«Questa tassonomia... deve intendersi come un prontuario per difendersi dalle sirene dello spettacolo contemporaneo e come un grido d’allarme per la pericolosa pedagogia della trasmissione culturale che vediamo tristemente all’opera nel nostro presente. [...] La difesa della forma – che è sempre e comunque anche contenuto – è oggi una vera battaglia culturale d’avanguardia (non d’élite!) che bisogna saper vincere contro i fautori del presentismo, i tribuni del semplicismo estetizzante e i sacerdoti dello spettacolo post-politico». F. Rossin








Conclusasi la 53esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la sensazione che se ne ricava è proprio quella di una tassonomia, di un metodo in cui gli elementi si dispongono secondo il criterio del rapporto tra le parti, quindi dell’approfondimento e della ricerca. Capita così di passare da una “lezione di Storia” alla visione del film di una giovane regista formatasi alla scuola di Béla Tarr (Baba Vanga di Aleksandra Niemczyk); capita pure che tra una pillola rosselliniana, una scoperta di “Satellite” e una performance in pellicola (Opera mundi ou le temps des survêtements di Nicolas Rey) il film vincitore (The first shot di Yan Cheng e Federico Francioni) sia opera di due ragazzi che interrogano la memoria e mettono in moto «una vera battaglia culturale d’avanguardia» (Rossin 2016, p. 26). La sensazione, per una volta, è quella di potersi permettere di usare le parole “giovani” e “ragazzi” senza fare torto alle generazioni danneggiate da decenni di appelli e di appellativi. Pesaro è uno spazio orizzontale in cui i termini possono essere riabilitati proprio perché la discussione con i registi, i critici, gli spettatori è ancora un elemento portante e indispensabile che orienta la sana dimenticanza delle categorie (i registi, i critici, gli spettatori vecchi e giovani) mettendo al centro, felicemente, i contenuti con la loro sacrosanta forma.

Quali sono i pezzi di questo sistema di dati, conoscenze e teorie? Risale all’800 un gioco molto raffinato di combinazioni: “il paesaggio infinito” si compone di 24 piccole tessere che affiancate restituiscono 1686553615927922354187744* paesaggi. L’uniformità variabile è data dalla linea dell’orizzonte (proprio quell’Infinito famoso) che combacia tra le tessere. L’orizzonte è una suggestione interessante da cui partire per leggere a distanza di un paio di mesi le visioni proposte a Pesaro perché anche da lì i pezzi della tassonomia sembrano combaciare: che si tratti di esordienti o di maestri, di pellicola o di digitale, ogni tassello si sistema seguendo un orizzonte prossimo visibile senza cedere al paesaggio indistinto delle  quantità dimenticabili di molti festival.

Nel recente libro di Carlo Rovelli pubblicato per Adelphi, L’ordine del tempo, le forme a priori vengono demolite con insolita grazia. Non è una scoperta attuale, naturalmente, quella della percezione sempre relativa di spazio e tempo, ma interessante è l’indagine di una sfocatura innominabile che allinea l’orizzonte in spazi-tempi plurali, gli stessi di un cinema che si compone di variabili, azzerando le definizioni di vecchio e nuovo. La traiettoria multidirezionale tomba-prigione-casa comune a molti film (Viaggio a Montevideo di Cioni, Verso casa di Romano, Window water baby moving di Brakhage...) usa il criterio della sfocatura con una funzione particolare, di sopralluogo di lontananze: i viaggi e i ritorni, gli appunti e la forma estesa di un testo, la previsione, la dimenticanza e la memoria danno forma alla realtà e ordine agli eventi secondo una scansione sperimentale. Se la fisica abolisce il tempo (è questa la conclusione sconvolgente di Boltzmann: solo la nostra visione sfocata del mondo consente di distinguere passato e futuro), il cinema, pur sfidando la cronologia, propone continuamente delle storie. In casi coraggiosi, è il meccanismo stesso della riproduzione dell’immagine a mettere in discussione i principi di inizio e fine, di prima e dopo, tentando una conciliazione tra la fisica e il cinema.

