le-gamin-au-velo-le-gamin-au-velo-5«Come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene, ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna»
(Kant, Critica della Ragion Pratica).

«E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappare di nuovo da casa tua?»
(Collodi, Le avventure di Pinocchio).


Comincia già che è uno sfinimento per gli occhi. L’ultimo film dei Dardenne introduce lo spettatore in una dimensione puramente visiva, di affaticamento che non conosce riposo: le soste non ristorano, lasciano semmai che la vista precipiti in un vuoto che – se non è sogno – è vertigine della caduta.

Le gamin  (“monello” più che “ragazzo”) è un meccanismo da corsa, un’età presa in prestito per la fuga sfrenata, soggetto dinamico in perenne trasformazione. Le vélo è invece strumento che, risolvendosi in leggi fisiche, potenzia il movimento del ragazzo, facendolo guizzare anche quando non pedala, alla rincorsa di “ladri di biciclette”, alla ricerca del padre.
Tra soggetto e oggetto si apre una frattura che li differenzia nelle loro funzioni: il cinema non ha mai fatto altro che mettere in scena il legame spezzato tra l’io e il mondo al quale non crede e, nell’abisso di questo vuoto, ha creato l’universo delle possibilità dell’immaginazione. Au (nel titolo italiano “con”) indica la scissione che precede la fusione delle forme, particella motrice che mette in questione l’unità dell’immagine. Il movimento nasce allora dalla spaziatura che crea la vibrazione tra le immagini, le strappa dal vuoto per farle rimbalzare sulla retina spalancata alla trasformazione possibile del mondo interiore1.
Tra soggetto e oggetto non si stabilisce un rapporto di associazione ma, semmai, di differenziazione, sintesi di un corpo meccanico che muore e nasce (di-)nuovo, rinnovato nella carne. Contro il dispotismo della forma non c’è che il movimento isterico, l’oltrepassamento dei limiti della propria pelle2, il vagabondaggio senza meta che libera dagli imperativi categorici (indicativa è la fine che fanno il Grillo Parlante del romanzo di Collodi e il Corvo di Uccellacci e uccellini, maestri di una morale dogmatica e sorda).

In questa cornice di disobbedienza programmatica si staglia l’ombra svilita di un padre che evade dal proprio ruolo (come già era successo nel film L’enfant e, in maniera speculare e contraria, nell’ultimo film di Malick, The tree of life) e rifiuta le scelte consapevoli che la maturità gli imporrebbe. Il ragazzo si fonde con la bicicletta che il padre gli ha venduto per liberarsi dalla sua funzione: soggetto-oggetto (ragazzo+bicicletta), legati nella particella che li differenzia, colmano la mancanza dell’unità (Padre) attraverso la potenza; la preposizione “con” è un segno addizionale che crea una dualità transitoria tesa verso il raggiungimento impossibile del proprio limite.
In una cosmologia cristologica (nel film Il figlio il padre era un falegname) padre e figlio si con-fondono nell’evasione dalla “stabilità” della norma che gli assegnerebbe un ruolo definito nella società organizzata.
Le passeggiate-fughe di Antoine Doinel nei 400 colpi, le sciocche divagazioni di Pinocchio, le corse sfrenate di Cyril hanno in comune due aspetti fondamentali: il ritorno incessante di se stessi, dal quale nasce l’infanzia, e l’eccedenza della conoscenza, la sbadata convinzione che il ritorno sia fatto di un’estate eterna nella quale tutto è perduto, in un ansimare di spossatezza.

I bambini non hanno tempo per l’attesa, sanno solo che l’unico destino che possono sopportare è di appartenere a un’eternità di breve durata, per questo tutti i verbi delle loro azioni si coniugano all’infinito: “errare” è correre incontro alla propria perdita, è il movimento sconclusionato (mai concluso) che assicura la permanenza nel mito, fuori dalla nascita.
«Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare» {Collodi 2002, p. 27}. Questo è il primo atto della creatura: ribellarsi al Padre, recidere i fili per esperire il mondo attraverso la disubbidienza del divieto e, dopo aver fatto esperienza della conoscenza, precipitare sulla terra, senza protezione, come una mela matura. È questo aspetto acutamente allegorico la novità degli ultimi Dardenne, considerato alla luce della loro pregressa filmografia, scandita dalle dilatate volumetrie e dalla ruvidezza del reale, che erano il palcoscenico di un annaspare esistenziale e di una sconfitta “storica” e, forse, alla fine, “cosmica”.

