Che cosa porta lo spettatore in sala, di fronte a uno schermo? Il desiderio di intrattenimento. A seconda del gusto personale, dello stato emotivo, dell'impatto che pubblicità e critica hanno avuto su di lui e di mille altre variabili lo spettatore sceglie la pellicola. Il tipo di distribuzione ricevuta da un film nelle sale è un'altra incognita. Ci sono pellicole di mero intrattenimento e di poco valore che hanno la possibilità di mostrarsi al pubblico per delle settimane in ogni sala italiana e poi ci sono quelle opere di pregio o semplicemente piccole opere che riescono ad accedere a una sala di un cinema sperduto per una serata o poco più.
Questa distorsione del concetto di libera scelta, che inevitabilmente preclude l'apertura alla novità, porta film come L'illusionista di Sylvian Chomet a scomparire in sordina. L'ingiusto e ingiustificato trattamento distributivo accompagnato dalla poca attenzione critica che la pellicola ha ricevuto sono da attribuire, oltre che all'evidente miopia di questi due apparati, anche alla scelta di averlo realizzato a disegni animati e quasi nella sua totalità senza dialoghi, caratteristiche che nel nostro paese sono considerate adatte a un pubblico di nicchia.
Il cinema d'animazione in genere è un luogo in cui, troppo spesso, si addentrano con curiosità e attenzione solo gli appassionati del mezzo o gli "addetti ai lavori". Lo definisco un mezzo perché l'animazione non è da scambiare erroneamente (come purtroppo è ancora oggi) per un genere cinematografico o peggio per il contenitore di opere d'intrattenimento per bambini e ragazzi. Nonostante gli studi, gli scritti e l'impegno nella divulgazione che in molti hanno perseguito negli anni in Italia, l'animazione è percepita in modo distorto, quasi fosse un'anomalia rispetto al cinema "dal vero".
La differenza tra cinema d'animazione e cinema live action è nell'apparato realizzativo dell'opera. Nell'animazione non esistono gli elementi fortunati durante le riprese, come ad esempio l'interpretazione dell'attore che trasforma un personaggio insignificante in un elemento imprescindibile dalla scena, in questo mezzo espressivo tutto deve essere progettato, creato e animato. Gli equilibri sono fondamentali, il ritmo dei movimenti preciso e i dettagli calibrati e disseminati in scena con un esatto piano.
Ciò che li accomuna è il fatto di essere dei mezzi al servizio delle storie che mettono in scena.
Con l'arrivo della computer graphic sembrava che ci fosse stato un riavvicinamento, un'apertura maggiore nei confronti dell'animazione in sala ma ben presto, questa tecnica ha invaso ogni spazio spesso con prodotti animati di bassa qualità che hanno stabilito i nuovi canoni e i parametri dello spettatore. Azione, gag ritrite e grezze, doppi sensi volgari e grossolani ma soprattutto quasi assoluta assenza di una storia da raccontare. Una vera catastrofe visiva in cui la narrazione si è ritrovata al servizio del mezzo. Non dobbiamo dimenticare che all'interno di questo calderone digitale ci sono ancora degli studi di produzione come Pixar, che fanno la differenza proprio perché scelgono di partire dalla storia e portano sugli schermi film animati di grande impatto emotivo e valore estetico.
La saturazione del mercato ottenuta dalla CGI che spazia dal cinema d'animazione agli effetti speciali e l'animazione nei film "dal vero" fino ad arrivare alla pubblicità ha distorto l'aspettativa nella visione dello spettatore. Quando si parla di animazione mettiamo sul tappeto una varietà di tecniche ed espedienti diversissimi tra loro che comportano un risultato visivo variegato, ricco di sfaccettature. Banalmente la stessa tecnica utilizzata da autori diversi porta a opere nettamente differenti tra loro. Ma quando la proposta nelle sale si conforma, la visione si inaridisce. Lo spettatore viene indirizzato nella scelta (che in questo periodo storico è CGI e 3D) annullando consapevolmente il piacere dell'occhio verso il disegno animato, il cut out o la stop motion (per citarne alcune) che nell'arco di un solo decennio si sono trasformate in elementi della memoria, tecniche del passato.
