L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti.
(A. Breton, Manifesti del Surrealismo)


Eleonora Danco è un’artista capace di conquistare e attraversare diversi campi di espressione (teatro, poesia, cinema), affidando a ciascuno di essi una postura anarchicamente libera, distante da incrostazioni ideologiche ma sensibile alle intermittenze dell’esistenza. Se la sua poesia nasce «in quel momento violento che la avvicina alle cose» il cinema diviene «un altro modo per usare il corpo»1, per mostrarne lo struggimento, la tensione. A riempire lo iato fra dizione poetica e immaginazione visiva ci pensa il teatro, l’abitudine a re-citare il tempo, la memoria, lo schianto; per Danco stare in scena significa afferrare la vita, rintracciare la verità emotiva dei suoi personaggi.

Partita da una vocazione pittorica forte ha poi rimodellato il proprio talento in cerca di un’inclinazione che corrispondesse a uno spreco di energie, da intendersi come essenziale tecnica compositiva.

Mi piace prendere a calci quello che faccio. Quando vedo che viene bene, lo rompo tutto fino a che non sento la tensione sbilanciata delle cose. Sono processi lunghi. Far uscire le cose non è semplice, ma è in quella lotta in quel conflitto che non devi mollare. Spingere il pedale con te stesso. Mantenere il livello di scoperta costa. Devi pretendere ogni volta di più. (Danco in Gianeselli 2016)

Lungi dal lasciarsi incapsulare dentro gabbie definitorie, Danco rivendica un’espressività fuori dai canoni, libera di aggrapparsi alla «arroganza poetica» (Danco, Non siamo dei mostri. Conversazione con Marco Lodoli in Martone 2009, p. 91) del dialetto e di inventare una nuova grammatica filmica, lontana dai modi asciutti del documentario. La scelta di «scrivere al buio» per trovare nelle parole un po’ di luce è indicativa della specifica disposizione dell’autrice: l’arte è per lei un sentiero di ricerca e insieme un «atto di estremizzazione»2, necessari per ricondurre le emozioni a un grado di autenticità, seppur contraffatta3. Le sue opere sono allora «getti umani, […] che giungono a comporsi esteticamente per grazia e forza intuitiva in una forma autobiografica che sembra una fotografia scattata in movimento» (Martone 2009, retro di copertina).

È il movimento probabilmente la vera radice del discorso artistico di Danco, la scintilla di una performatività che tende a sbilanciare il corpo, ad alterarne ogni equilibrio in vista di un dis-orientamento fisico che si faccia carico di tradurre le intime pulsioni dell’umano. Sulla scena è soprattutto l’autrice-attrice a incarnare questa deriva, a riprodurre le pose e gli inciampi di personaggi in balia di storie e destini complicati: senza mai scivolare nel pericoloso alveo del teatro civile, i suoi spettacoli restituiscono i balbettii di figure in transito fra diverse stagioni della vita o inchiodate ai margini dell’esistenza, in ogni caso quel che conta è «la vita senza aggettivi, […] la vita comunque sia» (Lodoli, Non siamo dei mostri. Conversazione con Marco Lodoli in Martone 2009, p. 93)4.
L’esuberanza gestuale e vocale di Danco ha pochi referenti nella scena contemporanea, può somigliare per spregiudicatezza e ingegno ludico a Rezza-Mastrella ma in fondo declina un paradigma singolarissimo per vivacità, rabbia e potenza. Il suo pathos randagio immette lo spettatore dentro un gorgo di fiati, di urla, di strappi mentre la recitazione pare modularsi su una sorta di elasticità biomeccanica di stampo postmoderno: il corpo è strumento flessibile, resistente, pronto a mimare i sussulti dell’anima, a piegarsi sotto i colpi di una regia demiurgica. L’energia espressiva messa in atto dalla performer raggiunge effetti di felice complessità in cui ogni elemento concorre a disarticolare il tempo e lo spazio secondo un modello di discontinuità e vigore che immette l’artista nel novero «del giovane teatro arrabbiato». Inseguendo una poetica dello strazio5, in grado però di accogliere una feconda ‘parte di gioia’, Danco si propone come autentica outsider nel panorama contemporaneo, anche se ormai il suo stile è stato ampiamente riconosciuto e apprezzato.

