Questo articolo è già apparso sul «Verri», n. 25, 2004.
Nei primi giorni di giugno di questo giugno autunnale, bellico, grigio-lucido come pochi nel vacuum delle parate sottovuoto (l’atterraggio dalle Americhe del Principe Cespuglio alle 0.25 l’ho percepito da un battito elicottero sul cielo del cortile, a vigilare sul corteggio da Ciampino ai Parioli) in questo novilunio incipiente di giugno, livido, febbricitante, blindato, e poi, così perplessamente fuori parte, come le naiadi nel centrotavola del cenone offerto dal suo ultimo vassallo, il Cavaliere del Maradagàl; è in questa lunga notte, percorso da brividi strani, che mi sovviene dell’anniversario.
Non è tondo anniversario (sarebbe anzi un non-anniversario, per gli annali del Cappellaio Matto) e nemmeno è un ritorno (non eterno, non ritorno – a lui piaceva così tanto il peso di queste due parole, lui pare le scandisse nette, profonde, staccate, credo in virtù innanzitutto della loro assonanza) e pure, andrà celebrato ancor più intimamente, per questo. Che sono novant’anni, proprio in questi giorni, che Campana, insomma, sottoscrive il contratto con Ravagli tipografo marradese, per la stampa di tutto quello che avrebbe visto la luce un mese più tardi, col nome di Canti Orfici, al di sotto della settemplice quasi spartana – eppure leziosa nell’uso dei caratteri sinuosi, art nouveau (di gusto francese, la si trovò allora) – copertina di cartoncino rosso. Un manoscritto smarrito (da Soffici, ma lui, Campana, ancora non sapeva), e ricostruito, riscritto, altrimenti, vicinissimo-lontano rispetto al perduto, da una marea di foglietti strabordanti dal fondo delle larghe tasche, saltati fuori in un’alchimia infallibile tra danze di briciole e piccoli insetti zompettanti: e declamato e dettato (chissà quanto) “a memoria” ad un qualche allibito messo negli uffici stralunati del Comune, nella sua Marradi casereccia vampira. E allora, adesso che (il 18 marzo scorso) il destino dello smarrito manoscritto (e ritrovato sessant’anni più tardi) s’è risolto, topicamente, in vendita all’asta, adesso mi viene da pensare soprattutto a quest’atto ancora misterioso di ricostruzione o reinvenzione (più che di riscrittura, appunto); e sulla natura irripetibile che il testo, quello definitivo (terminale) mandato a stampa, ne deriva.
Che ci sarebbe molto da fare e dire e (sicuramente) da baciare, circa il fumo denso, fluvialmente, di quella (ri)scrittura che è anche ultima, estrema, mano (fino al cecidere manus dell’ultima epigrafe, stravoltamente whitmaniana): e sulla natura di acting out, grafo-oralizzante, orante incidente e performativa appunto (delirante, appunto), che ne assume il poema, e dell’incredulità metafisica (possiamo immaginare) dei testimoni forzati coautori, cioè adepti involontari d’un così strambo orfico mistero. Credo che dovremmo riflettere, a lungo, sulla natura di pronuncia viva (ma già inoltrata, affatto, dal paese dei morti) di questo mistero inconscio, consumato nel fuoco dell’ombra, dell’inconsciamente-cercare-il-problema-della-propria-vita e (da perderlo, nuovamente) il bandolo e giusto lì rintracciarlo – rintracciarlo per bruciarlo, – in questa declamazione incongrua che ricrea per chi non può sentirla, ma verbalizzarla, al massimo, soltanto. – Metterla-agli-atti. – Sarà (per inciso) che la stesura, ogni stesura, è sempre, di per sé, una prova a carico? (Da far valere allora, quando per tutto il pubblico-mènade, presente o assente, platea viva o mentale, ci sarà da cospargersi del sangue del poeta: They were all torn, ecc., il Whitman ‘appropriato’ di quell’ultima epigrafe), (scrisse molti foglietti, pare, Campana, negli anni dell’internamento, ma andarono distrutti o glieli distrussero, tutti, pensandoli senza senso: nemmeno attribuendo ad essi dignità di prova). – Ma insomma: la qualità vocale, germinalmente, di quel canto. Riflessa in quel teatro della delirante dettatura. Rimontare in marea sonora, d’un flusso di “ricordi che non ricordano nulla”. La poesia (“non più ricordare”: “non ricordo, oblìo”, così come – ‘introducendo’ Dino – la lettura per Carmelo Bene) fatta come forma d’onda, sospesa a mezz’aria, e attuale solamente lì dove è invisibile, dove non sarà più ripetibile, non più pronunciata: riassorbita dall’Elemento (l’aria, e sotto, più sotto, veramente, l’acqua), pronunciata e sprecata, una volta e per sempre. Cresta (dell’onda), e suo ricadere Catastrofico.
