altCi sono figure che ritornano con una certa frequenza nella storia del cinema. C’è il Vampiro, ad esempio, che puntualmente riappare sullo schermo per placare la sua irrefrenabile sete di sangue; c’è il Super-Eroe, chiamato a difendere l’umanità contro nemici d’ogni tipo; c’è il Libertino, eterno seduttore; c’è la Bestia, c’è l’Alieno, c’è il Cyborg, per limitarci ai profili più noti. Si tratta di figure archetipe, spesso provenienti dal mondo della letteratura, del teatro o dei fumetti, che il cinema ha saputo far sue, plasmandole e sviluppandole secondo le proprie esigenze. Ma cosa si nasconde dietro questo loro costante, perenne ritorno?








Nel suo ultimo libro, Metamorfosi dei corpi mutanti (Timía Edizioni 2016), Alessandro Cappabianca affronta la questione da una prospettiva insolita e trasversale, prendendo in considerazione una serie di «creature cinematografiche» e ragionando in particolare sulla loro propensione a «divenire-altro». La tipicità dei casi studiati non deve trarre in inganno: il lavoro dell’autore non si configura come un’analisi approfondita di questi “mitici” personaggi, né tantomeno dei film o dei generi cui è possibile ricondurli; pur considerandoli uno per uno, nello specifico, il critico li osserva sempre attraverso un filtro speciale, impiegandoli in un discorso che riguarda il cinema nel suo complesso e che ha come oggetto principale il fenomeno delle metamorfosi. L’inizio del testo è folgorante:

«La prima metamorfosi operata dal cinema è quella di trasformare i corpi in spettri senza volume, capaci di riapparire anche dopo la propria morte e condannati a ripetere sempre gli stessi gesti» (p. 6).

In linea con quanto sostenuto da Derrida, il cinema ha il potere di assicurare la sopravvivenza assoluta, a patto però di rendere i soggetti filmati dei simulacri e di costringerli a un’infinita reiterazione di pose, battute, espressioni, movenze. Qualcosa che deriva in primo luogo dalla natura meccanica del mezzo cinematografico. Tale condizione, tuttavia, non implica necessariamente la mera riproposizione dell’identico: pur nella ripetizione, almeno in certi casi, il film può comunque divergere, essere altro da sé. Tutto dipende, secondo Cappabianca, «dalla pregnanza del gesto, dalla sua “verità”. Un gesto è “vero”, quando ha la capacità di aprirsi, restando identico (riprodotto meccanicamente) a una quantità di possibili interpretazioni. Insomma, anche se fissato per sempre, il gesto vero proietta qualcosa oltre se stesso» (p. 7).

La ripetizione insita nel film si riverbera nella storia del cinema. In questo oceano ormai sconfinato, le immagini si riproducono continuamente, e così sopravvivono1. Dal fondale riemergono figure già viste in precedenza, sebbene appaiano spesso mutate nella forma. Ciò che interessa Cappabianca, come detto, è proprio il processo metamorfico mostrato e messo in atto dal cinema stesso. Lavorando sul tempo, infatti, l’arte cinematografica è quella che più d’ogni altra ha la facoltà di cogliere e registrare le progressive fasi della mutazione; avvenimento che nel film «implica di solito il drammatico confronto con l’altro come non-umano, ossia col bestiale, il mostruoso, l’artefatto» (p. 11), ma che in fondo riguarda ogni organismo: «mutante è qualunque corpo, in ragione del passaggio del tempo» (ibidem).

La ricerca del critico prende le mosse da Ovidio, arrivando ben presto a coinvolgere anche Klossowski, Kafka e soprattutto Deleuze. Il concetto di divenire-altro è infatti spiegato a partire dall’accezione che ne dà il filosofo francese, il quale pone l’accento sull’idea di contaminazione: «Cos’è dunque il divenire-altro? La sostituzione può procedere per parti, ma non si ferma a questo. La metamorfosi finisce per cancellare i confini, ma nell’attesa li rende porosi e permeabili. Divenire non è altro che contaminazione dell’essere, che prende quasi sempre, nel cinema, la forma di una metastasi – metastasi che produce l’accavallarsi delle metamorfosi, più o meno mostruose, fino all’azzeramento dell’identità, e quindi all’annullamento della possibilità stessa di considerarsi “divenienti”» (p. 13).

Uno dei primi profili esaminati nel libro è quello del Lupo. L’autore considera due pellicole: L’uomo lupo di George Waggner, uscita nel 1941, e il suo remake del 2010, Wolfman di Joe Johnston. La metamorfosi che si compie nel primo film si ripete identica nel secondo: un uomo diventa lupo mannaro. Ciò che diverge, però, è l’aspetto del protagonista, la sua forma fisica (la ragione, banalmente, è dovuta innanzitutto alla diversità degli interpreti, rispettivamente Lon Chaney Jr. e Benicio del Toro). Da un certo punto di vista, quindi, il suo corpo ha subito una doppia mutazione – una intradiegetica, un’altra extradiegetica – ma ciononostante resta pur sempre lui, distinguibile chiaramente per determinate caratteristiche2. Lui chi, però? Che cosa si nasconde sotto questo corpo doppiamente mutante? In che modo è stato influenzato dal passaggio del tempo? È giusto parlare di originale e di copia? Domande di questo tenore sottendono l’intero studio del critico, non restando circoscritte al solo caso qui citato a titolo di esempio. Il fenomeno del remake, d’altra parte, torna particolarmente utile a Cappabianca perché in quest’ambito «la relativa persistenza delle metamorfosi è in grado di mettere ancora più in evidenza (…) le sottili o eclatanti variazioni cui [le figure] sono sottoposte non tanto dai perfezionamenti tecnologici, quanto da un diverso “spirito dei tempi” (del quale, certo, i perfezionamenti tecnologici costituiscono parte integrante)» (p. 12).