La tensione elettrica sperimentata sul versante teatrale caratterizza anche l’esordio cinematografico di Danco, un’opera che fin dal titolo denuncia un atteggiamento paradossale nei confronti dell’esistenza, quasi uno scherzo dadaista. N-Capace (2014), presentato con successo alla trentaduesima edizione del Festival del cinema di Torino e designato come miglior film 2015 dal Sindacato Critici Cinematografici Italiani, «sta per Non capacità ma anche capacità. Intendo a vivere, a saperci fare con la realtà» (Danco in Vaccara 2015); tale contrapposizione non sembra risolversi del tutto, perché il film rilancia l’idea che stare al mondo sia comunque un’eterna lotta. L’approdo all’orizzonte della settima arte avviene senza scarti:

È stato un passaggio naturale per me. Io creo un teatro molto simile come linguaggio, come poetica espressiva a questo film. Anche nel mio teatro c'è molta libertà espressiva dentro un grande rigore e semplicità. Ma anche molta ironia, vitalità. Ho solo spostato il modo tecnico pratico. La necessità era la stessa. (Ibidem)

Se l’approccio alle cose rimane il medesimo a cambiare è il rapporto fra soggetto e oggetto della visione. Rispetto alla univocità della scena, in cui lei è l’asse del discorso sotto tutti i punti di vista (scrittura, recitazione e regia), col cinema guadagna una lateralità imprevista che le consente di giocare con i piani e con le figure del montaggio, liberando così il suo corpo dai vincoli di un protagonismo per lo più assoluto. Grazie alle diverse dinamiche diegetiche, e a un intuito non comune, Danco arretra dietro l’obiettivo della macchina da presa, sceglie di inquadrare un coro di adolescenti e di anziani di Terracina (tra cui compare anche suo padre, personaggio matrice insieme al fantasma materno). Non rinuncia però del tutto a essere in campo, destinando a se stessa la parte di Anima in pena, controfigura che si aggira per gli spazi vuoti della sua città natale, per certi scorci di Roma (San Lorenzo, Testaccio, largo Augusto Imperatore), trascinando un letto («che puzza di cose che non tornano più») e un piccone, segni di una concreta dis-appartenenza alla soglia del reale. Anima in pena è così allo stesso tempo fuori e dentro il racconto: la sua voice over dà ritmo e respiro alla narrazione mentre il suo vagabondaggio muto esalta la componente surrealista del testo, con interludi performativi che risolvono in immagine la tensione vitalistica di molti monologhi. Eleonora Danco attraversa così lo schermo mimando l’irruenza di un’antica vestale, cinta da una tunica bianca, e la smemoratezza di una sonnambula, stretta dentro un pigiama scolorito; in entrambi i casi la sua flânerie è indice di un’ebbrezza dionisiaca, di un entusiasmo che scioglie i muscoli, e ci ricorda che il corpo è la cifra di tutto.

Sbilanciamenti

Si deve chiamarla pigrizia se si lasciano sparpagliate tutte le parti di sé, dovunque si trovino?
(Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio)


«Questo film può sembrare spontaneo ma non lo è» (Danco in Paternò 2014): la dichiarazione della regista non sembra lasciare scampo e del resto basta spingersi dentro le maglie del racconto per capire che la verità dei ‘testimoni’ è affidata a un tessuto visivo fortemente artefatto, che rompe gli argini del realismo tramite una punteggiatura poetica fatta di pause, riprese ed enjambement nonché un alto tasso di astrazione teatrale. Ha ragione Stephen Dalton nel definire N-Capace «a piece of cinematic perfomance art», sottolineandone il carattere ibrido, a mezza via fra pura visionarietà e poesia dei sensi; in questa chiave si capisce l’accezione danchiana di «intervista-performance» (Danco in Vaccara 2015) come strumento per forzare la logica della rappresentazione. A ben guardare, l’opera si muove fra due poli solo apparentemente distanti: una sorta di «teatro espanso» (Caterina 2015), che pervade gli spazi e contagia chiunque si trovi a condividere il margine del quadro, e vere e proprie «installazioni cinematografiche» (Danco in Vaccara 2015), ispirate alla pittura metafisica di De Chirico con esibiti richiami al Buñuel avanguardista e a certo onirismo di stampo felliniano.