“La lunga notte piena dell’inganno delle varie immagini”; che rovescia e compie, orficamente, il Più Lungo Giorno. Ma cosa troviamo nella lunga notte? E cioè, quali sono queste immagini? Una Cinematografia Sentimentale: una Canzonetta Volgaruccia: quel “panorama scheletrico del mondo” su cui ruota l’intera teoria dei preludi che dovranno tacere (la prima, più lunga sezione della Notte) non ha altro senso da quello (proto)cinematografico, dalla magia delle vane immagini proiettate in una “baracca” di fiera, di panorami cascanti, diorami in disuso, la sera (la notte) di fiera, prima che dall’odore pirico il suono volgaruccio si sia spento. La lanterna ammaga panorami morti, che si accalcano, intanto, più che avvicendarsi, nella povertà fantasmagorica nell’Irrealtà Spettrale del baraccone delle strutture posticce (“panorami scheltrici di città”: “morti bizzarri”, “odalische di gomma”) che esso trascina di fiera in fiera, la lanterna dà corpo per un attimo al sogno-che-si-ama-vano, alla fantasmagoria-profonda-dello-specchio; dopo (stanza successiva, nella Notte), sarà la tenda calata alle spalle della bolognese matrona, quella che parrà “agitare delle immagini”, nell’anello ulteriore della teoria delle morti (ché dopo Cinematografia sentimentale, cassato a penna, Scorci bizantini e morti cinematografiche erano, nel Manoscritto Perduto, sottotitolo a La notte mistica dell’amore e del dolore, si sa; e quale titolo più melodrammatico e posticcio e verissimo e sublime, cioè di un sublime appunto di fiera e fumi e inganno-di-varie-immagini, che non questo?) (nel titolo finale, che sarà negli Orfici, prevarrà al contrario una figura non più agitatamente bidimensionale ma mito-plastica, di personificazione michelangiolesca: La Notte: la musica del Tempo Sospeso, dentro cui si accalchi tutta l’onda sonora delle immagini, si aggrega sui contorni vivi della pietra: Notte, Sfinge, Chimera, Cariatide: e poi, appunto, gli Occhi d’Idolo dell’Odalisca di Gomma: di tutto questo, l’arcano pronunciato solo più tardi – anzi quando sarà troppo tardi, nel precipitare alla catastrofe definitiva della Sibilla – sarà credo l’appello veramente letterale (tradotto così incredibilmente alla lettera) alla Margherita-Medusa della Walpurgis-Nacht, con quella riga, linea, di sangue che c’indietreggia al mito stesso centrale germinante della vocazione campaniana e del suo delirante svanimento: la Chimera).
