Il periodo a cavallo degli anni Trenta – caratterizzato dall’affermazione definitiva del sonoro nella cinematografia americana e dal più lento avviarsi verso lo stesso traguardo delle cinematografie europee e asiatiche – è fra i più singolari dell’intera storia del cinema. Questa singolarità deriva dal lento costituirsi di un modello filmico che si colloca sul confine ancora incerto che separa il muto dal sonoro, in una fase storica cioè in cui il primo, che aveva affermato il suo prestigio artistico convalidato da molti capolavori, sta per lasciare il campo al cinema parlato, mentre quest’ultimo si rivela, sia pure per poco, incerto nella sua definizione linguistica (si pensi all’iniziale proliferare del cosiddetto teatro fotografato, giustamente deprecato dai più avvertiti teorici e critici della settima arte).
Cinema, dunque, che corre lungo un crinale instabile: un territorio, questo, forse non del tutto esplorato, che peraltro propone, a latere, alcune questioni di carattere filologico, cui accenniamo brevemente, relative al problema dell’autenticità del testo: ad esempio, Hitchcock girò due versioni di Blackmail (1929), una muta, l’altra sonora. In tal caso quale dei due film è da considerarsi l’originale? O, ancora nella stessa prospettiva, che dire delle versioni plurime realizzate intorno allo stesso periodo al fine di rendere fruibile il film da parte di spettatori appartenenti a diverse aree linguistiche, per le quali infatti venivano apprestate apposite versioni (ciò si verificò, ovviamente, prima dell’introduzione del doppiaggio)? In tal caso quale delle due versioni (o tre, in alcuni casi) deve ritenersi il testo originale?
La cinematografia cecoslovacca introdusse il sonoro a partire dal 1930, non diversamente da quanto avvenne, oltre che in Italia, nel cinema dell’Europa dell’Est e in quello asiatico, che in alcuni casi protrassero in parte il muto fino ai primi anni del terzo decennio del secolo.
In questo arco di tempo si colloca Tonka Šibenice di Karel Anton (1930), comunemente ritenuto il primo film sonoro del cinema cèco. Riassumiamone la trama, divisa in tre capitoli, corrispondenti a tre stagioni (primavera, estate, inverno). Nel primo la protagonista, la giovane Tonka, che lavora in una casa di piacere a Praga, torna per un breve soggiorno al suo villaggio, dove vive la madre ignara del modo in cui lei si guadagna da vivere. Il ritorno costituisce per Tonka una vacanza rigeneratrice, costellata dai lontani ricordi dell’infanzia e prima giovinezza: si veda a tal proposito la sequenza in cui rovista in un vecchio baule dove sono riposti i suoi vecchi vestiti. Tutto le ricorda un lontano passato, felice e innocente. Poco dopo facciamo la conoscenza di Jean, suo vecchio corteggiatore, anch’egli all’oscuro della sua vera attività, deciso a fare di lei la sua moglie.
Dopo essere tornata in città nel bordello dove lavora, una situazione inconsueta decide del suo destino: alcuni agenti carcerari interpellano le ragazze per un lavoro insolito, la disponibilità a passare l’ultima notte con un condannato a morte che ne ha fatto richiesta come ultimo desiderio. Tutte rifiutano ad eccezione di Tonka, che, fatta la conoscenza dell’assassino, vede nel suo compagno di una notte un uomo degno di compassione, vittima anch’egli forse di una vita sbagliata, quale è stata la sua. Tornata nel postribolo, Tonka dovrà subire i pesanti commenti delle sue compagne, che la deridono chiamandola «la vedova dell’impiccato». Quando la notizia della sua insolita avventura si diffonde fra i clienti della casa, questi cominciano a ignorarla, sicché la maîtresse è costretta a licenziarla. Per Tonka inizia un futuro ancora più triste sui marciapiedi della città. Ed è qui che la ritrova Jean, al quale un uomo ha riferito lo strano caso di cui Tonka è stata protagonista, mostrandogli il ritratto della «vedova dell’impiccato». L’incontro si conclude tragicamente: convinta di non meritare l’amore di Jean, Tonka sfugge al suo abbraccio e finisce sotto le ruote di un carro, restando uccisa.
