Solo sino pochi anni fa Peter Greenaway rimproverava al cinema di essere un medium rozzamente conservatore, refrattario alla sperimentazione, se messo a confronto coi progressi compiuti nella pittura del Novecento. Un giudizio che era frutto di una riflessione elaborata prima dell’evoluzione del dispositivo cine-fotografico in immagine digitale.
Il passaggio di testimone ha dato inizio ad un nuovo corso, chiamato da Francesco Casetti «Cinema due», una definizione con la quale indicare la trasformazione delle immagini cinematografiche e dei dispositivi che le producono; delle inedite forme di consumo e dei nuovi contesti e rituali di fruizione. Una nuova fase in cui viene a mancare il medium di riferimento, come era stato il cinema almeno fino alla fine del secolo scorso, e che produce molteplici esperienze, molteplici schermi e molteplici forme di realizzazione audiovisiva.
Lo spettacolo filmico esonda dal suo alveo tradizionale e si sparge nello spazio-tempo di vita dello spettatore; il film si frammenta e si moltiplica passando da un medium all’altro, in un vertiginoso gioco di riflessi. «Quello che si profila è uno scenario assai sfaccettato, all’interno del quale il cinema e i film affrontano una sfida nella quale il confronto col nuovo si salda a una questione di identità e la penetrazione all’interno di altri domini mediali pone il problema di un posizionamento interstiziale» (Ambrosini 2008, p.3). La creazione di formati cinematografici più ridotti, la digitalizzazione, la motorizzazione degli elementi tecnici, software di montaggio accessibili hanno avviato un processo di rielaborazione del concetto di cinema alimentato dal cambiamento tecnologico. L’aspetto più rilevante è la progressiva autonomia che ha interessato tanto il cineasta odierno – arrivato a farsi vero e proprio one man band, autore, operatore, attore, produttore della propria opera –, quanto lo spettatore filmico, che, proprio in virtù della crescente flessibilità della cornice schermica, ha potuto operare sull’oggetto del proprio sguardo, instaurando con questo una nuova intimità. «Lo spettatore filmico contemporaneo pare così un nuovo flâneur, demiurgo capace di modellare il flusso di stimoli visivi e sonori offerti dagli apparati tecnologici; è uno spettatore divagante, interessato, più che al testo in sé, alle emozioni che promanano dal contatto con esso» (ivi, p.51).
Tra i dispositivi che sono al centro di questo neonato regime di visibilità diffusa, che porta nuovi comportamenti e nuovi modelli di fruizione, c’è il videofonino, che permette allo stesso tempo di registrare e di mostrare contenuti, e all’utente di trasformarsi in prosumer, cioè di non essere solo consumatore, ma anche autore delle proprie immagini, in un rapporto sempre labile e glissato tra professionismo e dilettantismo. Troppo spesso sottovalutato, quasi esclusivamente associato alla digitazione di messaggi sgrammaticati o a registrazioni di performance bullistiche o porno-amatoriali, il videofonino è un mezzo frequentante banalizzato che merita invece di essere oggetto di una riflessione critico-teorica capace di metterne in evidenza e valorizzare la potenza stilistico-espressiva, dove l’innovazione estetica dei contenuti e della forma è diretta conseguenza delle caratteristiche tecniche del mezzo.
Comunemente ricondotto all’interno di logiche merceologiche e di consumo è possibile invece pensare provocatoriamente al videofonino come alla più compiuta realizzazione delle utopie avanguardiste dell’agilità e democrazia cinematografica, diretta conseguenza delle teorie vertoviane del cineocchio e della camera stylò di Astruc. Il videofonino ha visto infatti mutare le proprie pratiche di utilizzo, inizialmente legate al semplice ascoltare, verso altre funzioni più legate al guardare, trasformandosi in vero e proprio mezzo di ripresa, a tratti più efficace di qualsiasi altra videocamera grazie alla sua portabilità e istantaneità. Il dispositivo in questione potenzia il rapporto fisico con la persona che ne fa uso, che diventa più intimo, personale. E questa è una caratteristica nuova rispetto alle tecnologie del passato: oggi i due elementi, il corpo e l’oggetto tecnologico, stanno contaminandosi a vicenda, fondendosi l’uno nell’altro. Non si tratta più soltanto di usare gli artefatti tecnologici, ma di accoglierli all’interno del corpo biologico. Il corpo arriva a comportarsi come una telecamera, «è una mano che guarda con tutte le imperfezioni del caso. Mai come ora le immagini sono state così vincolate alla presenza del corpo di chi usa un mezzo di presa» (Amaducci 2009, p. 146). La ripresa diventa una questione privata, «il punto di vista è forzatamente soggettivo: tutte le riprese fatte col cellulare, dato che non nascondono la presenza dell’operatore, sono di fatto delle soggettive» (ivi, p. 146).