L’atmosfera del film riluce poi di una patina pasoliniana, da cogliersi non solo in riferimento ai temi oggetto di conversazione (il sesso, l’età, il rapporto con la famiglia e con l’istruzione) ma anche per il rapporto che l’io narrante instaura con i luoghi: Roma e Terracina sono architetture dell’anima e insieme riflesso di un’italianità ora sguaiata e cafona ora invece dimessa, immobile e reietta. Gli ambienti si aprono spesso a soluzioni formali inattese: le inquadrature in camera car del lungomare laziale, ad esempio, mimano lo scarto fra le memorie dell’infanzia, adagiate sul bagnasciuga, e i ritmi accelerati della ‘meglio gioventù’ degli anni zero, assediata da nuovi idoli, da un diverso rapporto con le cose; mentre la macchina da presa fugge via veloce, lasciando dietro di sé solo qualche scomposto fotogramma, si sente che qualcosa si è perduto per sempre e non resta che «ricominciare daccapo /da dove non c’è certezza e il segno è disperato» (P.P. Pasolini, La rabbia, in Siti–Zabagli 2001, p. 387.).

Il «senso dei luoghi» si misura soprattutto in relazione ai corpi dei protagonisti, scelti dopo un casting meticoloso tra gli anziani e i giovani di Terracina e un gruppo di adolescenti della periferia romana. Eleonora Danco decide di dar voce a chi sta fuori dal sistema produttivo e si trova a vivere la dimensione dell’attesa; se gli anziani fanno i conti con le opere e i giorni della propria esistenza, a un passo dalla fine, agli adolescenti tocca misurarsi con l’ansia del futuro: gli uni e gli altri, pur se da posizioni diverse, condividono l’incertezza di una condizione che non sembra dar tregua, anche se rimane comunque qualche spiraglio di divertita spensieratezza. Tutti i personaggi del film, incalzati dalle sferzanti domande di Anima in pena, si abbandonano a micro-performance che assegnano all’opera uno statuto sui generis; fin dalle prime battute assistiamo a un carosello di pose, di sguardi, di gesti che scavano la superficie dell’immagine, proiettando le figure in un teatro en plein air in cui è facile perdere l’equilibrio, ritrovarsi a rotolare per terra, a cantare, a fischiare e abbaiare. Nelle azioni ‘eseguite’ dai ragazzi c’è qualcosa che ricorda lo spirito sagace delle pantomime o i riti di un cabaret postpop, sfrangiato e vitale; quando invece a muoversi sono gli anziani prende il sopravvento una lunare verve giullaresca, anche se a tratti compare una smania tellurica, il bisogno di un primigenio contatto con la natura.
È difficile sintetizzare la complessa disposizione delle figure nello spazio perché la trama procede a strappi, a sbalzi, alternando discorsi sull’identità, sul passato, sulla religione e sul desiderio senza che si intraveda un orizzonte di senso. A rendere efficace il racconto è il peso dei corpi: la leggerezza sconcertante dei ragazzi, con i tratti tipici dell’adolescenza, cede il passo alla serena gravità dei vecchi, fermi nella consapevolezza di aver agito nel rispetto di regole non scritte ma condivise (anche se a volte spietate).