Ma allora: i Canti Orfici, il risonare della memoria che non ricorda, che sospende e protende – su uno schermo mobile – di trina la teoria mesmerica del suo sognare-vano, saranno, anche, il sogno del proiezionista, che faccia di sé schermo al suo stesso proiettarsi. Cinematografia: scrittura del movimento, così, proprio alla lettera, movimento verso l’infinità dei suoi sensi, l’infinità dei suoi frames: ralenti primitivo e come primigenio, del cascame del mondo di fiera della roccia-acqua (Presso Campigno) dell’Elemento della poesia stessa, la Poesia Toscana Che Fu la sua Memoria che ancora, adesso, (non Letteratura: ma solamente: Acqua), continua a scorrere, vergine-roccia: “Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria”. Scrittura-movimento, poesia (ancorché semplicemente “in fuga”, quale la definiva Montale sulla base immagino di suggestioni musicali) “in divenire”: fino a (non a “disfarsi” soltanto) a devastarsi. Sentimentale (la Cinematografia) proprio perché animata, nativamente: messa in luce della capacità nativa dell’immagine-movimento, di allucinare fotosensibilmente la teoria di ciò che viene in vista; (e questa foto-genìa del testo linguistico, nell’ondulazione d’uno schermo psichico lascia già che risuoni, e indicibilmente più a fondo, tutto lo spazio trans-sensoriale, animistico, che verrà rivelato poi da Delluc, e da Epstein). La poesia (cfr. Sanguineti) dell’Apparizione (che, forse, non è esattamente Visività, non esattamente Veggenza, non esattamente Visione), nell’obliante memoria del proiezionista fatto schermo, fascio di luce che fori l’oscurità degl’inferi ma per riemergere alla sua catastrofe, al dissolversi della Varia (vana) Immagine (Euridice-Chimera, il sogno stesso che si ama vano, della Poesia), questa Apparizione in verbo di poesia si dichiara, ecco, nella sua matrice di allucinazione tecnologica: ma, appunto, d’una tecnologia in disuso, lanterna o panorama, fantasmagorie di gomma e legno e cartapesta, occhi-d’idolo carnevaleschi, e quant’altro, o ascensionali altrimenti Visioni di Grazia sospinte dalle fiamme dei fanali (nei loro tentativi di Svellersi dal Cavo dei Lampioni, magari) oppure la piaga rossa languente (piovuta dalla lampada dietro l’invetriata) ancora il quadro bianco dell’alta lanterna del bastimento in viaggio, che proietta il suo Globo Bianco di Fumo ossia “getta un cerchio luminoso” (così spiegherà al Pariani), oscillante, che Non Esiste Come Musica che danzante evoca l’inaudibile ritmico della cinetica muta visione: o viceversa, ombra retroproiettata (quasi nei teatrini balinesi d’altre baracche) sulla finestra che dovrà spegnersi, perché definitiva nasca infinitamente occhiuta, dilagante la notte d’acqua la mediterranea (non più marmoreo enigma e michelangiolesco, la Notte) la Tirrena Devastazione.
L’Apparizione, allora; levitazione d’epifania sulla distesa spettrale irrealmente del vivente corpo di città, e sul panorama scheletrico della sua finzione; e che soltanto si possa fare vera del bagliore d’un istante ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, in quell’odore pirico di sera di fiera che nell’aria gli ultimi clangori (picchi d’onda, magma vibrante sonoro, come fossero i cavalloni stessi della Falterona oppure la marea argentata della pampa, in Dualismo, a nuovamente avanzare, stridendo, su colui che sta attraversando) si espandono, si spengono. Qualcosa si manifesta, ritorna eternata a manifestarsi, ingigantendosi d’un getto, per lo sguardo di chi attraversa: anche se ciò che si attraversa, non è più l’aperto, non più l’immensità dell’Elemento la sua melodia tellurica (la massa casentinese fino alla Verna, attraversata e scritta nel ’10, ormai non più d’un’ombra fosforosa, un contatto lasciato acceso alle spalle, che piano si estingua): ma invece è il tunnel oltretombale, panorama (scheletrico) denso di figurazioni posticce, di proiezioni assolute e fallaci, la lunga notte della