Proprio per queste sue caratteristiche il videofonino permette una maggior immersione nella realtà, di rapportarsi in modo “amatoriale”, secondo l’accezione che Stan Brakhage dava al termine, ovvero nel senso di vicinanza ed empatia agli oggetti di ripresa: «la videofonia sancisce la coincidenza del visibile con la vita, ovvero afferma che ciò che si dà a vedere è anche ciò in cui si vive» (Pettulà – Borrelli 2007, p. 175). Considerazioni che non possono non far venire a mente la riflessione pasoliniana sul cinema come «lingua scritta della realtà».
«Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà» (Pasolini 1967, in Siti – Zabagli 2001, p. 2915). Per Pasolini il cinema, l’immagine audiovisiva, è la risposta dettata dal bisogno di stare dentro le cose, a contatto diretto con il reale, per poter intervenire su di esso, per poterlo emendare dagli orrori che andavano sempre più delineandosi, messi in atto dalla dittatura del sistema neocapitalista e neocolonialista; il cinema gli permette di aderire al reale con maggiore incisività attraverso i mezzi di un differente e nuovo universo espressivo, una vera e propria “lingua” con caratteristiche assolutamente uniche, in quanto non simbolica, la sola a non strutturarsi attorno ad un sistema segnico avente come fine quello di evocare la realtà, perché «il cinema esprime la realtà direttamente con la realtà» (Pasolini 1967, in Siti – Zabagli 2001, p. 2914). Quella evocata o creata dalla parola, peraltro sempre più minacciata dalla mediocrità di massa, è una realtà purtroppo solo virtuale. «Emerge nettissima la coscienza di come la parola gli stia diventando meno congeniale, e di come sia necessario andare oltre per evitare un […] blocco creativo-espressivo» (Candia 1999, p. 29).
L’immagine cinematografica, fortemente onirica, estremamente rozza, quasi animale, imprescindibilmente concreta, e oggettuale, permette invece a Pasolini di portare sino alle estreme conseguenze la sua poetica di avvicinamento al reale senza più diaframmi, di restituirlo nella sua dimensione fisica, concreta, sensibile, esaltandone l’espressività. «Poiché per Pasolini “non c’è altra poesia che l’azione reale”, il cinema realizza il suo sogno di essere un “poeta di cose”, immerso in quella poeticità vivente che la letteratura, nella sua impotenza, può solo evocare ricorrendo agli squisiti manierismi dello stile» (Parigi 1985, p. 119). Gli altri segni ritraducendo il mondo, si distanziano dal linguaggio delle azioni, dal vissuto originario, mentre il cinema ha la peculiarità di riprodurre questo in maniera fedele. Sono le azioni, o le immagini che di esse abbiamo, il riferimento ultimo a cui si può giungere nello sforzo di mettersi di fronte al mondo nel modo più originario: «quando dico […] che il cinema è la lingua che esprime la realtà attraverso la realtà voglio dire che io, in quanto regista, sono costretto a stare in mezzo alla realtà continuamente. Non c’è più diaframma tra me e la realtà. Se voglio esprimere lei attraverso il mezzo cinematografico resto vicino a lei. La vedo, la guardo; lei è il segno di sé stessa» (Pasolini 1969, in Siti – Zabagli 2001, p. 2960).