Sebbene Tonka Šibenice (t.l., Tonka la forca) sia tramandato dagli storici del cinema come il primo film sonoro della cinematografia cèca, la presenza in esso di questo nuovo elemento espressivo è molto limitata (almeno nella copia visionata dallo scrivente) e si riferisce, oltre alla colonna sonora, a due momenti particolari: Tonka che nel bordello canta una nostalgica canzone accompagnata dal pianoforte, e un suo monologo che si ascolta nella seconda parte del film. Pertanto possiamo considerare l’opera di Anton prevalentemente muta, alla stessa maniera di tanti altri dello stesso periodo. «Alla pellicola, sincronizzata con la musica di Erno Koštal, vengono aggiunte alcune scene dialogate, girate negli studi Gaumont di Parigi in versione cèca, tedesca e francese. Erno Koštal, ex direttore d’orchestra del cinematografo, procede, come aveva fatto coi film muti, con un accompagnamento di melodie e canzoncine popolari – kitsch è il Leitmotiv che accompagna Tonka mentre vaga per le strade notturne (“Tutto, tutto è finito”) […] e con le Danze slave di Dvořàk e la Moldava di Smetana» (Lubos Bastošek).
Del film muto in realtà Tonka Šibenice conserva tutti gli elementi stilistici riferibili al suo consolidato codice linguistico, come l’accentuazione dei fattori formali, l’ammirevole concentrazione degli elementi figurativi ottenuta con un uso sapiente del chiaroscuro, fortemente contrastato particolarmente negli interni. La scena nel carcere fra Tonka e il condannato denuncia chiaramente la sua matrice tardo-espressionista nell’intenso gioco delle luci e delle ombre: quando, ad esempio, la silhouette dell’assassino si proietta sulla parete della cella e sembra quasi imprigionare Tonka che vi si è appoggiata. La forte tensione che si crea man mano fra due esseri accomunati da un pari destino di solitudine e dolore si stempera nell’umana pietas di Tonka, nella sua commiserazione per un compagno di sventura, che riscatta il suo gesto “mercenario”. In epigrafe, infatti, il film riporta le parole di Gesù: «In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precedono nel regno dei cieli» (Matteo 21-32).
Il film di Karel Anton rimanda anche allo stile della cinematografia tedesca del periodo weimariano, fra espressionismo declinante e riferimenti al realismo della Neue Sachlichkeit. Si vedano in particolare gli esterni delle periferie notturne, dove si aggira Tonka in cerca di clienti: i bassifondi frequentati da prostitute e lenoni sono ricalcati sulle analoghe scene, che sembrano quasi citate, del classico di Pabst, Die freudlose Gasse (La via senza gioia, 1925) e di Dirnentragödie (t.l., Tragedia di prostitute, 1927) di Bruno Rahn. Al cinema russo rimandano invece alcuni topoi figurativi, come il rapido susseguirsi in primo piano dei volti dei contadini che osservano incuriositi Tonka elegantemente vestita e, poi, nel delirio febbrile che coglie questa dopo l’incidente mortale, quando intravede alcuni uomini che sembrano rimproverarle la sua vita dissoluta.
Tonka Šibenice, ispirato ad un fatto realmente accaduto, è un melodramma percorso da una sottintesa tematica sociale. Con le sue inflessioni patetiche – l’incontro della protagonista con la madre – e con la contrapposizione fra città corruttrice e campagna rigeneratrice, si colloca nel solco di quel cinema che aveva fatto di questo tema un vero e proprio stereotipo narrativo: si ricordi Nočni motỳl (La falena, 1941) di Frantisek Čap, anch’esso ambientato in un bordello della Praga del primo Novecento; o ancora uno dei più famosi film tedeschi del periodo nazista, Die goldene Stadt (La città d’oro, 1942) di Veit Harlan, anch’esso ambientato in una Praga fonte di sventure.
