Mentre scrivo arrivano notizie sui vincitori del Festival di Locarno, oramai riserva di visioni scintillanti, libere, orientate verso spazi in fieri, arcipelaghi di sensi nell’oceano dei possibili significati; inferenze improvvise, insorgenze poste fuori dalle classificazioni libresche della Storia e dentro un dis-ordine geografico cinematografico, come un affiorare spontaneo di spazi-tempo, di atmosfere gonfie d'aria elettrica, un'eterogenesi diffusa di ciò che si chiama immagine, ecc., almeno da quando il direttore è Chatrian e allora accanto al monstrum Tourneur si possono vedere autori come Ossang (miglior regia), Russell, Cabeleira (menzione speciale a "Cineasti del presente"), lì dove già avevano regnato Serra, Zulawski, Costa, a cui si aggiunge ora Wang Bing (vincitore del concorso).

Appunto Cabeleira e il suo meraviglioso Verão Danado (Damned Summer), questo è il punto: un’estroflessione di vitalità, di innocenza, quindi di cinema, come non si vedeva da tempo, tanto più in un’opera prima; cinema di formazione nello spazio lirico e feroce della giovinezza, delle scorrerie notturne, tra la disperazione distillata in occhi neri spalancati sul mistero del mondo, delle donne, di un campetto scalcinato dove scalciare in odore d’archi (quasi l’uso pasoliniano di Bach), e l’allegria di avere ancora forze in corpo per andare, procedere, ballare al ritmo di techno: come una scansione, un'elettricità di cosmo.

La distillazione è anche della musica allora, della dimensione sonora in generale, che anzichè affiancare semplicemente il portato delle immagini, è campo semantico a sé, e per giunta prioritario, come avveniva già in Montanha di Salaviza, intriso di techno, ballo di corpi acerbi e ardenti, solitudini profonde, espressive, l’erotismo rappreso nelle penombre, nell’afrore del corpo adolescente, del sonno emesso dalla bocca. Tutto un nuovo cinema portoghese, vitale e dolente al tempo stesso, sonoro, colorato, chiaroscurale, che si declina non solo sul versante esistenziale e lirico (appunto Salaviza e Cabeleira, con le dovute distanze tra i due, e con altri autori che si muovono magari sul calco di Goncalves) ma anche su quello onirico, se si considera ad esempio la visionarietà dei corti di Carlos Conceição (già conosciuto a Cannes, così come lo era stato Salaviza, al tempo dei suoi cortometraggi) e d'altro canto, tutta quella parte di cinema portoghese che guarda a João Pedro Rodrigues.

Certo il Portogallo, il miglior nuovo cinema d’Europa: ma all’improvviso, da dove meno te lo aspetti spuntano altre schegge, aperture di esperienza in quattro dimensioni, baratri, apnee che ti portano a pensare al di là del nostro tempo, del nostro dramma collettivo, dentro questi sogni elettrostatici, impulsi provenienti da riserve di oblio, vaghe stelle dell’orsa. È il caso - è il caos, e tentativo di uscirne -, almeno, di Drift della tedesca Helena Wittmann, che si vedrà a Venezia74, nella Settimana della Critica (e se è vero che sto qui a decantare alcune visioni incandescenti, in protratta fermentazione, credo sia giusto, onesto, che parli anche di Drift, nonostante, anzi proprio perché, ho contribuito, con gli altri, a selezionarlo), e sarà probabilmente uno dei film del festival (insieme a Schrader, Wiseman, John Woo) perché è vertigine, galleggiamento opalescente, ipnosi in serie di bip, di pulsar rigurgitati da un abisso di materia puramente cinematografica.