Impardonnables3
«Nell’immaginario amoroso, niente contraddistingue il più trascurabile stimolo da un fatto realmente conseguente: il tempo viene scosso avanti (mi vengono in mente delle predizioni catastrofiche) e indietro (mi ricordo con sgomento dei “precedenti”): da un niente prende corpo tutto un discorso del ricordo e della morte che mi trascina con sé: è il regno della memoria, arma della risonanza – del “risentimento”».
(R. Barthes, “La risonanza”, Frammenti di un discorso amoroso).

La mia stagione preferita
è l’estate. Il mio tempo migliore è il passato. La scansione in stagioni e la suddivisione in capitoli della vita forniscono la cifra primaria del cinema di André Téchiné. Un cinema, in cui lo scorrere dei giorni, l’avvicendarsi delle età, il passaggio di generazione sono anima vibrante e istintuale di un ininterrotto romanzo di formazione.

Corpi migranti, clandestini, fanno fatica a mettere radici: che la loro casa sia la campagna oppure un’anonima metropoli, gli spazi del loro vivere sono sempre provvisori. Persino all’interno della propria famiglia. Sospesi in un presente irrisolto e frustrante, ricattati da un passato che irrompe con tutto il suo impetuoso disincanto. Intrappolati tra desiderio e censura, fugace piacere (il sesso è “rubato”) e paura di amare.

Un girotondo di creature solitarie alla deriva: adulti e giovani che non tengono alla felicità. La cui libertà di pensiero e, soprattutto, di movimento si trasfigura nell’immagine del mare aperto. È qui che i personaggi di Téchiné si tuffano, nuotano, rischiano di annegare. Si perdono o si rifugiano, assaporando così la scoperta delle proprie pulsioni più profonde ed anche animalesche, l’evolversi delle passioni, sperimentando il lento divenire del loro destino. Un destino che porta con sé il sentimento tragico dell’esistenza. Il trauma del cambiamento.


Analfabeti dell’amore

«Sottoposto all’Immaginario, l’innamorato non si cura minimamente della censura che oggi tiene l’adulto lontano dalle lacrime e attraverso cui l’uomo intende affermare la sua virilità.
Dando libero sfogo alle lacrime, l’innamorato rispetta gli ordini del corpo amoroso,
che è un corpo bagnato, in espansione liquida».
(R. Barthes, “Elogio delle lacrime”, Frammenti di un discorso amoroso).

Se ne I testimoni il cineasta francese aveva cristallizzato la sua ennesima storia corale sullo sfondo di una bellissima scogliera mediterranea, per l’ultimo film Impardonnables, presentato alla “Quinzaine des réalisateurs” di Cannes, ha scelto invece come ambientazione la laguna di Venezia. Questa zona franca, il cui cromatismo cambia a secondo dei periodo dell’anno (il racconto si svolge dall’autunno alla primavera), viene attraversata, in lungo e largo, a bordo di gommoni o vaporetti, dai girovaghi protagonisti. I quali, coi loro tragitti, disegnano sull’acqua continue linee di fuga e traiettorie di ritorno. I canali bui e maestosi sembrano non portare da nessuna parte, non possedere una finalità precisa, se non quella di un infinita circolarità.

Dall’isola di Sant’Erasmo, dove si stabilisce la coppia formata dallo scrittore Francis (André Dussollier) e dall’agente immobiliare Judith (Carole Bouquet) si parte per ogni meta e scopo. Per viaggiare, per scappare o semplicemente per inseguire qualcuno. In un costante andirivieni di anime, che si trasforma in pericoloso cortocircuito quando si insinuano il sospetto, la gelosia, l’ombra del passato, e la vicenda prende la direzione della detection story, un po’ come in Alice e Martin.

Francis è un romanziere a corto di idee, che rispecchia molte delle figure maschili e adulte di Téchiné, in quanto si ritrova in una condizione di crisi e profonda vulnerabilità, in cui si confronta con la difficoltà di fare delle scelte, di prendere posizione. Al pari di Sarah (l’autrice di favole per bambini di I testimoni), completerà il suo lavoro ispirandosi alle vicende vissute sulla propria pelle e a quelle degli altri “compagni di viaggio”: il suo nuovo libro (guarda caso intitolato Gente di passaggio) parla infatti di un uomo morto, a cui viene concesso dagli dei di tornare a vivere per un solo giorno e rincontrare la propria donna.

