Nel sopravvenuto sentore del sonno, specie di apocatastasi della giornata, mi accorgo che quando sono qua, tendo a non guardare mai in alto, quando mi sveglio, per sapere se c’è o no quel sole appiccicoso, che ti scotta la schiena, mentre stai a scrivere di copertine celesti nella sala stampa e di cinema e scrittura che parlano di sé, parlano da sé nella demiurgia di ciò che sfugge miracolosamente all’egida del vuoto, poi uno sguardo dietro, mentre un cinese fantastica sullo schermo del suo computer (le luci elettriche della sua città dove la sua ragazza balla specchiandosi in una vetrina), e alla finestra, il mare.
Mi interessa solo il sole o l’atmosfera plumbea o slavata del cinema (o della letteratura), lì dove tutto è sempre più nero, o più chiaro, più vero, nonostante sappia che la verità non esiste, ed è tutto un riprodursi e un bisogno disperato di simulacri scintillanti. Così, non avendo fatto caso al tempo qui a Venezia, sono entrato alle nove nella sala Darsena, per l’ultimo Cronenberg, ritrovandomi di fronte alla luce abbagliante di una pellicola che percorre l’ossimoro fino in fondo, contrappuntando il profondo (forse torbido, forse semplicemente insondabile) delle pulsioni umane, con la “chiarità argentea” degli spazi, dei giardini, delle stanze nettamente illuminate, tra la Svizzera di Jung e la Vienna freudiana. Le immagini di Cronenberg hanno sempre la muta nettezza, la laconicità che, in questo bellissimo Dangerous Method, è l’opposto di quello a cui alludono l’intrico psicologico (Spider), sentimentale (Inseparabili, M. Butterfly) e quello più impulsionale, che è il terreno paludoso, candidamente torbido su cui fiorisce l’apparenza lucentemente inquietante del film. Sessualità e sentimentalità giustapposte, cui displuvio è la rottura tra Jung e Freud, che scioglie il grumo nodoso ed eversivo del sesso (l’esperienza dell’amplesso vissuta come esperimento di psicanalisi, di osservazione creativa di sè), nella malinconia lacustre di Jung e nel ritorno inesorabile della parola “amore” (della tradizione), lì dove pare, allora, che la psicanalisi abbia fallito.
Il pomeriggio invece vive sulla superficie del culo di Evelyne Brochu, unica apparizione di Café de flor (nelle “Giornate degli autori”), del canadese Jean-Marc Vallèe, per il resto un drammone/videoclip dalle venature new age, che scimmiotta il metafisico: comunque non peggiore del precedente Crazy. Ma attendo con ansia Yorgos Lanthimos, di lì a poco sempre nella Darsena, ricordando con ammirazione il suo precedente Kynodontas e il primo, Kinetta, comunque, una fenomelogia del nichilismo misurato sul piano del linguaggio; sperando magari di trovare posto davanti, sulla destra, chè pare che da lì arrivi più cinema.
Alpis è forse la cosa migliore, insieme al Cut di Naderi, vista finora a Venezia. Un congegno a orologeria, senza una sbavatura, senza un secondo in più o in meno di inquadratura, ferma su una Grecia spoglia, cadente, teatro di una recita ridicola su cui si dimenano marionette grottesche, personaggi che sembrano divenire umani, fuori dal proprio ruolo di personaggio, quindi solo quando gli viene strappata di dosso la parte che recitavano. “Alpis” è una specie di associazione di persone-burattini che, per lucro (e per paradossale, automatica passione) sostituiscono, negli equilibri delle varie famiglie funestate, persone morte, rappresentando le messe in scena richieste dai committenti, per non sentire troppo la mancanza dei defunti. Se Kynodontas era una dissertazione sulla mistificazione delle parole, sulla segregazione, sulla violenza manifestata meccanicamente, Alpis è una dissertazione sulla necessità della recita, come conduzione di vita in un contemporaneo privo di senso, che non sia quello che proviene dalla cultura di massa: tutto il contesto pop e corrivo relativo ad attori o cantanti di grido, corrispondente alla realtà più urgente. Fuori dalla propria (vuota e grottesca) parte, questi personaggi si disperano, si dimenano, cercano di sopprimersi, di rubare qualcosa, un cenno, un moto del corpo, una vicinanza “artificiale”, pur di non restare soli e privi di finalità.
È sera, la sala stampa è quasi vuota e ogni tanto vedo (s)comparire uno spettro (ecco Matteo: Che fai?; Scrivo di Cronenberg; Ah bene, finisci chè poi Clara organizza la sezione; Va bene. Com’è andata?; Aspetta, fammi ricordare quello che ho visto… ho recuperato Garrel stamattina: mi è piaciuto moltissimo; Poi che fai? Torno a casa chè sono stanco: mi riposo per McQueen domattina. E continuiamo, io a scrivere il mio diario, lui il suo Cronberg guardando fisso il muro). Ammetto di essere un po’ ebbro, chè qui è bello tra un film e l’altro, se si ha tempo, starsene seduti a bere e a rimuginare, sul senso del viaggio, del ritorno, sull’apparizione del fantasma di Maurice Garrel – che cerca di convincere suo nipote in fin di vita, che è una fortuna essere vivi, mentre l’altro risponde che non è così se si è perso l’”amore” (ancora lui); così il vecchio, pensandoci, annuisce tristemente, dice che è vero, è giusto, e scompare – e se ciò non abbia a che fare con la distesa della sera, un vento leggero nel lungo viale, e l’estrema latenza dell’orizzonte.