Lucifer prende forma Invocation to my demon’s brother, sonorizzato stavolta da Mick Jagger (che non sapeva ancora di dover evocare anch’egli un demone-dandy in Simpathy for the devil) invocazione delle potenze delle tenebre. Luna nello scorpione, verrebbe da dire, tipico dei soggetti nei quali cova il “sangue freddo” sadiano, motociclisti come quelli di Scorpio Rising, che trasformano l’icona brandiana-deaniana ribelle senza causa in simbolo cristologico, che si dibatte in una festa nera e finisce freddato dal Potere come in un Easy Rider divenuto breve e folgorante come un haiku, senza paesaggio americano né morale hippie. Alla fine rimane in mente la piccola stanzetta ripiena di memorabilia hollywoodiane, foto e poster dove Scorpio, sdraiato, legge un fumetto sulla pagina domenicale del quotidiano, aspettando la sua notte brava e, forse, comincia a meditare sulla sua Hollywood Babilonia


O
cchio

Si immagini un occhio così limitato da artificiali leggi prospettiche da voler fare (come Paolo Uccello, a cui Gregory Corso aveva dedicato una poesia pensando alla Battaglia di San Romano, cumulo di corpi abbracciati “tutti resi fulgenti dal sottile raggio di un occhio sotto un elmo | si direbbe che egli dipingesse le sue schiere presso i fiumi più freddi”) una poesia della legge artificiale attraverso la sua reiterazione infinita nel fiume freddo che non è Lete ma Mnemosyne, deliziandoci con una madeleine oppiacea il cui effetto dura 8 ore (Empire). Si immagini un occhio così ossessionato dall’oggetto qualsiasi (una latta di Coke, le immagini della stampa scandalistica, i divi intesi come pura merce golosa-gloriosa-assolutamente superficiale) da far si che anche un corpo amato sia ridotto alla sua pura reiterazione fisiologica (Sleep). Si immagini un occhio che sa che anche la visione di un fungo allucinogeno se filmata, invece di produrre stati di alterazione, non presenta altra cosa che un corpo banale che ride (Eat) e che l’eros non è altra cosa che un contatto di epidermidi, glossa della poesia, delle ballate e delle canzoni pop (Kiss). Poi pensò (lui o Esso, tanto automatico era), che davanti all’occhio della  macchina, all’occhio impassibile, era possibile  introdurre elementi impazziti su una scena immodificabile nella quale accade di tutto: e decise di trasformare la vue Lumière in una Arancia meccanica infinita dove tutto il mondo è ridotto a un piccolo scenario della crudeltà, Vinyl (come si chiamerà poi fatalmente la serie tv di Scorsese e Jagger dove entrano in scena i Velvet Undergorund cantando White light white heat).

Chelsea Girl, dove i set (fra cui proprio l’hotel dove morirà quattro anni dopo Janis Joplin e che sarà cantato da Leonard Cohen) diventano monadi impazzite di una impassibile rear window che mostra tutto (incontro erotico-tortura-chiacchiere) in uno split screen già, in alcuni momenti di “aderenza”, di strofinamente crudele, depalmiano pure essendone l’antitesi aleatoria e banale. E Blue Room, film che chiude tutto il melodramma in una stanza di effetti speciali senza computer, e inventa il primo kammerspiel dell’età della proliferazione di schermi in un mondo diventato la finzione del suo deserto. E alla fine, in maniera ouroborica e insieme rettilinea, decide, questa waste land, di filmarla, e deve quindi ritornare ai generi della vecchissima Hollywood: in Lonesome Cowboys filma il crepuscolo del western crepuscolare, andando anni luce più in là di tutta la rivisitazione nostalgica che sarebbe venuta. Meraviglie di un occhio che cerca, nella calca del tempo per sempre perduto, sperperato e snob che pure aveva serigrafato uccidendolo e mostrandolo all’infinito, un posto appartato (lonesome) dove scambiarsi l’occhio con una lente di vetro, occhio accecato per un pulviscolo di sabbia, che pure continua a filmare una ghost town già troppo vicina, senza saperlo, allo Spahn Ranch di Manson.