L’estrema vicinanza che Pasolini coglie tra il linguaggio cinematografico e il reale – «In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale vivente» (Pasolini 2003, p. 206) –, lo porta a formulare la distinzione tra cinema e film non sulla base di leggi semiotiche, ma per analogia con la vita e la morte. Il cinema può essere considerato come un infinito piano-sequenza, come appunto lo è la realtà - che «per quanto infinita e continua sia […], una macchina da presa ideale potrà sempre riprodurla, nella sua infinità e continuità» (ivi, p. 229) –, mentre i singoli film altro non sono che il frutto di una selezione che lo sguardo, attraverso il montaggio, opera su questo piano-sequenza. La selezione e combinazione è simile a quella portata a termine dalla morte che «compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi […] e li mette in successione» (ivi, p. 241) dando loro un senso. Solo attraverso il suo compimento un’esistenza acquista unità, decifrabilità, può farsi esempio; sino ad allora, finché un uomo o una donna sono vivi, la loro vita è “un caos di possibilità”, in quanto tutto può ancora succedere, modificando il corso e quindi il significato della loro vita. Finché vivi, essi sono solo potenzialità; la morte dona loro un senso, azzerando il possibile, annullando il divenire. La morte chiarisce ogni azione alla luce di un finito susseguirsi di altre azioni, compiute nel passato e mai più modificabili, riassunte in vero “fulmineo montaggio” della vita. Da qui l’oscuro aforisma: «O esprimersi e morire o restare inespressi e immortali» (ivi, p. 251).
Punto di convergenza tra la riflessione pasoliniana e l’impiego della videotelefonia è La Paura di Pippo Delbono, film del 2009 prodotto da Les Forum des Images interamente realizzato con un videofonino. Delbono nel confronto con Pasolini, al posto di percorrere la via più semplice, solita risolversi nel deificare invece che comprendere, non ha riproposto pedissequamente la lezione del poeta casarsese, ma l’ha riletta e fatta cortocircuitare con l’oggi e la propria poetica. La continuità tra il sentire e il fare di Pasolini con quello di Delbono, già espressasi ne La Rabbia, spettacolo che quest’ultimo ha dedicato all’opera e alla figura del poeta, è rinsaldata anche in alcune dichiarazioni dell’autore teatrale, come quella rilasciata a Oliviero Ponte di Pino per «il manifesto», dove affermava: «Voglio comunicare, riuscire a trovare la poesia in cose estremamente semplici. L’eccesso di mediazione mi dà fastidio; è la poesia secondo me che salva…». Da queste parole si desume che Delbono prenda le mosse dal medesimo assunto di fondo pasoliniano, che consiste nell’identificare la poesia con l’azione. L’azione poetica é, certo, rinchiusa all’interno di simboli linguistici, ma ciò avviene per pura necessità comunicativa. In realtà, la poesia sfrutta tali simboli come veicoli, per poi rivivere di nuovo come azione, nel destinatario. Delbono come Pasolini ha necessità di avvicinarsi alla realtà fino a immergersi in essa, anziché rimanere distaccato in un linguaggio di segni arbitrari. In entrambi c’è la volontà a spogliare i segni con cui la realtà si dà. Delbono s’appropria della teoria pasoliniana del cinema come lingua scritta della realtà e l’aggiorna filtrandola attraverso l’impiego del videofonino, oggetto così piccolo e così poco ingombrante che gli permette di arrivare in luoghi e situazioni come persona e non come cameraman; un oggetto domestico che, a differenza delle macchine da presa professionali, non intimorisce nessuno, e che proprio per questo gli può permettere di abbattere qualsiasi inibizione con i soggetti ripresi, aprendo così a momenti emotivi particolari che, senza questo strumento, andrebbero persi. Uno strumento che, proprio per il fatto di chiamare prepotentemente in causa il corpo del soggetto filmante, gli dà modo di forzare la situazione, riprendendo l’evento che contemporaneamente contribuisce a creare.