Karel Anton smorza la crudezza della vicenda insistendo su un motivo che potremmo indicare come conduttore dell’intero film, quello del rimpianto per l’innocenza perduta. La storia ritorna più volte su tale tema: nella sequenza del carcere, ad esempio, il pathos e la suspense psicologica si sciolgono quando l’assassino, vedendo Tonka giocare con un pupazzetto, dice: «in fondo si ritorna così ad essere ragazzi».
Il film è tratto dal romanzo Die Himmelfahrt der Galgentoni (poi ridotto a pièce teatrale) di Egon Erwin Kisch, scrittore boemo di lingua tedesca nonché giornalista del «Prager Tageblatt». Intellettuale di sinistra, Kisch fece della sua opera uno strumento di indagine sociale. Infatti per lui, dice Ladislao Mittner, di «ogni civiltà conta[va] soltanto il gradino più basso, su cui è ancora possibile vivere; […] di ogni paese egli visitava anzitutto le prigioni». Ciò traspare anche dal film di Anton, il quale, nel trasporre il romanzo sullo schermo (su sceneggiatura scritta anche da Willy Haas) non ne disperde il senso, fondendo felicemente la lezione della cinematografia weimariana alla tradizione del naturalismo cinematografico cèco.
Philippe Soupault, fra i primi a rilevare la qualità artistica del film nell’Europe Nouvelle (novembre 1930) parlò di un film «tragico, forse troppo. Ma colpisce l’intensità del racconto. L’ultima notte del condannato e l’attesa del boia sono scene indimenticabili che segnano la storia del cinema». Il film ebbe illustri spettatori, anche se non del tutto convinti, come Marcel Carné, all’epoca non ancora l’importante regista che di lì a qualche anno sarebbe diventato, il quale, su «Cinemagazine» del luglio 1930 – citato in Il cinema cecoslovacco a cura di Ernesto G. Laura –, scrisse che si trattava di un’opera «molto ineguale, dove si rinvengono mescolati il meglio e il peggio».
Karel Anton (1898-1979), nato a Brno, divise la sua attività fra il cinema cecoslovacco e quello tedesco: in quest’ultimo lo si ricorda particolarmente come autore di La resa di Sebastopoli o L’incrociatore Sebastopoli (Weisse Sklaven, 1936), film di propaganda antibolscevica, proposto da Goebbels come il pendant ideale nientemeno che del grande capolavoro di Ejzenštejn, il Potëmkin. Il cast composito di Tonka comprende alcuni attori di punta di quel periodo: la brava, bellissima slovena Ita Rina nel ruolo principale (Rina sarebbe poi stata la protagonista del famoso Erotikon di Gustav Machatỳ, 1929). A lei si affiancarono nel ruolo della madre la russa Vera Baranovskaja, la celeberrima «ma’t» dell’omonimo film di Pudovkin, mentre il condannato fu interpretato da Josef Rovenskỳ, attivo anche nel cinema tedesco come attore (fu il farmacista Henning nel Diario di una donna perduta (Das Tagebuch einer Verlorenen) di Pabst, 1929), nonché regista di un bellissimo film del cinema cèco, Řeka (Amor giovane o Il fiume, 1933). Purtroppo la sua carriera fu troncata da una morte prematura.
Bibliografia
Ernesto G. Laura (a cura di) (1960): Il cinema cecoslovacco, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1960.
Filmografia
Blackmail (Alfred Hitchcock 1929).
Das Tagebuch einer Verlorenen (Georg W. Pabst 1929).
Die freudlose Gasse (Georg W. Pabst 1925).
Die goldene Stadt (Veit Harlan 1942).
Dirnentragödie (Bruno Rahn 1927).
Erotikon (Gustav Machatỳ 1929).
Nočni motỳl (Frantisek Čap 1941).
Řeka (Josef Rovenskỳ 1933).