S
hadow (Garden: The way to)

Brakhage iniziò utilizzando figure vicarie (uno studente; una coppia), che potessero farsi carico di alcune Metafore della Visione al loro inizio. Ma nel suo primo film, se vogliamo, la strada era già tracciata: questa figura di studente rousseauniano, che si sente al sicuro solo all’interno della sfera dell’io, nel narcisismo di chi si è fermato alla fase dello specchio, appare teneramente risibile con la cravatta chiassosa, nel nessun dorma dell’insonnia perenne, ed è già quasi Eraserhead nella messa in scena risibile e tragica di una clausura che profetizza tutta la pandemia a venire. La sua tragedia è quella di un corpo già destinato a perdersi dentro il dispositivo magico che non vuole (o non sa di) diventare e che però già lo incalza: per questo si cava gli occhi, per tentare caoticamente, senza sapere bene come, quello che sarà uno dei più rigidi cammini ascetici di visione della “storia dell’occhio” (appunto) dell’uomo occidentale (e non, quindi, per mimare l’Edipo, o perché, uomo dagli occhi a raggi X, non sopporta più la mutazione che lo opprime ma nemmeno, poeta savio di sette anni, perché non gli basta più spremersi gli occhi per procurarsi il pane della visione). Il corpo senza occhi di Brakhage non vale ancora quello senza organi di Artaud. Una volta senza occhi, può si scivolare dentro lo shadow garden, ma solo per scoprirlo solarizzato come le immagini delle videocamere di sorveglianza: egli non è ancora diventato l’occhio della cinepresa, da cui è invece scrutato come dall’occhio di Dio. E ha paura. E si nasconde, come Adamo.

Non ha capito (o lo sa solo inconsciamente) che «evirarsi gli occhi» è solo l’inizio del cammino dell’occhio nascente velato dalle palpebre (come scrive Nerval, altro teorico della visione ossessionato dall’alternanza fra sguardo e tenebre). Il corpo senza occhi del manichino ossesso diventa ombra in Anticipation of the night, figura dell’esilio e dell’indeterminatezza brumosa, perché l’ «universo è nella notte» (o, come dice Stan stesso chiosando quello che succede alla fine de Aurelia, «mi sembrava che non vi fosse altro che notte là fuori… quella notte poteva gettare una sola ombra, poteva formarsi un’unica forma nera, quella dell’impiccato») notte cercata e che doveva coincidere con la sua stessa morte (l’albero dell’impiccagione diventerà l’albero bianco archetipico tagliato dal boscaiolo di Dog Star Man). Ma in questa alternanza fra orbita vuota che a tentoni non vede che riflessi, circolarità implacabili (la giostra che gira su se stessa), direzioni sfinite, un uccello (airone-albatros-flamingo) è necessario impiccare l’ombra per diventare occhio. Occhio che fissa la nascita della figlia: Window water baby moving come la Creation del mondo, 1959-1979, sapendo che sono un solo e unico film con in mezzo The act of seeing with one’s own eyes (1971) girato in una morgue.

Attesa (Jane sorridente, il respiro del ventre, la luce dalla finestra), Figura d’acqua (scorrere vivo, forza emanata, mormorio, Jane-Chalchihuitlycue, dea precolombiana che riceve il bambino nell’acqua) e Parto (dove si alternano i gesti clinici con quelli della cura e dell’amore, volto e genitali, sangue e luce, dolore e godimento, flusso e riflesso). Sapendo che sono momenti-frammenti di Creation, film dove l’occhio di Brakhage supera e assorbe tutto il romanticismo, le nebbie e i fuochi di Turner, i cieli combusti e i vulcani e, ebbro di visione come Hokusai lo era di pittura, cerca di riprendere l’impossibile fase della terra prima di diventare mondo, sapendo che non si tratta di capire “dove” filmarlo (in Canada? Nell’estremo nord o nell’estremo sud?) ma come: a Manet era bastato un giardino finto-giapponese a Giverny, a Tiziano un corpo nudo e palpitante di donna, quello livido del Cristo e quello scuoiato di un satiro: a Brakhage tutto questo, ma insieme. Per questo tentò di creare, con Dog Star Man, un organismo multistrato, riuscendo a fare della semplice azione di un giorno, come Joyce, una grande epopea mitopoietica e un’avventura percettiva.

