alt«Tu ami veramente il cinema? Dico sul serio. Quando sei stata al cinema l’ultima volta? Quando hai visto qualcosa che ti ha colpito profondamente?»



Abbandonate, decadenti, dismesse, come un corpo in putrefazione, le sale cinematografiche sono organismi prossimi alla morte, e così il cinema. La panoramica sulla marcescenza del filmico è una rassegna su quelle anime boccheggianti dai muri scrostati, le poltrone consunte e vetuste, sulle insegne non più luminose e sprovviste di arti, titoli incompleti, ingressi sbarrati. Privi di parola e rischiarati da luci crepuscolari, gelidi blu e bagliori opalescenti, i cinema denudati, spogli ed evirati dei sensi, agonizzanti non dispensano più emozioni. L’immaginario moribondo non è più il raccordo dell’onirico all’inconscio, non relaziona l’osservato all’osservante, ma è come uno specchio concavo che riflette un soggetto sofferente.

Dalle macerie disastrate di ciò che resta dopo l’apocalisse del digitale, dell’avvento dei multisala e della pirateria virtuale, emergono, come monoliti, i resti di un passato recente che racconta immagini di solitudini e desolazioni munchiane, le sale desuete sono avvolte da atmosfere funeree, come nelle praterie sconsolate di Andrew N. Wyeth.
In una Los Angeles hopperiana, si assiste al disastro e allo sgretolamento del cinema. Paul Schrader in The Canyons (2013), lavora sottilmente sui simboli e le metafore, usa il corpo attoriale come emblema di una catastrofe e i personaggi che porta in scena rappresentano la realtà del mare magnum cinematografico attuale. Reale e finzione coincidono, diversi sono i punti di contatto in cui i due piani finiscono per scivolare l’uno sull’altro e confluire in un unico panorama in rovina.

Lindsay Lohan è Tara, ex-modella, ex-attrice, ex-esistente, che dopo aver tentato diverse strade, irte e ispide, convola in una relazione “non-convenzionale” con un produttore, Christian, interpretato da James Deen, attore preso in prestito dal cinema porno. Tara è la personificazione del cinema moderno, in una messa a fuoco inclemente emergono efelidi e carni molli contenute in guaine vintage che ostentano ben poca sensualità. Le forme imperfette di Tara vengono inasprite dalla luce glaciale e dall’alta definizione del digitale, che traducendo l’immagine in pixel, la veicolano in una virtualità sempre più parte del quotidiano. I sentimenti, l’amore e il sesso, si mostrano sullo schermo del cellulare, organismo perennemente al centro dell’obiettivo, parte integrante della narrazione e della vita dei protagonisti.

altLa mise en scène cinematografica diventa tale anche nel quotidiano, dove si avverte, per dirla “à la Schrader”, il «desiderio di spogliare la vita di ogni espressione». Così l’immagine è colta nel suo divenire, nel suo essere, pura e reale, come nelle scene che ritraggono i rapporti occasionali di Tara e Christian, in cui vengono coinvolti singoli o altre coppie. Si recita a soggetto e l’immagine è raccontata dall’obiettivo del cellulare.

Si interpreta un ruolo e nel momento in cui, inaspettatamente, i ruoli vengono ribaltati si apre il vortice che crea la frattura e il conseguente smarrimento. Come quando è Tara a dirigere il gioco, ordina a Christian cosa fare e come farlo, cosa baciare e chi scopare, «in genere ho il controllo, ma ieri non è andata così, era tutto irreale. Mi sono sentito un oggetto, quelle ci fissavano con degli sguardi che io non capivo, ci dicevano cosa fare, ma non è così che funziona. Normalmente sono io il regista, invece mi sentivo un attore» ammette, al suo psichiatra, il produttore dopo aver perso il controllo della situazione. E aggiunge «Siamo tutti attori, non è così? Plasmiamo i nostri comportamenti a seconda delle circostanze…non avere il controllo mi disturba», l’inquadratura si concentra sul profilo spigoloso di Christian, in primo piano e sullo sfondo si apre la profondità dello spazio, immerso nel bianco di un arredo sterile e scarnificato. Sulle pareti due specchi concavi che rimandano l’immagine deformata, distante, lontana e l’uomo è osservato dall’alto, piccolo, denudato della sicurezza e della boria che lo distinguono, spogliato del suo ruolo e del potere di determinare, improvvisamente posto sotto il giogo di Tara. Così si sfoga un produttore (interpretato da un attore porno) che si è sentito usato come un oggetto, “come un attore”, mentre chiede conforto al suo psicologo (interpretato da Gus Van Sant).