La monotonia dell'offerta visiva è complice dell'incasellamento di film come L'illusionista negli odiosi ranghi del così detto cinema di nicchia.
La pellicola di Chomet non dovrebbe sorprendere o affascinare perché l'utilizzo dei disegni animati richiama alla memoria il passato e quindi fa leva sulla nostalgia.
L'illusionista nasce da una sceneggiatura che Jaques Tati scrisse tra il 1956 e il 1959 dedicandola alla figlia, che poi — pare — decise di non realizzare perché il personaggio e la storia erano troppo seri. Il testo è rimasto per quasi cinquant'anni al Centre National de la Cinématographie di Parigi classificato come "Film Tati nº 4". Nel 2003 Sylvian Chomet propose a Sophie Tatisheff, la figlia del cineasta scomparso, di trarre dalla sceneggiatura un film animato. Lo script originale ha subito delle modifiche (ad esempio Edimburgo sostituisce Praga) che però sono state apportate prestando molta attenzione a mantenere vivo lo spirito del creatore. Il piccolo neo della pellicola è forse questa rilettura poco coraggiosa che ha portato sullo schermo un ottimo film che non appartiene del tutto né a Chomet né a Tati.
La pellicola mostra la delicata narrazione di un viaggio di un illusionista, Jaques Tatisheff, alla ricerca di un ingaggio, la metafora di un’epoca al suo tramonto che combatte tenacemente per sopravvivere ma che alla fine cede il passo e scompare. La magia e la meraviglia, arte e mestiere soccombono alle sferzate dell’era moderna in perenne corsa verso il futuro. Non c’è tempo per fermarsi e non importa se questo comporta la perdita dell’innocenza e di quello sguardo aperto alle meraviglie del mondo. La magia non esiste. Il trucco è stato scoperto e svelato. Si deve andare oltre.
Nel girovagare alla ricerca di un modo per reinventarsi Jaques si ritroverà in una sala cinematografica dove stanno proiettando Mon Oncle di Tati. L’illusionista trova se stesso sullo schermo ma non si riconosce. Il cinema è un’altra illusione e il regista è l’illusionista. Jaques non può riconoscersi perché sullo schermo ritrova se stesso che interpreta qualcun altro ed egli stesso è solo un’interpretazione a disegni di un uomo reale. Due illusioni che si specchiano.
L’illusionista rincorre l’ombra di un passato che non potrà mai tornare e addirittura trova il surrogato della figlia che non ha mai visto crescere in Alice, ma anche quest’ultima corre verso il proprio futuro lasciandolo indietro. Tutti coloro che fanno parte del passato (ventriloqui, acrobati, musicisti, ecc.) devono reinventarsi per sopravvivere alla vita rinunciando a quell’unicità che li caratterizzava per diventare parte del sistema. La vetrina del banco dei pegni diventa lentamente il museo dell’artista di teatro e le memorabilia al suo interno sono le ombre di sale piene di pubblico acclamante. La speranza si spegne. L’ultimo spettacolo è finito, il sipario si chiude.
Resta solo l’illusione
Il cinema d’animazione si basa sull’illusione del movimento e quindi della vita. Tutto è immobile, silenzioso e nulla esiste prima che l’illusionista o gli illusionisti (gli animatori) inizino il proprio lavoro e lo portino sullo schermo.
In paesi vicini a noi come la Francia e il Regno Unito o lontanissimi geograficamente e culturalmente come il Giappone, l’animazione è percepita come un mezzo espressivo cinematografico di rilievo. Gli studi che gli vengono dedicati non si limitano all’analisi della tecnica, ma spaziano sull’estetica e i contenuti. Cinema “dal vero” e animazione sono semplici definizioni che identificano la tecnica utilizzata e non discriminanti che determinano la supremazia di uno sull’altro. Lo spettatore italiano, invece, soffre dei preconcetti, citati in precedenza, che quasi nessuno confuta in modo netto. Ad aggravare questa mancanza di messa a fuoco c’è la convinzione che la computher graphic 3D sia l’unico formato possibile.