Se Rohmer filmò per un attimo il raggio verde prodotto per quella combustione cosmica fra mare e cielo che Rimbaud aveva chiamato eternità, lui, Brakhage, filmò gli innumerevoli colori di un prato visibili per un bambino che ignora il Verde e tutte le eternità presenti in una giornata qualsiasi. Ti immaginiamo, grande occhio unanime whitmaniano, mentre filmi fiumi e rapide perdendoti nel flusso o inserisci fra due nastri di pellicola ali di falena, petali di fiori, zampe di insetti per poi proiettarli facendo film senza ausilio di macchina, perché le immagini possano zampillare per diritto proprio; ti immaginiamo, narratore proustiano, quando tenti un movimento in avanti in un antro di piramide, e incespichi su un dislivello del selciato avendo già scoperto da tempo i tesori auratici della memoria involontaria come dripping di immagini che filmavi e proiettavi, cinematographe e terzo “fratello luce”, mentre sei filmato a tua volta, come in To Stan di Marlyn Brakhage, la tua seconda moglie, che risponde così al tuo Marilyn’window: «La notte sarà nera e bianca o non sarà».


W
ay (American)

Stanno frankensteinizzando Cristo in America! Grida Gregory Corso in American Way dove, da uteri capovolti, le Madri danno vita a Vecchi; e gli americani sacrificano i giovani alla Way come gli aztechi strappando i giovani cuori su piramidi a scaloni; Way che nacque dal American Dream – a nightmare; Way tentacolare, Way dai molti sbocchi, «come un serpente tentacolato», senza possibilità di uscita. Occorre liberare l’uomo da questa belva, «che non possiamo vedere né capire essendo essa la condizione della mente», come in un sinistro film di fantascienza degli anni ‘50, come se qualcosa, Body Snatcher, avesse invaso la mente degli uomini. Insomma, una via americana come questa, dove, assurdamente, profeticamente, come in Naked Lunch, «Tutte la panchine vennero rimosse dalla città, tutte le fontane chiuse, tutti i fiori e tutti gli alberi distrutti. Enormi segnali acustici a elettricità in cima ad ogni isolato» e fra riflettori puntati tutta la notte, nessuno guarda gli altri, e tutti i caffè e i bar erano chiusi. A nessuno era consentito chiudere le porte di casa e la polizia aveva i “passo” per tutte le forze della città”, o come questa, dove «un ampio e subconscio inferno nazionale, pieno di gas nervini, sistemi di polizia segreta, droghe che spalancano la porta a Dio, navi che lasciano la terra, terrori chimici sconosciuti, sogni diabolici a portata di mano» (Ginsberg), American Way delle pandemie.

Allora, continua Gregory, c’è bisogno forse, per liberarsi dalla Way, da questa soft machine che viene introdotta come un dispositivo occulto, nell’uomo, dalla nascita; di una «coscienza nuova», un qualche evento «grande e ammirabile», nuovo: cinema underground, poetry, un teatro che fosse living, il “gong” del jazz hot, cold e quindi sterminatamanete free, in America, nelle pianure d’America, nelle città d’America, puntavano proprio a questo. Perché la poesia, come scrive Pavese in un frammento dei suoi Diari del 10 Ottobre 1930, assolutamente profetico delle tendenze al di là da venire (lui, sintonizzato da sempre con gli scrittori americani, di cui, come si sa, diventerà traduttore), la poesia «viene alla luce tentandola, e non prospettandola». A indicarci la Way, è forse, l’hitchincker, variazione metropolitana del flâneur benjaminino che, pollice puntato verso l’alto, percorre l’America da un lato all’altro, scroccando passaggi sull’enorme serpente liberato della highway.


