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Nell’inserire Dillinger è morto nel suo dizionario dei costumi per il cinema, Enrico Giacovelli si preoccupava che il gesto risultasse provocatorio e si soffermava a spiegare le ragioni della scelta: «(...) la camicia bianca e i pantaloni neri dell’ingegnere-designer Michel Piccoli azzerano la funzione classica degli abiti, che diventano una sorta di maschera neutra, di schermo senza colore su cui va a depositarsi come una patina l’alienazione dell’uomo moderno» (Giacovelli 2006, p. 125).


Una scelta acuta e doverosa che non avrebbe bisogno di giustificazioni: parlare di costume nel cinema di Marco Ferreri è una provocazione. Ma è una provocazione pertinente, che si addice all’impertinenza di un provocatore che ha sregolato i codici della scrittura e della messa in scena, rimanendo tuttavia consapevole di non star attuando un discorso rivoluzionario («La rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo i film»1). Della dinamica fra integrazione e isolamento di un cineasta nel mondo, del suo impegno sociale, del suo rifiuto antiborghese, del ruolo dell’arte all’interno del sistema, si è parlato fino a farne un discorso nostalgico o superato, mai risolto (l’Olivier Assayas del meritevole Après Mai, 2012, rievocava il dibattito filmando il fervore passato al cospetto dell’atrofia del presente); in Ferreri, in cui «il vedere viene prima dell’ideologia» (Masoni 1998, p. 12), l’immediatezza comunicativa, l’emergenza del racconto, l’attitudine recalcitrante sono prima di tutto scardinamento ideologico e poiché risulta sempre faticoso definire il regista fuori da un formulario di aggettivi stridenti, diciamo pure che nei suoi film c’è quanto meno la certezza univoca della destabilizzazione. Tale infrangimento etico e sociale passa sempre attraverso il corpo, e il corpo, dal peccato originale in poi, passa sempre attraverso l’abito.

Il dato provocatorio in un discorso di costume design nel cinema di Marco Ferreri deriva da due fattori principali, il primo, la tendenza al déshabillé che in alcuni film sembra perfino suggerire la superfluità dell’abito; il secondo, la frequente assenza di un dato sartoriale da cui emerga il costume memorabile, la confezione raffinata, l’estro del disegno, in favore di un senso di precarietà in cui assumono valore costumistico gli asciugamani intorno alla vita, le lenzuola, le tende.

Non è segnale di una natura improvvisativa nella scelta degli abiti di scena, ma di una duttilità in cui più che mai il costume è un codice e risponde a un’esigenza comunicativa ben più che estetica. Le due cose tuttavia non si escludono: nel 1964 La donna scimmia porta la firma di un maestro quale Piero Tosi che veste con memorabile finezza una parabola di arricchimento immorale che dall’abito modesto, conventuale, passando per un parodistico colonialismo circense, arriva al seminudo controluce degli striptease parigini.

Travestimenti e vesti da camera sempre più discinti, nonché l’abito da sposa della grottesca, sfiancante e straordinaria sequenza matrimoniale, crescono in raffinatezza in contrasto perturbante con il corpo repulsivo di Maria (Annie Girardot), che pur sempre in un letto di ospedale andrà a finire, prima di tornare post-mortem al circo. Ancora, nel 1972 in La cagna Catherine Deneuve indossa un tailleur bianco con capeline (cappello a tesa larga) firmato Yves Saint Laurent, che si affianca a Gitt Magrini, già costumista per Antonioni (L’Eclisse, Il Deserto Rosso), Godard (Due o tre cose che so di lei), Bertolucci (Il Conformista, Ultimo tango a Parigi), per citarne soltanto alcuni e che tornerà a lavorare con Marco Ferreri per La grande abbuffata (1973) e L’ultima Donna (1976).

altNon manca il film in costume rivisitato come parodia di “costume” e rilettura storica attualizzata: è Lina Nerli Taviani a curare gli abiti di Non toccare la donna bianca, 1974 (dopo Il seme dell’uomo, 1969 e L’udienza, 1972) in cui sempre Catherine Deneuve appare in una candida mise borghese, metaforica e non, per poi svelare nel proprio samaritanesimo un’inedita capacità di prendere in braccio un uomo (Marcello Mastroianni) e portarlo a letto – è l’abitudine a soccorrere giovani soldati che garantisce tanta tempra fisica, si fa tutto per la causa.