Dal puro, duro caglio mimetico di Rosetta, del Figlio, ecc., in cui l’immanenza ingombrava con sibili, rumori, bisbigli – onnipresenti negli sfondi in contrappunto coi silenzi dei primi piani – le sequenze così secche, puntute, come illividite o rapprese dalle intemperie; Le gamin au vélo arriva a una scarnificazione delle cose, facendo emergere un’ipostasi che, mediante la melodia (prima colonna sonora dei Dardenne) assurge alla simbologia della favola e alla conduzione sentimentale propria del melò. E appunto, i Dardenne, da sempre registi dell’“ostilità ambientale”, intraprendono con tale rigore questa strategia di rastremazione, da giungere a un equilibrio (che è modulazione di matrice ottocentesca, almeno in prima battuta, tra il verismo verghiano degli aspri scenari – si è parlato non a torto, per questo film, anche di Rosso Malpelo – e l’allegorismo collodiano); un equilibrio, dicevamo, forse ancora più perfetto di quello di Comencini, tra lo spessore della materia ambientale (sotto il cui peso sono/erano schiacciati i personaggi) e il suo alleggerirsi in funzione spaesante (alludendo cioè a un fuori dall’ambiente), un’evasione (favolosa, onirica) che, come già nel meraviglioso Pinocchio comenciniano3, è esaltata dalla musica, oltre che dalla struggente apnea del piano-sequenza notturno in cui Cyril corre ancora verso le molteplici potenzialità (del cinema). Senza una casa, il burattino-Cyril incosciente della propria finzione, stringerà rapporti pericolosi (il giovane e furbo Wess-Lucignolo) e miracolosi (Samantha che, pur non avendo i capelli turchini, non può che fare la parrucchiera); si imbatterà nella violenza della realtà che gli brucerà la pelle e prenderà consapevolezza della sua imperfezione.

Nel Körper della marionetta, governato da semplici leggi fisiche e da rapporti esclusivamente deterministici, si incarna l’accadere-eccedere del tempo: il legno si fa corpo, il corpo si fa carne e ogni cosa si consuma in fretta, incapace di sostenere il ritmo di una stagione dello sperpero senza fine. Il burattino impaziente, cede alla stanchezza sottesa nella propria corteccia acerba non ancora indurita dalle stagioni, e diventa Leib: esce fuori dai limiti entro cui si trova costantemente a vivere e diviene formatore-di-mondo (Heidegger)4.
La pressione che lo attrae alla terra nella caduta non lo priva della grazia senza peso della marionetta: risorge a pedalare nel vuoto al quale in definitiva appartiene, lasciandosi alle spalle la realtà con tutti i suoi burattini ‘veri’5.
Nel sogno che il monello ha filmato a occhi aperti, assistiamo all’illusione di una rinascita: l’immagine ghignante di un ‘ragazzino perbene’ divenuto finalmente capace di dire una bugia.


Note

1
«Ciò che conta è l’interstizio tra immagini, tra due immagini: una spaziatura che fa sì che ogni immagine si strappi al vuoto e vi ricada», {Deleuze 1993, p. 200}. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1993, p. 200.
2 Il corpo-vivo è segnato da una contraddizione interna, gli manca la possibilità di percepirsi integro. L’arte del Novecento si è cimentata con la rappresentazione del corpo e dei suoi confini impossibili, “flussi d’intensità” (Deleuze) esposti: il viso, nella sua iconicità rassicurante, diviene maschera; gli organi si esprimono interamente solo disfacendo la soggettività, mostrando l’ingovernabilità della carne. Il confine del corpo è il mondo interiore che lo rende corpo co(s)mico, slacciato dal cielo stellato che lo sovrasta.
3 La colonna sonora in effetti, è uno strumento fondamentale per la commossa adesione di Comencini ai suoi personaggi infantili. Si pensi allo straripare degli archi e del mandolino di Vivaldi, in uno dei suoi ultimi film, Un ragazzo di Calabria, che accompagnava le corse struggenti di Mimì, per i campi divenuti così impalpabili, sognanti.
4 Se Spinoza dava due definizioni del corpo, una cinetica (determinata da specifici rapporti di movimento e riposo) e una dinamica (capacità di essere affetto); Nietzsche approfondiva questa oscillazione affermando che l’uomo è l’unico animale non ancora stabilizzato proprio per via di un corpo di cui ignora le potenzialità. Se Husserl individuava due differenti modalità d’essere: quella del Körper (corpo somatico, corpo-cosa definibile anatomicamente e fisiologicamente), e quella del Leib (corpo-vivente, caratterizzato dall’intenzionalità); Heidegger conferiva all’uomo una specifica caratteristica trascendentale proprio in funzione della sua tendenza a oltrepassare i limiti entro cui si trova costantemente a vivere.
5 Nel suo Pinocchio ovvero lo spettacolo della Provvidenza, Carmelo Bene capovolge i ruoli dei personaggi esibendoli come semplici Körper, marionette dalla voce meccanica atti a ripetere vuoti imperativi categorici; mentre Pinocchio è il burattino (umano-non-umano) al quale è negata la libertà di movimento: Leib legato al mondo degli adulti dalla catena dei doveri, incapace di mentire, schiacciato da incomprensibili sensi di colpa e tuttavia pieno di grazia, salvato dalla sua innocenza.


Bibliografia

Bene C. {2004}: Opere, Bompiani, Milano.

Bracco M. {2003}: Sulla distanza, Stilo Editrice, Bari.

Collodi C. {2002}: Le avventure di Pinocchio, RCS Libri, Milano.

Deleuze G. {1993}: L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano.

Spinoza B. {2005}: Etica. Trattato teologico-politico, Utet, Torino.