Z
ona (pellicolare)

La pellicola non solo scorre nel panta rei infinito di un flusso che mescola nel suo riflesso cangiante tutte le immagini pressate e ribattute come le ali di falena screziati, i petali e le foglie che Stan Brakhage, ebbro di «ansiosi sopralluoghi mossi da un’aspirazione senza oggetto», inseriva fra due nastri di pellicola traforata, per poi proiettarli. La pellicola non solo fluisce secondo l’arbitrio di una Legge unidirezionale, consumata da un’ansia di futuro senza oggetto né scopo ulteriore che non sia quello di consumarsi, o addirittura perdersi, nel crepuscolo dell’ultimo nastro di Krapp che gira a vuoto in un interieur devastato da “Cronache del dopo-bomba”. Il suo scorrere è sempre lo stesso-diverso, si potrebbe dire, già che, nella sua fuga in avanti inesauribile e precipitosa («il mondo mi si spalanca davanti», scriveva Wordsworth nel Preludio), raccoglie e riassorbe ciò che si credeva perduto. Ogni piano, ogni “zona pellicolare” ha assorbito in sé e tiene impresso tutto il film, come un tatuaggio sulla sua “carne pellicolare”, ma anche tutti i fuori campo possibili, come il contemplatore di Friedrich (l’occhio schiuso e abbacinato per accogliere un mondo denso e grande come una lacrima), tutte le angolazioni di presa, tutto il virtuale che si affaccia ad ogni frazione di secondo sullo spazio qualunque, mentre simultaneamente accade, in campo, l’eterno fissaggio e aggiustamento del movimento transitorio.

Quanti volti di donna, quante ricognizioni dell’umido, del rugiadoso e del fresco su una foglia smeraldina, quante guance di bimbo, quanto afrore di terra smossa, la memoria di una macchina serba per noi senza che ce ne avvediamo. Il cut è davvero, solo, taglio o possibilità ritmica di rimandare l’altrove? Srotolare questa spira nella spira, questa carne immaginaria che cresce su quall’altra, fisica, annidandosi come una di quelle muffe azzurrate che Rimbaud strappò con la prora del suo battello ebbro alle profondità marine, questo refolo di vento che provoca (come sognava Warburg) un attraversamento eccentrico della rappresentazione, perché molte cose inquietanti si producono fuori dal centro... Ah, tutte queste “cose”, questi sedimenti, che trasformano l’equivoco della pianità dello schermo e la congiura della leggibilità totale in un palinsesto, in un miraggio blando che è insieme scavo profondo che rivela, dietro la nostra, intere epoche dell’occhio abbacinato. Per scoprire poi, come diceva sempre Rimbaud, che bastava sfregare i pugni sulle orbite per, poeti di sette anni, avere visioni! Anche se, alla fine, la pellicola, fragilissima, addirittura più del sogno che aveva provveduto ad incarnare, a ripetere e comunque mai a registrare, brucia disperdendosi in un pulviscolo che diventa, di nuovo, Èlevage de poussière, fascio luminoso e saturo fino a scoppiare di presenze, ossessioni, fantasmi, larve, che l’odore della pellicola bruciata satura e inebria. Mentre, dentro il proiettore, artefice di questo ultimo raggio, si avvoltolano scaldandosi di nuovo e tutti insieme come i serpenti degli hopi nella profondità senza luce della kiva, i fasci di narrazioni sedute come idee del diluvio, serbando, nelle loro spire, innumerevoli mondi, innumerevoli inizi, tutte le possibilità di svolgimento e le innumerevoli conclusioni. Il proiettore si accende, e il film inizia, di nuovo.

Ma sopra lo schermo, sulla cupola che chiude questa cineteca di Babele, c’è un occhio dipinto in squisito trompe l’oeil, che ha rinunciato all’altrove per posarsi su questo teatro del mondo completamente umano; organo febbricitante e quasi del tutto chiuso, generico, onnipotente e vasto, che è, probabilmente, l’occhio stanco di Dio. Dalla cupola scende una goccia sottile e insistente: da quell’orbita immensa cola una lacrima, inzuppata di tutti i crepuscoli del mondo. L’occhio di Dio non può vedere più, infatti, il cielo immobile sopra di lui di cui governava la vita trascendente, e si dispera ammirando per un ultimo attimo l’eterno fissaggio e proiezione delle immagini caotiche sotto di lui, di cui è la causa immobile e che non può modificare. Fra poco sarà cieco del tutto e l’interno universo scomparirà nelle tenebre. E Lui non ha ancora deciso se immaginare di nuovo, daccapo, il cielo sopra di lui o il mondo sotto di lui che intanto passa dal colore al bianco e nero, e presto sarà ridotto in polvere. «Pupilla Cristo dell’occhio, ventesima pupilla dei secoli, ci sa fare».

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