morte cinematografica bizzarra (“dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose”) e dei suoi scorci agitati sopra le pareti (pareti mobili, tende lacere di trine, tende rigonfie di metafisici brividi, di correnti sorte dall’invisibile, come saranno quelle – animate di foto-genìa germinale – della casa Usher che Epstein appunto filmerà): è, al limite, la baracca di fiera dei fantasmi. Qualcosa si manifesta, ma non è più dal profondo-tellurico, non si fa acqua, anche se ancora e sempre tutto (terra, acqua, nave, treno) si scompone e si confonde inabissato nei cigolìi d’una immane epopea meccanica di cubi e vortici, come respirante (la Passeggiata in tram, ad esempio): quel che si manifesta soprattutto, è una teoria di scricchiolanti sublimemente cascami; sorgivo-putride germinazioni, scintillìo di cieli di spezzate porcellane, fiammate piriche fanali svellentisi bizzarri, invetriate velari ancora ombre ancora schermi animati, lune elettriche, lune Méliès, carpiature di clichés in dissolvenza nel mulinello definitivo, café chantant, perfide Babeli, Gemme e Rose (le mie rose le tue rose), pantomime d’Ofelia, tanghi funambolici, estasi del posticcio. Notturni teppisti, poi: cazzottature da trivio: mantici di troie, lieviti di sperma: e la linea di confine (linea di sangue) e indecidibile sempre, tra un abissale sublime e una gigantesca, irriconoscibile vis parodica o autoparodica in centripeto gorgo esponenziale. “Giuochi di equilibrio” i suoi poetici (ebbe lui a dire) – altro che i palazzeschiani – orfico-teppisti: portati sulla “base” d’un sentito “cafonismo” (“molto carducciano”: perché ben avvertito delle tecniche, questo spregio delle garbate forme? oppure, perché sarà Carducci stesso il portatore inconsapevole d’un cafonismo ormai da rimotivare svelare a se stesso da assumere in pieno?) di quella sprezzatura di cafonismo, ecco, dove iperpoetico e ipopoetico (impraticabili, a diverso titolo, entrambi) andassero a congiungersi, persino insostenibilmente, in un sovvertimento radicale cioè a tutti gli effetti elementare (acquatico: tellurico) di quell’orto altrove ben concluso della (morta) Letteratura. E dove ogni Canone collassa nel dominio puro sentimentale (rimemorante senza ricordo), nel dominio erratico del cafonesco equilibristico cantare: nel funambolismo senza rete della Canzonetta Volgaruccia (che sarà infatti ultima e più radicale deriva campaniana): e della sua stessa impraticabile aura popolare, da praticare tutta, alchemicamente, sciogliendosi/straniandosi nel suo liquido Profondo, attraverso e contro, appunto, la Letteratura. – Per lui, Dino: contro le istituzioni ben infiorettante (e fiorentinamente cialtrone, per lui) dello scrivere: scrivere, invece, l’elemento: scrivere il ricordo dell’acqua, che non ricorda, che è: la musica persistente-concreta di ciò che non esiste come musica, la melodia che non si ode: rinverginare quel che è usurato e volgaruccio e in disuso (il baraccone del linguaggio stesso letterario tradotto ormai in panorama-scheletrico, effetto da fiera): rinverginarlo alla luce elementare della poesia viva e ‘impossibile’ toscana che fu: per riportare in vita, fuori dalla baracca pirico-infera delle varie immagini, quel che, Sogno e Ombra, era dipartito (cfr. Immagini del viaggio: la prima lezione, quella in “Sogno”, era del manoscritto perduto; nell’edizione degli Orfici, “dipartito”, riferito ormai ad “Ombra”, resterà declinato al maschile...) – Ed eternamente fallendo, se è per questo: perdendo (e perdendosi) senza più ritorno, di porta in porta, di deriva in deriva: fino allo strazio bacchico di sangue e membra, il sacrifizio tragico del poeta ragazzo: e che pur potrà sottrarlo al destino di chi abbia scovato, nel fondo chimerico dello sguardo di Euridice (“Lei” stessa, occhi-d’idolo della Poesia fantasmata in Persona) – a pietrificare l’acqua stessa in: Letteratura, – l’oscuro magnetismo d’un bagliore medusèo.