È affascinante l’anacronismo dei bei completi estivi da giorno, che non ricalcano affatto l’abbigliamento di una donna al tempo della guerra di secessione americana, ma hanno piuttosto una linea primonovecentesca, di gusto edwardiano, poco costrittiva e in direzione dell’emancipazione – del resto il Generale Caster chiama «la sua donna» una pin-up della Coca-Cola, prodotto che comparirà sul mercato un decennio dopo la sua morte. Il rimescolamento ironico e satirico delle epoche è dunque evidente e passa anche attraverso l’abbigliamento che rimarca la presunta “intoccabilità” del titolo accentuando le divisioni di classe e di razza, travasando la preoccupante Storia americana in un già preoccupante eurocentrismo.

Ma il sodalizio più duraturo si attua con Nicoletta Ercole, un quindicennio di collaborazione dal 1978 di Ciao Maschio fino al 1993 di Diario di un vizio (resta fuori l’ultimo lavoro, Nitrato d’Argento, 1996, un anno prima della morte del regista). La fitta filmografia di Nicoletta Ercole, tuttora attiva, comprende una varietà di produzioni cinematografiche e televisive in cui ricorrono commedie di Pieraccioni, De Sica – Christian –, Vanzina, insieme a L’ultimo bacio e a La sconosciuta e ad almeno una decina di titoli ferreriani. Dal film d’autoreal dramma italiano (in tutti i sensi) al cinepanettone, un fattore su tutti risulta evidente: la versatilità; la capacità di muoversi agilmente fra i generi e gli stili, dall’abito casual a quello sartoriale (talora su realizzazione della celebre sartoria Tirelli). Del resto, Luciana Marinucci, prima costumista italiana di Ferreri dopo Ruperta Valentin del periodo spagnolo, insieme a L’ape regina (1963, con Tognazzi in un pigiama a righe che ricorda quello indossato in La donna scimmia), Marcia Nuziale (1965) e L’uomo dai cinque palloni (1965), comprende nella sua filmografia titoli eterogenei quali La vergine, il toro e il capricorno (Martino, 1977) e Italiani brava gente (De Santis, 1964).

In questa galleria di costume designers, che non esaurisce tutti i film del regista né tutti i collaboratori, limitandosi ai nomi ricorrenti, sono altre ricorrenze a interessarci, quelle che attraversando quasi quarant’anni di cinema ferreriano ne individuano i motivi dominanti, attraverso dettagli significativi. Senza la pretesa di esaurirli, proviamo ad elencarne alcuni:

- La lingerie.
Preludio del nudo e del contatto carnale (La Carne, 1991, appunto, con la candida Dellera vestita ton sur ton) che, insieme agli abiti da camera, evoca il nucleo domestico e il letto, entrambi luoghi claustrofobici e mortuari.
- Le lenzuola.
Avvolte intorno al corpo sono l’abito improvvisato dei contesti intimi, ma anche il sudario, l’azzeramento dell’individuo che comincia occultandolo alla vista (Hanna Schygulla, Eugenia in Storia di Piera, si auto-mummifica nel letto in preda a una crisi; (Anita – Pallenberg – in Dillinger è morto è già “sepolta” da più cuscini mentre dorme nel proprio letto, dove verrà uccisa); nel rito di uccisione cannibale in Come sono buoni i bianchi Michele Placido e Maruschka Detmers – Michele e Nadia, Adamo ed Eva – sono avvolti in due teli e distesi a terra, la mente annebbiata da una bevanda che hanno sorbito: con loro, tutta la caritatevole ipocrisia occidentale e il sogno d’amore edenico muore, imbozzolato e semicosciente, come l’uomo contemporaneo.
- Il panno.
Grado minimo di vestizione, da iconografia adamitica o cristologica, quindi apocalittica (Il seme dell’uomo, 1969); asciugamano che copre l’itinerario dal bagno al letto, dal letto alla cucina, sintomatologia del vagare (L’ultima donna, Dillinger è morto – in quest’ultimo il capo assomiglia perfino a un pareo o a un indumento femminile, suggerendo una dimensione esotica e grottesca).
- Il velo.
Accessorio sul quale Occidente e Medio Oriente si confrontano e si dividono. La funzione sociale del niqab come segregazione sessuale e il suo conseguente rifiuto, legato anche a ragioni di sicurezza, oltre che etiche e culturali, si accompagna nell’immaginario occidentale a una connotazione sensuale, assimilabile in parte alla castità rappresentata dal velo monastico e alla sua deriva feticistica. In Ferreri il gusto verso il corpo esotico è un’appropriazione indebita e superficiale, oppure un deliberato sfruttamento. Maria in La donna scimmia, portata allo zoo a imparare il comportamento degli scimpanzé e, più tardi, dall’esperto di turno che tenta di approfittarne, indossa un saio e ha il volto coperto. In seguito, sottratta al convento, sfila in abito e velo da sposa. Quest’ultimo è un’altra raffigurazione dell’utopia fallimentare ferreriana – in L’ultima donna è una tenda a simulare abito e velo e Ornella Muti più che adornata ne è avvolta (con la funzione del panno di cui sopra), mentre in Marcia nuziale (1966) è tutto il film a tematizzare lo sgretolamento dell’istituzione matrimoniale –; in I Love You (1986) Christopher Lambert agghinda la sua amante-portachiavi con una maschera niqab, mentre in TV si parla dell’«antologia del sopra e sotto della donna», e la donna inquadrata da nera diventa bianca grazie a un tocco di polvere da sparo. Ancora, in Come sono buoni i bianchi Nadia Detmers si sente dare della scema per aver indossato una sciarpa a mo’ di nijab.