∆S≥0 è la sola equazione della fisica fondamentale che riconosce il fluire del tempo. Detto altrimenti, il secondo principio della termodinamica permette di calcolare l’entropia (S), la quale resta uguale o aumenta ma non può mai diminuire: «vediamo l’acqua di un bicchiere come gli astronauti la Terra dalla luna: quieta lucentezza azzurra. Dell’esuberante agitarsi della vita sulla Terra, piante e animali, amori e disperazioni, non si vede nulla dalla luna. Solo la screziata biglia azzurra. Dentro i riflessi di un bicchiere d’acqua vi è un’analoga tumultuosa attività di miriadi di molecole – molte più che gli esseri viventi sulla Terra. Questo agitarsi mescola tutto» (Rovelli 2017, p. 33). L’entropia sconvolge tutto, molecole ed esseri viventi, in un mescolamento mai minore di zero.

Se intendessimo l’equazione come la resa del linguaggio e dei suoi verbi declinati in presente passato futuro, un modo alternativo per dire l’ignoranza rispetto alle incognite che modificano il mondo, si comprenderebbe meglio la portata rivoluzionaria del cinema combinatorio di Nicolas Rey.

Arrivato da Parigi in auto con la sua strumentazione, Rey è il testimone di un mondo estinto che si materializza letteralmente nei suoi film. Mostrati per la prima volta in Italia grazie a Federico Rossin che a Pesaro ha curato una preziosa retrospettiva, i lavori di Rey non aboliscono la Storia ma la usano come il testo di un improbabile commediografo: abbiamo molto da imparare dai commediografi. Loro allestiscono gli eventi che desiderano, non si arrendono all’immensità del mondo: ce ne danno un altro finito e lo sperimentano chiedendosi cosa ne sarà e come diventerà se gli poniamo questa o quella condizione – condizioni finite. Il mondo è infinito solo per gli ignavi. E per l’impotente che non è autorizzato a gridare “basta!” nemmeno una volta (Anders 2008, p. 131).

La porzione finita di mondo, dalla cima di un monte alla stanza buia di una catacomba, nei film di Rey è anche contemplazione del magnifico disordine delle cose: «l’entropia è precisamente la quantità che conta quante sono le diverse configurazioni che la nostra visione sfocata non distingue» (ivi, p. 35). Ogni sua tessera-inquadratura scompone la visione unitaria della Storia in un gioco combinatorio affidato al caso e punta tutto sull’improbabile perché aderire alla realtà significa considerare anche la portata del caso (Anders 2008, p. 36).
La scelta di usare solo materiale di scarto per la realizzazione e la proiezione di questi film dà meglio la misura della necessità di resistere allo sfrangiarsi irreversibile (entropico) dell’immagine almeno finché la materia regge.

Per farsi un’idea dell’operazione a cui si assiste in queste proiezioni che sono sempre uniche, basta dare un’occhiata al sito Filmprojection21 nel quale si legge: «We are leaving behind an era of destruction: the massive destruction of projection tools, the radical destruction of what remained of the photochemical industry, the destruction of professions and crafts. Within less than a decade, the technical conversion of world’s cinema to the digital era has been enacted. It has profoundly transformed the economy of cinema, its industry and the terms of its commercial distribution». La scelta della proiezione fotochimica è precisa e radicale perché, ribaltando l’egemonia della macchina (della tecnologia), riparte esattamente dalla distruzione operata dal capitale per rimettere al centro il lavoro artistico (dell’uomo): il materialismo come teoria dell’invisibile (ivi, p.101). Nasce così L’Abominable, un laboratorio cinematografico d’artista che, insieme ad altri laboratori di questo tipo, è consultabile al sito Filmlabs.