Lo studio del critico abbraccia un periodo molto esteso (potenzialmente l’intera storia del cinema, da Méliès in poi) e tiene conto del progressivo miglioramento tecnico delle metamorfosi filmiche. Ciò però non significa che il suo percorso di ricerca segua un ordine cronologico. Al contrario, quest’ultimo si sviluppa in maniera piuttosto scomposta e disordinata, quasi istintiva: come se fosse esso stesso un corpo indomito e mutante, in continuo divenire, contaminato da frequenti e irresistibili suggestioni, sorprendenti interpretazioni e soprattutto tante, validissime idee. Lungi dal (voler) mettere il punto sulle molteplici e mai banali questioni che affronta, Alessandro Cappabianca preferisce porre degli interrogativi, indicare dei percorsi di lettura, aprire degli spiragli di senso in territori che generalmente vengono considerati alla stregua del mero intrattenimento (mi riferisco in primo luogo a generi come l’horror o la fantascienza, ma non solo). Del resto, come dice lui stesso: «le metamorfosi non possono limitarsi a meravigliare, a “far paura” – esse debbono “far senso”» (p. 15).

Le creature e le relative opere cinematografiche passate in rassegna nel volume vengono dunque, per così dire, “riscattate” e utilizzate per portare avanti un discorso che si snoda su piani diversi, mischiando materiale anche molto eterogeneo: nel corso dei capitoli, ad esempio, il critico ricorda e omaggia lo straordinario lavoro di Jack Pierce, leggendario truccatore della Universal negli anni d’oro di Hollywood; approfondisce la magistrale arte di Walt Disney, Mickey Mouse, con l’aiuto di Benjamin e Ejzenstejn, in un discorso che coinvolge anche Artaud; inciampa nei gender studies di Barbara Creed, autrice del celebre saggio The Monstrous-Feminine. Film, Feminism, Psychoanalysis; si avventura in vere e proprie città-organismo, come Metropolis e Gotham City, anch’esse soggette a mutazione.

L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Non è facile dar conto della straordinaria ricchezza contenutistica di questo libro che si rivela, in ultima analisi, un attento studio sul tempo, su ciò che resta e ciò che si disperde, su ciò che cambia e (così) sopravvive. Dietro le spettacolari e repentine metamorfosi filmiche si cela, infatti, l’inevitabile metamorfosi della vita: «ma si potrebbe sostenere, alla fine, che luogo di metamorfosi è l’esistenza stessa – che basta venire all’essere per essere coinvolti, ipso facto, nel processo del divenire-altro» (p. 25). Più lenta e graduale, ma tutt’altro che invisibile, quest’ultima è spesso mistificata sullo schermo perché, di fatto, combacia con l’invecchiamento e dunque conduce alla morte: «Tra tutte le trasformazioni del corpo umano, la più impressionante è quella della vecchiaia, e credo non sia un caso se il cinema ha sempre evitato di rappresentarla in modo realistico» (p. 24). Filmando corpi in movimento, tuttavia, il cinema non può fare a meno di catturarla: è la morte a lavoro cui alludeva Cocteau.

Si torna dunque al principio, a Derrida e alla capacità del cinema di trasformare i corpi in simulacri. O magari, ancora prima, a Bazin, che parlava del «complesso della mummia», in riferimento alla sopravvivenza post mortem dei corpi degli attori sullo schermo. Il cerchio così si chiude. O forse no: a questo punto – un punto che non coincide con la fine del libro, ma che si trova da qualche parte nel suo ventre – Alessandro Cappabianca si domanda cosa succede quando ci si trova al cospetto di una “mummia elettronica”; a corpi cioè (ri)creati al computer con la moderna tecnologia digitale; corpi che possono arrivare anche a prescindere completamente da quelli degli attori in carne e ossa presenti sul set. Uno scenario invero sempre più comune. Anche in questo caso ci troveremmo di fronte a dei simulacri? Simulacri di cosa esattamente? Che poi, in fondo, è un altro modo per chiedersi: ma gli androidi sognano pecore elettriche?


Note

1 Tra i vari testi che affrontano la questione, si rinvia in particolare allo studio di Francesco Zucconi La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità (Mimesis, 2013) di cui pure si è scritto sulle pagine di questa rivista.

2 Caratteristiche che, come precisa lo stesso autore Alessandro Cappabianca, vanno «ben al di là del semplice Nome» (p. 8).


Filmografia

L’uomo lupo (The Wolf Man) (George Waggner 1941)

Wolfman (The Wolfman) (Joe Johnston 2010)

 




Titolo:
Metamorfosi dei corpi mutanti
Anno: 2016
Durata: 214 pagine
Genere: SAGGIO
Specifiche tecniche: 12 euro
Produzione: Timía Edizioni

Regia: Alessandro Cappabianca

Reperibilità