altInfine, il bianco. Anticamera della trasparenza, dunque della nudità, è la replica del corpo occidentale e del suo esito ultimo, quello del dissolversi. Colore virginale e funereo, si presta a chiudere il cerchio congiungendo l’inizio e la fine. La sua ricorrenza nella filmografia di Ferreri è evidentissima, come la varietà del suo impiego – oltre ai già citati veli, lenzuola, abiti storici, indumenti intimi, non possiamo dimenticare, fra gli altri, il peplo di Piera adulta, splendida Isabelle Huppert in Storia di Piera e tornare dunque alla camicia di Michel Piccoli in Dillinger è morto, film i cui costumi non hanno attribuzioni nei credits. Il candore è non solo visivamente, ma anche tematicamente e perfino lessicalmente ricorrente: Come sono buoni i bianchi, Non toccate la donna bianca, «Bianca e splendente va la novia» canta la sposa-scimmia Maria, «un pelo bianco, è l’inizio della fine!» sentenzia Depardieu con la sua ultima donna.

Fra abito precario e abito sartoriale, Marco Ferreri va assecondato (e forse sopportato) in direzione delle sue costanti e delle sue mutevoli richieste, a volte così imprevedibili da fare del film un “happening” – così Nicoletta Ercole in Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro (Mario Canale, 2007).

Sempre Nicoletta Ercole ci parla anche di colore: «Non c’è film di Marco, se ci pensate, in cui non ci sia il colore del sole, l’arancio, il giallo forte... l’arancio c’è in tutte le sue forme». È vero. È proprio su uno sfondo rosseggiante da crepuscolo africano che Luigia – Sabrina Ferilli – dice a Benito – Jerry Calà – «sono la tua rondine pura». È vestita di bianco, da sposa.

Nicoletta Ercole non cita il bianco. Del resto, non è neanche detto che sia un colore e non avrebbe comunque senso se non in relazione alle altre tonalità. Quel colore del sole, arancione, giallo, rosso, è un contrasto vitale, e mortale, come l’utopia della fuga – dai bianchi.


Note

1 Così Marco Ferreri intervistato da Adriano Aprà (1969; riportato da «Filmidee»).


Bibliografia

Giacovelli E. (2006): Sotto il vestito... cinema! – 100 anni di costume e moda per il grande schermo, Gremese Editore, Roma.
Masoni T. (1998): Marco Ferreri, Gremese Editore, Roma


Sitografia

Aprà A. (1969): Il cinema non serve a niente. Intervista a Marco Ferreri, in «Filmidee», 16 luglio 2013


Filmografia

2 ou 3 choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei) (Jean-Luc Godard 1967)

Après Mai (Olivier Assayas 2012)

Il Conformista (Bernardo Bertolucci 1970)

Il Deserto Rosso (Michelangelo Antonioni 1964)

Italiani brava gente (Giuseppe De Santis 1964)

L’Eclisse (Michelangelo Antonioni 1962)

L’ultimo bacio (Gabriele Muccino 2001)

La sconosciuta (Giuseppe Tornatore 2006)

La vergine, il toro e il capricorno (Luciano Martino 1977)

Marco Ferreri, il regista che venne dal futuro (Mario Canale 2007)

Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci 1972)


Filmografia di Marco Ferreri

La donna scimmia (1964)

Marcia nuziale (1966)

L’uomo dei cinque palloni (1968)

Dillinger è morto (1969)

Il seme dell’uomo (1969)

L’ape regina (1963)

L’udienza (1972)

Liza (La cagna) (1972)

La grande bouffe (La grande abbuffata) (1973)

Non toccare la donna bianca (1974)

La dernière femme (L’ultima donna) (1976)

Ciao maschio (1978)

Storia di Piera (1983)

I Love You (1986)

Ya bon les blancs (Come sono buoni i bianchi) (1988)

La carne (1991)

Diario di un vizio (1993)

Nitrato d’argento (1996)