Lo scrittore, a cui viene rimproverato di non sapere osservare la realtà e di essere obsoleto nel linguaggio (è l’unico giallista ad usare ancora il termine “gangster”), ha la possibilità di “compensare” la sua scarsa immaginazione ed il suo analfabetismo emotivo (sindrome che affligge anche l’universo femminile del regista: arido ed incapace di amare). Grazie a due avvenimenti chiave come la scomparsa improvvisa della figlia Alice e il tradimento della moglie. È a questo punto che entrano in gioco le altre due pedine del complicato scacchiere: l’investigatrice ed ex amante di lei Anna Maria (Adriana Asti) ed il figlio Jérémie (Mauro Conte), appena uscito dal carcere.

L’uomo si affiderà alla prima per rintracciare la figlia, scappata a Parigi con il giovane trafficante di droga veneziano Alvise (un’altra vecchia fiamma di Judith) perché annoiata da un marito troppo perfetto. Mentre al secondo, (di cui lo incuriosisce la personalità border-line), chiederà di pedinare la consorte tra le calli, salvo poi scoprire che lo stesso ragazzo si è innamorato della sua signora. Francis non riesce a scrivere materialmente, ma è come se gli eventi che si dispiegano davanti a lui prendessero forma pian piano sulla sua (mentale) pagina bianca, popolata solo di incubi e fantasmi.


L’intreccio

«Colui/Colei con cui io posso tranquillamente parlare dell’essere amato, è colui/colei
che lo ama quanto me, come me: è il mio simmetrico, il mio rivale, il mio concorrente
(…) si verifica una parità di sapere, un piacere di inclusione, parlandone,
l’oggetto non viene né estraniato né lacerato; egli resta interno al discorso
duale, che anzi lo preserva».
(R. Barthes, “La connivenza”, Frammenti di un discorso amoroso)

La figura del triangolo, o meglio del quadrangolo, tipica dei promiscui legami fra uomini e donne nelle opere del francese, testimonia la molteplicità di situazioni, sentimenti e sfumature di cui è pregna la sensibilità narrativa di questo autore. Il quale non riesce ad imprigionare i personaggi in ruoli unilaterali o normali, ma esalta i loro caratteri nella diversità (razziale, geografica, culturale, sessuale) e nell’ambiguità esistenziale. In una «continua ricerca, non di un “Io” empirico e limitato, ma di un Sé aperto alle dimensioni del vasto mondo e alle intrusioni dell’alterità» (Maffesoli, 2000, pp. 92-93).

Odio, risentimento, incomunicabilità. Ma anche complicità, solidarietà, rispetto. Slanci improvvisi e strappati di passione significano l’urgenza, la fisicità del desiderio (è giunta la primavera). Esplosioni altrettanto improvvise di rabbia e intolleranza, gesti violenti senza un apparente motivo (vedi l’episodio dell’aggressione subita dal cane di Jérémie da parte di un omosessuale, a cui, a sua volta, il ragazzo aveva risposto con la forza al tentativo di un approccio) gridano l’istinto come arma di auto-difesa.

In una Venezia non certo da cartolina, piuttosto bucolica e moralmente decadente, dove si dovrebbe trovare riparo da tutti i mali della terra, ognuno porta con sé la sua croce. Da Jérémie, cresciuto senza un padre, assetato di denaro, e voluto quasi per sfizio da una madre egoista che preferirebbe vederlo rinchiuso in cella. Ad Alice, che scarica la figlia al nonno e spedisce a quest’ultimo un video hard in cui filma un suo rapporto sessuale col nuovo compagno. Il lerciume delle carceri, dove entrano ed escono peccatori il cui unico peccato-castigo è quello di non avere un futuro, infesta col suo olezzo anche i patinati ambienti borghesi, già corrotti dall’inganno e dall’orgoglio.

Nessuno dunque può sfuggire alle proprie colpe. E nessuno riesce a giudicarsi da solo, tanto meno a perdonarsi: Jérémie tenta il suicidio tagliandosi le vene. Eppure lo sguardo del cineasta francese accarezza tutti con equidistanza, registrando l’umanità e il pudore dei loro atteggiamenti. Questo si fa evidente quando prorompe la malattia che consuma i corpi degli attori, «la carne e il sangue del cinema» (Daney, 1993, p. 15). Di carne e sangue sono fatti tutti i corpi del cinema di Téchiné segnati dalla sofferenza o semplicemente da malesseri passeggeri (Judith perde più volte sangue dal naso). In Impardonnables, Anna Maria si lascia lentamente morire (ha i polmoni malandati), senza chiedere compassione, senza disturbare. In silenzio. E anche suo figlio si avvicina a questo momento “in punta di piedi”: sul letto di morte non ha il coraggio di toccarla, se non con i guanti.