Dal momento che «il tempo della fisica è l’espressione della nostra ignoranza del mondo» (Rovelli 2017, p. 122), Rey manipola le macchine per poi affidarle alla struttura variabile per eccellenza, il vento, nel rispetto della complessità inafferrabile delle cose.
Anders, oltre a significare “diversamente”, è il nome dell’autore di un romanzo allegorico di memorie dal sottosuolo, La catacomba molussica, scritto nella Germania degli anni Trenta. Nel libro prende forma un interessante paradosso: attraverso la scrittura viene rivendicata la superiorità del sapere orale come unica modalità di resistenza alla violenza del dato certo e incontrovertibile del processo storico. Dentro la prigione buia della catacomba, alto e basso, prima e dopo, tempo e spazio non sono più riconosciuti come dispositivi di orientamento e le cose accadono in ogni direzione, soprattutto all’interno del buio che abolisce anche i nomi e dove solo le immagini hanno diritto di esistenza, solo le immagini sono reali: il tempo sopra di noi scorre lineare perché c’è spazio e cambia posto di ora in ora. Qui invece oscilla in cerchio e non può uscirne (Anders 2008, p. 48). In questo sistema di saperi estinti, anche l’ordine dei capitoli può essere violato; benché esistano un inizio e una fine, ogni inizio e ogni fine vengono messi in discussione in quanto principi a priori. Allo stesso modo, le 9 parti in cui è diviso il film in 16 mm di Rey, Anders, Moloussien, si dispongono secondo un “disordine” casuale che combacia nell’orizzonte visionario di un paesaggio infinito, cioè relativo, dello stesso film. Una Molussia sempre diversa, che cambia di spettatore in spettatore, di visione in visione: ancora una volta il linguaggio con le sue regole cede alle combinazioni di parti fluttuanti (362880 versioni potenziali). La parola orale e l’immagine combaciano in qualsiasi modo le 9 parti vengano mostrate. In un film che parla del nero non c’è ragione di separare la parola dall’immagine, il film dal romanzo perché non esiste più l’ordine del prima e del dopo. Nell’oscurità della sala si assiste all’esibizione del grado zero della forma, una distruzione implacabile, atomica: intorno a loro l’aria buia e la solidità delle pareti della prigione. Fuori il mondo vuoto, sotto di loro la fossa delle generazioni. (ivi, p. 68). Garanzia della realtà di questo residuo variabile sono le quattro pareti che circondano Olo e Yegussa, nomi seriali che veicolano il canto e il grido: la stanza era senza volto, non conosceva altro che parole. [...] non siamo nient’altro che voci con la funzione di tramandare il nostro messaggio (ivi, pp. 18-21).

S = k log W  è la formula impressa sulla tomba del visionario Boltzmann. L’equazione dice il fluire del tempo come «il riflesso sfocato di una misteriosa improbabilità dell’universo in un punto del passato» (Rovelli 2017, p. 38). Le parole hanno però il potere di dare forma umana, bellissima e dolorosa, all’equazione; le immagini di trasformare la sfocatura in dissolvenza. La forma umana non si risolve, ma è in grado di sostenere l’incognita dell’orizzonte: «perché nei suoi occhi, lontano, in fondo allo sguardo, c’era quella particella di morte, perché?» (Duras 2002, p. 56).


Bibliografia

Anders G. (2008): La catacomba molussica, Lupetti, Milano

Duras M. (2002): L’amante, Feltrinelli, Milano.

Rossin F. (2016): Cinema e storia. Immagine d’archivio e uso politico nel cinema documentario, Feltrinelli, Milano.

Rovelli C. (2017): L’ordine del tempo, Adelphi, Milano


Filmografia

Anders, Moloussien (Nicolas Rey 2012)

Opera mundi ou le temps des survêtements (Nicolas Rey 1999)

Baba Vanga (Aleksandra Niemczyk 2016)

The first shot (Yan Cheng, Federico Francioni 2017)

Verso casa (Claudio Romano, 2017)

Viaggio a Montevideo (Giovanni Cioni 2017)

Window water baby moving (Stan Brakhage 1959)


Sitografia

Filmprojection21

Filmlabs