Con La Paura Delbono decide di prendere di petto ciò che i film italiani in genere relegano sullo sfondo – il razzismo, la pervasività della televisione e della sua cultura, la latitanza di artisti e intellettuali di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo – e lo fa a partire da un punto di vista morale fortissimo, dichiarato. Come confidato a Luca Mosso per «la Repubblica»: «la paura è il sentimento dominante del nostro tempo, quello che si sente circolare tra le persone per strada e che però a volte ti sorprende nell'intimità. Da una parte è espressione di fragilità personale, dall'altra effetto di fattori più oggettivi: la paura dell'altro, la paura della crisi economica, la paura di perdere il posto. E in fondo c'è la paura di essere liberi, di essere diversi, di essere noi stessi. E non solo in Italia: tutta l'Europa si sta chiudendo». Anche in queste parole gli echi pasoliniani sono fortissimi, rimandano a mente le considerazioni annotate nell’ampliamento del “ bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia: «Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo» (Pasolini 2001, p. 60).
Come Pasolini, Delbono capisce che il suo dovere, in quanto artista e intellettuale, è quello di ferire la coscienza borghese, rendendole evidente e doloroso ciò che contrariamente preferisce non vedere, ignorando la disperazione del presente, i contrasti di una condizione in atto. Mette in scena ciò che la società dei consumi sta cercando volutamente di rimuovere, la vita degli scarti, di quegli uomini nati nel fango, costretti a vivere ai margini, in un mondo fatto di miseria materiale, per la sola colpa di portare inscritta sui propri corpi la traccia della loro povertà (i campi Rom, i vagabondi senzatetto, ma anche Bobò, l’attore della compagnia di Delbono, sordomuto e affetto da microcefalia). Decide di portare in primo piano l’Italia della vergogna, volutamente dimenticata (i funerali di Abdul, il ragazzo giustiziato a Milano per una manciata di biscotti), cancellata, in quanto estranea alle norme del perbenismo piccolo-borghese eletto a modello dominante di stile di vita. Alla provocazione politica unisce una vera e propria provocazione visiva, un anticinematografica idea di cinema basata su una “sgrammaticatura”, in buona parte volontaria, su un’immagine sgranata, low-fi, cioè a bassa intensità di risoluzione. Piega alle proprie esigenze uno strumento solitamente associato al processo di omologazione culturale, distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Come dichiarato dallo stesso autore, nella già citata intervista di Mosso per «la Repubblica»: «Con il suo abuso e il suo slang il telefonino è un po' un simbolo dell'idiozia contemporanea, della superficialità di chi passa sulle cose senza soffermarsi mai su niente. Io ho provato a ribaltare la situazione e l'ho usato per fermare quei momenti che normalmente passano di fretta. Fermarsi a osservare è molto importante».
Delbono con La Paura lancia un grido contro l’immobilismo, la pigrizia e il conformismo, un atto morale di ribellione attraverso il quale denunciare i mali della società; e come Pasolini sa che per poterlo fare è necessario: «restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo» (Pasolini in Chiarcossi – Siti 1995, p. 196).
Bibliografia:
Ambrosini M. (2008): Nuove forme di sfruttamento del film alla luce dei nuovi media e della loro portabilità. Videofonini, computer di ultima generazione, tv digitale e interattiva
Amaducci A. (2009): L’occhio nella mano, in Ambrosini M. – Maina G. – Marcheschi E.: I film in tasca. Videofonino, cinema e televisione, Felici Editore, Ghezzano.
Petullà L. – Borrelli D. (2007): Il videofonino. Genesi e orizzonti del telefono con le immagini, Meltemi, Roma.
Candia R. (1999): Empirismo apocrifo. Per una teoria del cinema di Pasolini, in Novello N. (a cura di), Al trionfo dell’esserci. Teoria e prassi nell’ultimo cinema di Pier Paolo Pasolini, Manent, Firenze.
Parigi S. (1985): Con la semiologia, in A.A.V.V., Tutti i film di Pasolini, Assessorato alla cultura del comune di Siena, Siena.
Pasolini P.P., in Siti W. – Zabagli F. (a cura di) (2001): Pasolini per il cinema II, Mondadori Milano.
Pasolini P.P. (1995) in Chiarcossi G. – Siti W. (a cura di): Pier Paolo Pasolini. Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano.
Pasolini P.P. (2001): Scritti Corsari, Garzanti, Milano 2001 [I° ed. 1975].
Pasolini P.P. (2001): Scritti Corsari, Garzanti, Milano 2001 [I° ed. 1975].
Pasolini P.P. (2003): Empirismo eretico, Garzanti, Milano [ I° ed. 1972].
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