1919 Quedlinburg (Germania). La guerra è finita, e Anna (Paula Beer), una giovane donna in lutto si reca al cimitero per porre dei fiori sulla tomba (vuota) del suo fidanzato caduto sul fronte. Un giorno si accorge di uno sconosciuto che a sua volta, di nascosto, svolge lo stesso pietoso rito: si tratta di Adrien, un francese (Pierre Niney), prima accolto con risentita ostilità dal padre e poi accettato da entrambi i genitori di Frantz, presso i quali lei ormai vive, per colmare di purissimo affetto il vuoto lasciato dall’amato.

Il nazionalismo dei compaesani, reso estremo dal doloroso disastro patito dai tedeschi con la fine del grande e disumano conflitto, è tutt’altro che propenso ad accettare l’ex nemico, il quale rievoca intanto i ricordi parigini di un’amicizia giovanile con lo scomparso, che era stata rinsaldata dall’amore per la pittura e dalla comune passione (che diventa, però, trucido “balletto sui cadaveri”) per l’arte del violino. Come nei due anziani, così, nell’animo di Anna, fa breccia questa storia amara e struggente, che, in lei, poco per volta fa maturare una schietta e tenera attrazione sentimentale per lo straniero. A questo punto Adrien avverte però l’insostenibilità della sua messinscena e rivela la verità alla donna: non è esistito mai alcun legame d’amicizia con Frantz prima della guerra, e in realtà egli aveva conosciuto lo sfortunato giovane proprio in trincea, il giorno in cui si era imbattuto in lui come nemico e lo aveva ucciso, necessariamente precedendolo nel tragico momento di usare l’arma di cui la patria lo aveva costretto a servirsi, nonostante il suo latente pacifismo (ma ancora più autenticamente pacifista era stato Frantz il cui fucile era scarico, mentre sul cuore portava la “rosa disseccata” del suo amore).

Per questo, per evitare di essere smascherato miseramente di fronte alla illimitata fiducia che gli era stata concessa dalla famiglia come sostituto del figlio perso, Adrien deve andar via e tornarsene a casa, promettendo di mantenere viva la quasi filiale relazione che aveva lenito tanta infelicità (gravosa e penosa). Ma Anna non dirà a sua volta la verità ai due vecchi: anzi, scriverà lettere false, nascondendo quelle vere che per un certo tempo continueranno a giungere dalla Francia: non dimentica tuttavia l’amore che l’aveva ormai presa per lui, e, allorché non le giungeranno più sue notizie, decide di recarsi a Parigi, dove lo cerca inutilmente presso l’orchestra dell’Opéra (per la sua professione di violinista), o al Louvre (dove ritrova l’inquietante quadro del Suicidé di Manet di cui le aveva parlato fantasticando dell’inesistente amicizia con Frantz), o, infine, in ospedale, e in un cimitero. In realtà, però scopre che Adrien si è eclissato per andare a vivere in provincia, nel castello di famiglia, e, non potendo abbandonare l’ossessione del ricordo, sta per sposarsi con un’amica d’infanzia, che il nazionalismo che imperversa, odioso, anche in Francia e l’ostilità della madre portano a preferire un’altra alla “tedesca”. Continuerà, così, a nutrire di menzogne le lettere che da Parigi, ormai assolutamente sola nel suo dolore e nella dissoluzione del nuovo sogno d’amore, persisterà a spedire al borgo di Quedlinburg, mentre l’autunno della vita si accompagnerà per lei ancora giovane, bella e liberata dall’austerità che si era imposta dalla morte di Frantz, all’enigmatica, frequente contemplazione al Louvre del capolavoro di Manet, che con allarmante paradossalità  le dà voglia di vivere.

L’ottimo film di F. Ozon, nonostante sia un remake della pellicola di Ernst Lubitsch Broken Lullaby (L’uomo che ho ucciso) del 1932 (a sua volta tratta dal lavoro teatrale omonimo scritto nel 1930 da Maurice, figlio del celebre poeta e drammaturgo Edmond Rostand), è capace di comunicare con freschezza e nitore di immagini la “serena malinconia” del suo intento poetico, e si avvale, tra l’altro, di una intensissima interpretazione della Beer e soprattutto della fotografia di Pascal Marti, la quale, trapassando con misura dal bianco e nero al tenue colore, accentua la tragicità dell’idillio. È questa malinconia che a sua volta conferma con tenerezza nient’affatto retorica la dimensione della menzogna cui non si sfugge, che è una costante propria del cinema di questo autore, come confermano anche i recenti lungometraggi di Nella casa e di Una nuova amica, nonché il film presentato con successo all’ultimo festival di Cannes (L’amant double, una storia che è ancora una suggestiva variante sull’identità nascosta e sulla dialettica realtà-finzione di personaggi e di luoghi). L’oscuro obbligo alla menzogna, appunto, è in Frantz delicatamente infiorato e portato per mano dalle note virtuose per violino di Philippe Rombi e dall’eco dei versi di Verlaine (non a caso avvicinato a Rilke e tanto amato dallo sventurato caduto), come si riverbera, straziante “linguaggio segreto”, dall’animo ferito di Anna sulla natura muta e tuttavia amorevolmente partecipe: «i lunghi singhiozzi/dei violini d’autunno/mi feriscono il cuore/con languore monotono./Ansimante e pallido,/quando rintocca l’ora,/rivedo/i giorni antichi,/e piango/e me ne vado al vento maligno/che mi porta di qua di là,/come una foglia morta».


Bibliografia

Frantz (François Ozon 2016)

L’amant double (François Ozon 2017)

L’uomo che ho ucciso (Broken Lullaby) (Ernst Lubitsch 1932)

Nella casa (Dans la maison) (François Ozon 2012)

Una nuova amica (Une nouvelle ami) (François Ozon 2014)