Le risposte sono spesso spiazzanti, mettono in forma destini che non crediamo possibili per eccesso di sincerità o ferocia. I volti delle donne di Terracina sono mappe cangianti in grado di assorbire tutto il bene e tutto il male del mondo, le rughe sono sentieri di verità e saggezza, lo sguardo di Danco indugia su ogni angolo della faccia di Mafalda e delle altre protagoniste per far emergere la profondità di una coscienza in grado di sopravvivere agli assalti della fortuna. Nel coro degli anziani spicca l’eroismo fragile del padre della regista, afflitto dalla perdita della moglie e costretto a reinventarsi un’esistenza a fianco della badante Cristina, creatura ‘extraterrestre’ che lo accudisce e lo consola, senza coltivare troppe aspettative per sé. La scena in cui entrambi indossano delle tute spaziali, pur restando confinati nello spazio della casa, crea un attimo di straniata sospensione, in cui sfidare la legge di gravità e vincere la solitudine a passo di danza. Nel caso della banda dei ‘pischelli’ a colpire è la determinazione di alcuni nel profilare il proprio futuro, la gentilezza sorniona di Giacomo che immagina un Paradiso di angeli vestiti di bianco ma con la pelle di tutti i colori, l’insofferenza per lo studio, l’entusiasmo e la vergogna per i primi rapporti intimi; la fede, la religione, la famiglia sono imposture pagate a caro prezzo, mentre il lavoro è allo stesso tempo un miraggio e un possesso sicuro.
Lungi dal volersi avvitare intorno a spinose questioni sociali il film scorre secondo una partitura libera, scandita dalla musica di Markus Archer che riesce ad assecondare gli impulsi segreti delle immagini, la tensione poetica delle inquadrature, orientate secondo una logica compositiva remota e a tratti inaccessibile. C’è una linfa sotterranea che agglutina i piani determinando una catena di toni e sovratoni, pause e inarcamenti. La sfasatura, lo sbilanciamento tra domande, risposte e azioni fisiche fa sì che ogni istante risulti essenziale mentre «quel che avviene fra le giunture» (Bresson 2008, p. 26) prepara il sogno di una felicità nuova.

Cornici

L’arte non dovrebbe essere utilizzata come una lamentela “cosmica” nei confronti di tutto, dovrebbe essere una forma di sincerità, nel senso più profondo del termine.
(J. Kerouac, Un mondo battuto dal vento)


Nonostante N-Capace poggi su un’architettura fluida, frammentata e disinvolta è possibile individuare la presenza di una struttura ad anello, che recupera alcuni passaggi di Nessuno ci guarda, «atto unico ispirato alla pittura di Jackson Pollock» (Danco in Martone 2009, p. 31). Se la partitura teatrale tratta «la scrittura come fosse colore» (Ibidem), prologo ed epilogo del film traducono l’aspirazione a colmare la distanza col tempo dell’infanzia, quando il rapporto con la madre bruciava la pelle più del sole ma soffiava sulla girandola delle emozioni. La morte della madre segna un punto di svolta nella vita e nella carriera di Danco, il nucleo originale del film (non a caso risalente a molti anni prima dell’effettiva realizzazione) è da rintracciare nel bisogno di elaborazione del lutto, oltre che nella volontà di esplorare l’intimità di luoghi e personaggi.
L’incipit di N-Capace riprende le prime battute dell’atto teatrale, dinamizzando il gioco scenico con il recupero del fantasma materno e con l’ambientazione sul lungomare di Terracina. Il ritorno dell’ombra della madre, interpretata da un’attrice che rimane senza volto, fa vibrare la scintilla del ricordo («solo atmosfera interiore» – come scandisce più avanti la voce fuori campo) e trasforma il mare in soglia sensibile fra presente e passato. A segnare la differenza fra madre e figlia è innanzitutto il colore degli abiti, a cui si aggiunge la postura del corpo: Anima in pena indossa un pigiama bianco, si muove in modo convulso, chiede ossessivamente di poter fare il bagno e si avvicina al bordo dell’acqua; la madre è stretta in un abito nero, rimane immobile, piantata sulla sabbia e non vuole che la figlia si immerga. Si tratta di una sequenza rapida, sfuggente, che getta su tutto il film il riflesso dell’autobiografia, e con essa la trasparenza del reale.