La CGI, nel corso di una decina di anni, è stata incensata come la tecnica della contemporaneità perché portava sullo schermo mondi verosimili, più realistici del vero. Ma è davvero così? Il cinema d’animazione ha sempre mostrato mondi possibili qualsiasi tecnica abbia utilizzato. Cosa è cambiato?
L’impatto sull’occhio cambia a seconda dell’apertura, della flessibilità mentale e del fruitore. Se limito la visione a una sola tipologia di prodotto assuefacendo lo sguardo a un modello ciò che si differenzierà da esso verrà individuato come anomalo. Nel migliore dei casi apparirà come una novità da scoprire, ma per lo più, se possiede in sé caratteristiche che rimandano al passato, verrà etichettato come oggetto nostalgico, obsoleto, parte di quella vetrina del banco dei pegni mostrato da Chomet ne L’Illusionista.
In questo caso specifico il regista utilizza un registro di inquadrature, coloritura e montaggio che omaggiano il modo di fare cinema di Jaques Tati, con molti campi medi fissi in cui i protagonisti entrano in contatto con l’ambiente e nei quali la perfezione del gesto e la mimica fanno da padroni. Il primo piano viene accantonato perché sensazioni e dettagli emergono spontaneamente, non necessitano di essere sottolineati dal taglio dell’immagine. Il valore delle parole è azzerato e sostituito dalla fisicità. Chomet sceglie di allontanarsi nettamente dai canoni imposti dal mercato e anche dal suo precedente Appuntamento a Belleville. Se in questo aveva utilizzato il pretesto di un rocambolesco salvataggio per mettere in scena l’amore famigliare e la quotidianità di un mondo che inevitabilmente cambia nel tempo, descrivendone i personaggi e utilizzando (in modo ludico) inquadrature e montaggio tipici del gangster movie, ne L’Illusionista azzera l’effetto dinamico per fare emergere prepotentemente quello poetico e nostalgico.
L’educazione visiva del fruitore contemporaneo è composta dal rincorrersi di inquadrature di vario formato in un ritmo sincopato, in cui tutto è sempre in primo piano e ciò che non si vede viene portato alla ribalta dalla presenza ridondante della parola. L’occhio non ha tempo di vagare nell’inquadratura, di scegliere e di scoprire, si limita a perdere di aderenza sulle immagini che scorrono e, diventando impulsi sensoriali, annullano il piacere della visione. Guardare significa assorbire informazioni non più addentrarsi nell’immagine e cercare il celato. In una contestualizzazione simile l’opera di Chomet non poteva che apparire di difficile appeal in sala.
Se però ripercorriamo le uscite di altri film d’animazione che non rientrano idealmente nel circuito mainstream scopriamo che ci sono molti titoli che in Italia sono stati snobbati o hanno ricevuto un tiepido consenso. Pensiamo ad esempio a Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, Mary and Max di Adam Elliot, Metropia di Tarik Saleh, The Sky Crawlers di Mamoru Oshi per citare solo alcuni titoli di una lunga lista.
In un periodo storico in cui il sovraccarico di informazioni e di immagini confondono e i modelli distorti diventano canoni estetici è necessario ricordare che il cinema è un’esperienza multisensoriale che va al di là della tecnica utilizzata e che coloro che scelgono di esprimersi attraverso l’animazione non sono dei don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento.
La magia esiste solo negli occhi di chi la sa cogliere.
Titolo: L'illusionista (L'illusionniste)
Anno: 2010
Durata: 80
Origine: FRANCIA, GRAN BRETAGNA
Colore: C
Genere: ANIMAZIONE
Specifiche tecniche: D-CINEMA, (1:1.85)
Produzione: BOB LAST, SALLY CHOMET PER DJANGO FILMS, CINEB, PATHÉ PICTURES INTERNATIONAL
Distribuzione: SACHER DISTRIBUZIONE - DVD: FELTRINELLI - LE NUVOLE (2011)
Data uscita: 29-10-2010
Regia: Sylvain Chomet
Soggetto: Jacques Tati (sceneggiatura)
Sceneggiatura: Sylvain Chomet (adattamento)
Musiche: Sylvain Chomet
Montaggio: Sylvain Chomet