altL’uso del colore e della luce nella linguistica schraderiana è sensoriale, sono l’amplificazione e il riflesso degli stati d’animo e delle emozioni in scena, così come lo era in Il bacio della pantera o in Mishima. I corpi nudi sono sempre abbagliati da chiarori lattescenti, che schiaccianole forme, mettono in mostra le oscenità della pelle, esasperando le asperità, dipingendo sentimenti evanescenti e algidi; l'amore è solo la maschera, e non se ne avverte il sentore. Mancano quasi totalmente le tonalità calde, le sfumature dei colori deragliano in un appiattimento esangue, soffocato in un niveo malsano e distaccato, negli interni come negli esterni. Anche il sangue sembra sbiadirsi e perdersi. Ogni cosa è frigida, forse per effetto del passaggio dal reale alla finzione: il transito attraverso l’obiettivo dei diversi dispositivi, sparsi nello svolgersi del film, dissangua le immagini prima di trasferirle sugli schermi di i-phone, i-pad o pc. E le emozioni si spogliano di passione. Anche nell’orgia, la carne è coperta unicamente da fluorescenze intermittenti, irreali e illusorie, avulse da qualsiasi forma di desiderio. Gli sguardi sono rivolti sovente verso la mdp, in dialogo con lo spettatore, sono sguardi elusivi, ambigui ma che cercano un’intesa con l’osservatore «io sono un produttore, a me non interessa che il film non sia un capolavoro», sottolinea Christian nelle prime scene con gli occhi dritti in camera, ma anche Tara, costringendolo al repentino cambio di ruolo nell’orgia, da regista ad attore, da soggetto ad oggetto, sfida lo spettatore. Gli sguardi tra i protagonisti sono spesso distratti, concentrati sugli schermi e poco sulla realtà.
Siamo in piena decadenza e la scelta attoriale, non casuale, da parte del regista ne è la conferma. Entrambi noti, più che per le loro performances artistiche, per il gossip e per una vita filtrata sempre da un obiettivo, che sia una macchina fotografica o un i-phone - dispositivi che mutano il quotidiano in fiction. The Canyons è una riflessione su un momento di transito per il cinema, di pari passo con l’evolversi dei media e della società, ma soprattutto sul modo stesso di approcciarsi al modus operandi cinematografico. La narrazione immaginifica abbandona le sale e le immagini sono ormai ovunque, grazie alle fotocamere dei cellulari, alle web-cam, la realtà è ormai parte del filmico e viceversa, si assottiglia sempre di più il limite tra finzione e vita. Tutto è filmato e filmabile, indipendentemente dal (s)oggetto.

Come in Holy Motors, di Leos Carax, monumentale riflessione sull’evoluzione del cinema e della riproduzione del visibile nel reale, The Canyons, scritto da Bret Easton Ellis, dietro la costruzione di un thriller e di una crime story, alimentata da vendette e gelosie, è lo spaccato di un paesaggio in evoluzione, di un organismo che muta pelle, e quell’organismo è il cinema. Paul Schrader, presentando il suo film lo ritrae come un paesaggio di solitudini, forse quei canyons sono proprio gli squarci che si aprono in spazi desolati dove annegano abbandoni e melanconie, i fantasmi di una visione in completa mutazione: «The Canyons è la storia di un gruppo di losangelini sulla ventina che si sono messi in coda per vedere un film, ma poi il cinema ha chiuso, e loro sono rimasti in fila perché non avevano nessun altro posto dove andare».


Filmografia

Holy Motors (Leos Carax 2012)

Il bacio della pantera (Cat People) (Paul Schrader 1982)

Mishima: una vita in quattro capitoli (Mishima: A Life in Four Chapters) (Paul Schrader 1985)

The Canyons (Paul Schrader 2013)