L’eco sommessa dell’infanzia risuonerà in altri frangenti, soprattutto nel dialogo ravvicinato fra Anima in pena e il padre, occasione per un bilancio esistenziale che pone sul piatto della bilancia rancori e fraintendimenti, solitudini e affetto. Eleonora/Anima in pena sembra divertirsi a provocare il genitore, a spingerlo sull’orlo di confessioni non richieste (i fuori onda sono sintomatici del gioco di mascheramenti e rivelazioni fra i due), ma poi la commozione giunge a saturare lo schermo, come quando il padre dice di non piangere al ricordo della moglie, ma in realtà lo vediamo in primo piano strofinarsi gli occhi. Anche la scena del cimitero si aggiunge alla lista dei ripiegamenti domestici, in cui non è facile stabilire se prevalga la pietà o l’incomprensione.
Di certo il finale, ripiegando sulla cornice di Nessuno ci guarda, distilla attimi di rara intensità che chiudono i conti col passato. È la vibrazione della voce narrante a far breccia nella mente e nel cuore di chi guarda, increspando la colonna visiva grazie al riverbero delle parole dell’atto unico. Mentre Anima in pena si allontana di spalle dal cimitero la sua voce scandisce parole cariche di pathos, tratte pur con lievi modifiche dallo spettacolo.

E che confusione, mamma…
Che confusione fuori e dentro di me, che mi sbatte da una parte all’altra.
Ma tanto io ho tutta questa memoria negli occhi che mi salva la vita.
Con tute le lacrime mie, le più belle lacrime mie.
Vedrai mamma, andrà tutto bene.

Come nel finale della scena, Anima in pena «si lancia nel vuoto» (Danco in Martone 2009, p. 51), e la sua corsa si arresta sulla spiaggia, a due passi dall’acqua: la macchina da presa stacca un attimo prima che la protagonista possa fare il bagno eppure la pienezza dello slancio vale a mimare il superamento del divieto. Se sul palco la libertà finalmente conquistata rimane per certi aspetti costretta dentro le pareti buie della sala, nel cinema panico di Danco la comunione con la natura rinnova il prodigio del tempo ritrovato e pretende di «andare fino in fondo a queste immagini» (L’évolution du décor in Artaud 1961, p. 14).


Note

1 Queste dichiarazioni sono tratte da un’intervista rilasciata nel maggio del 2007 presso il Teatro India, in occasione del debutto di Ero purissima.

2 Si tratta di dichiarazioni rese da Danco in occasione della ventesima puntata di Retroscena, in dialogo con Michele Sciancalepore.

3 La patina stilistica di Danco poggia sul delicato equilibrio tra realtà e artificio: i suoi monologhi, pur aderendo allo slang delle borgate romane, sono il frutto di un estenuante labor limae, di un denso corpo a corpo col linguaggio; la verità della scena è quindi ‘rimediata’ attraverso il filtro della tecnica (di scrittura e di azione), e lo stesso può dirsi per la tessitura visiva del lungometraggio N-Capace.

4 In dialogo con Michele Sciancalepore, nelle ventesima puntata di Retroscena, Danco ribadisce la centralità dell’equazione teatro-vita e disegna, grazie alla complicità con il suo intervistatore, un ritratto d’artista variegato e intrigante. È possibile vedere un frammento dell’intervista su youtube. 

5 Ad essere straziato è innanzitutto il corpo del testo, per quell’incessante lavorio in cui consiste il processo di composizione dell’artista: non si tratta quindi di opere soggiogate dalla violenza o dalla disperazione, ma dell’invenzione di un metodo e di uno sguardo che presuppongono la ripetizione ossessiva di frasi, gesti e battute nonché lo ‘sfinimento’ come essenza del linguaggio della scena.


Bibliografia

Artaud A. (1961): Oeuvres complètes, II, Gallimard, Paris.

Bresson R. (2008): Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia.

Martone M. (2009): Ero purissima, Minimum fax, Roma.

Siti W. – Zabagli F. (a cura di) (2001): Per il cinema, I, Mondadori, Milano.


Sitografia

Caterina E. (2015): N-Capace, di Eleonora Danco, «Sentieri selvaggi», 17 marzo.

Gianeselli I. (2016): Non ci sono formule per trattare l’uomo, «oubliettemagazine.com», 6 luglio.

Paternò C. (2014): Eleonora Danco: comizio d’amore e di morte, «Cinecittà News», 24 novembre.

Vaccara S. (2015): Eleonora Danco e l’arte del cinema capace di tutto, «La voce di New York», 10 giugno.