esposito

Chi ha paura d’amare John Carpenter? Probabilmente chi non ammette che il cineasta vero lo si vede sempre nel film su commissione e se possibile a basso budget (anche se non ammettere questo volesse dire mancare del tutto uno dei più grandi di sempre come Howard Hawks e il suo più decisivo erede come John Carpenter). E sicuramente chi non sa che al cinema per “film minore” non si intende meno riuscito o sottotono (se non nel bla bla bla accademico medio mediatico mainstream), ma segreto, opaco, misterioso, una variazione seducente di temi già affrontati, una bruciante sottolineatura, una necessaria messa a fuoco, un’incursione tanto apparentemente laterale quanto cruciale e centrale.

(Visto che sono quasi lo stesso film, è affascinante notare qui che a Carpenter in The Ward riesce con luminosa naturalezza ciò in cui, pur forse desiderandolo ardentemente, fallisce del tutto lo Scorsese di Shutter Island: ossia essere finalmente Hawks più Jacques Tourneur più Joseph H. Lewis, ma mascherato nel vibrante chiaroscuro del b-movie. E Carpenter ci riesce perché ha nell’umiltà e nell’assoluta, anarchica assenza di senso di colpa verso l’immagine due doti che Scorsese o non ha o ha smarrito).

Intanto anche qui stupisce l’afflato minnelliano – nel ricordo di
The Cobweb – non tanto per il sistema paranoico, la terapeutica del disegno e la trama adolescenziale, ma per quel calore e per l’attenzione alle materie da plasmare, dove la tela (del quadro e del ragno) è sì essa stessa premonizione dell’incubo, ma anche paradossale stilizzazione del principio barocco (come per Brooks la sit-comedy anche qui lo specchietto per le allodole è la sponda di genere, l’horror), che si ossessiona a non essere una copia,  sempre pronto, prima di scendere in picchiata, a sorvolare (la retrodatazione agli anni Sessanta e a un evento scatenante negli anni Cinquanta è un altro indizio del lavoro malinconico sul tempo). Con incredibile sapienza Carpenter accarezza il vuoto e, anzi, spinge l’addensamento schizofrenico inconscio, originario – che è sempre delle immagini – alla sua riconquista, perimetrandolo e ri-finendolo con le lunghe carrellate nei corridoi e con gli inserti notturni e al neon di stanze, vetrate e sottoscala. Un autentico film nel film, il cui obiettivo dichiarato sembra il non darsi a vedere, visto che a vista ci sono già le personalità multiple, le quali giocano e danzano il gioco pericolosissimo di arrivare all’occhio e rimanerci (bellissima, e rivoluzionaria anche per Carpenter, la sequenza del ballo delle ragazze interrotte dal temporale).


L’intersezione dei piani – davvero un’intelaiatura visionaria, così attenta, nell’alternarsi del medio e del totale, a torcere la bolla temporale psicotica fino ad assestarla nel cuore di una filmicità che si credeva perduta – contraddice di continuo l’ovvietà della commissione (sarò sincero: non riconoscere in questo il cinema che più amiamo, autonomo folle isolato romantico rarissimo, è un gigantesco peccato). Come nei sublimi titoli di testa, l’immagine qui è un vetro in frantumi che cola brani d’altre immagini dal passato, riducendosi via via a schegge, gocce, filamenti, che tuttavia funzionano come risonanze e ritmi fissati nel tempo e nello spazio (è tale ossessione per il filmico che fa di Carpenter tutto tranne un regista di genere).

Carpenter, come Hawks e Minnelli, sa che dal film, mentre si fa, più che entrare, bisogna saper uscire (altra cosa che difetta a Scorsese). E, allora, ciò che conta non è il racconto, ma il racconto delle intensità che conducono l’immagine a respirare. Fra eccesso e controllo, il distacco da sé, è ciò che dell’identità è così difficile a toccarsi e a riconoscersi (do you remember the thing?), che sia la poderosa macchina identificante del cinema o quella funerea della scrittura, entrambe tuttavia vicinissime a scuotersi nell’esperienza della mutazione e della morte.