Il “radicamento dinamico”

«L’altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è per vocazione migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa
sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto,
come un pacco in un angolo sperduto di una stazione».
(R. Barthes, “L’assente”, Frammenti di un discorso amoroso).

Arrivi e partenze. Assenze e presenze. Attorno a queste contrapposizioni, che regolano il nostro confuso vivere quotidiano, l’autore organizza un intricato quanto mutevole sistema di relazioni. Dove la figura dell’erranza è necessaria in quanto motore del nostro corpo sociale frammentato e precario: «Erranti sociali o passionali sono causa ed effetto di uno “spirito del tempo”, fatto di disinvoltura e di insolenza in qualche modo libertarie» (Maffesoli, 2000, p. 149).

Per Téchiné, il cui cinema si sostanzia nella libera circolazione degli affetti e delle emozioni, la realtà è intesa come fluire e ciascun individuo è homo viator. Abitante di un “territorio relativo”, che acquista significato soltanto se rinvia ad altri spazi e ai valori ad essi collegati. In altre parole, è necessario che i legami creati nel posto di appartenenza siano negati, superati o trasgrediti. Il luogo matriciale, come in Chabrol, è quello della provincia, dove si attua un «esacerbato antagonismo» tra forze opposte: «da una parte c’è il perbenismo di una borghesia gelosa della propria rispettabilità, dall’altra lo scatenarsi delle pulsioni – sentimentali, economiche, erotiche, omicide – che sotto di quella si annidano» (Viganò, 1997, p. 33-34).

Ma l’erranza può essere letta anche come espressione di rivolta contro l’ordine stabilito (in primis la famiglia, microcosmo imperfetto ma imprescindibile per la crescita). Oppure come scelta obbligata perché funzionale alla sopravvivenza. Quel desiderio di altrove così tanto idealizzato ad esempio in Lontano, in cui Tangeri, città di frontiera, è la casa da cui separarsi per raggiungere un sogno chiamato Europa (la costa iberica è ad appena 14 chilometri), diventa una drammatica alternativa dinnanzi al quale si è disposti a tutto. Perfino a nascondersi in un camion, come fa nel film il giovane marocchino Saïd. (Oppure a “prostituirsi” con un ricco spagnolo, come Azel, in Partire di Tahar Ben Jelloun, romanzo sull’ossessione dell’approdo ).

Qui il regista conferma di essere un acuto interprete del nostro tempo, per la sua abilità nel saper «raccontare il presente come storia» (Fofi, 2007, p. 33). Storia che si compie ogni giorno davanti ai nostri occhi, e che vede coinvolti le centinaia di immigrati nordafricani che raggiungono per la disperazione le nostre acque. Sfidando la morte: il mare ingoia e poi sputa.
Ma c’è un’ulteriore spiegazione, che concerne più la metodologia di scrittura. Anche in Impardonnables, Téchiné abbandona e riprende continuamente i suoi “nomadi” («Sono un viaggiatore, non un turista» - dice Gerard Depardieu ne I tempi che cambiano), e colma il testo filmico di ellissi, rotture e allontanamenti per poter meglio dedicarsi alla definizione di ogni singolo individuo. Una vera e propria strategia narrativa che intende ridimensionare il ruolo di protagonista, a favore di un’ampia e partecipata “democrazia del personaggio”.

«L’attenzione a ognuno di loro riguarda i comportamenti, le azioni reazioni contro-reazioni, e non le psicologie. (…) E sono sempre le azioni principali, quelle che aiutano a capire il prima e il dopo della storia, a interessarlo, e la sua arte sta nello sceglierle e nell’intesserle» (Fofi, 2007, p. 33). Insomma, tutti gli zingari di Téchiné hanno voce in capitolo e dignità di movimento. La dialettica è quella della messa in relazione, in cui il margine viene assorbito dal centro.


Bibliografia

Barthes R. (1979): Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino.

Daney S. (1993): L’Exercice a été profitable, Monsieur, Ed. POL, Paris.

Fofi G. (2007): Il presente come storia, in Boni S., Quaglia M. (a cura di) André Techiné, Edizioni di Cineforum, Bergamo.

Maffesoli M. (2000): Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, FrancoAngeli, Milano.

Viganò A. (1997): Claude Chabrol, Le Mani, Recco.