altLa raccolta di recensioni radiofoniche settimanali sul cinema di Elsa Morante, risalente al 1950-1951 e, in appendice, di altri appunti e frammenti della medesima scrittrice (con una introduzione di Goffredo Fofi amichevole e nel contempo disinteressatamente partecipe), fa perno sull’idea, come esplicita il titolo del libro, che l’arte cinematografica è La vita nel suo movimento (Einaudi 2017), nel cui ambito, dato per scontato il carattere dinamico-drammaturgico della figuratività filmica, “vita” equivale a “realtà”. Però, se il termine “realtà” è, com’è evidente, alla radice anche dell’espressione “neorealismo”, cioè dell’esperienza soprattutto cinematografica che aveva fatto strepitosamente epoca, non senza controversie, nel recentissimo dopoguerra, non di altrettanto, alla fine, universale accezione appariva il suo significato. Quando le ragioni genetiche più dirette della performance neorealistica (gli orrori della guerra e la partecipazione popolare alla Resistenza antifascista) si andavano oggettivamente consumando, la sostanza di quel fenomeno aveva configurato ormai la “realtà” in forme, al meglio, sempre più intensamente spirituali (specie in alcuni film di Rossellini) e perfino utopiche (Miracolo a Milano di De Sica), mentre, d’altro lato, nel cinema corrente, ricominciava a dilagare – è la convinzione della Morante – l’irrealtà dell’evasione.


Com’è noto, di “ritorno alla realtà” nella letteratura italiana si era già iniziato a parlare negli anni Trenta della post-avanguardia, ma, nel tempo (alla svolta dei Cinquanta), risultando la realtà di nuovo sempre più privata dei suoi connotati più profondi e, in qualche modo, come allude più volte la Morante medesima, del significato non soltanto materiale della vita (ossia, ad esempio, del senso della morte, o dell’inesplicabile magmaticità dei sentimenti individuali), la sua fattualità si andava rivelando via via infeconda ed elusiva, alla pari della tradizionale tendenza alla mistificazione, nel cinema ancor più che nella letteratura. Del resto, se la “realtà”, nella sua perspicua dimensione spazio-temporale, suscita fermenti di utopia (in primis, quella sociale), essa si riferisce a un’utopia che la storia andava tradendo nel vortice di un altro, ancorché diverso, sistema totalizzante (la società del capitalismo maturo). L’alternativa, nella prospettiva immediatamente conseguente di questa stagione intellettuale, resta alla fine, al meglio, la ragione strumentale, il trionfo delle cose e – come dirà Pasolini – il regno degli oggetti che si consumano: cioè una nuova, più sottile, ma ugualmente tenace oppressione, che gli umanisti combattono con le armi sfuggenti della simbologia del linguaggio, ma portandosi dietro anche il sogno come ombra irredenta dell’antica attesa illuministica.

Del resto, l’umanesimo, che a suo modo può chiamarsi laico e nondimeno visceralmente religioso di Elsa Morante, non a caso, non mancando di mettere in causa, più volte, un capolavoro del neorealismo come La terra trema di Luchino Visconti, definisce la realtà «sostanza profonda e viva delle cose, di là dalla superficie labile e volgare delle apparenze […] un impegno assoluto e disinteressato verso la vita» (p. 116); e, al contrario, «Irrealtà è sinonimo di volgarità, e realtà è sinonimo di poesia» (p. 118). «Questa grazia consolante – scrive l’autrice – La terra trema la possiede senza dubbio […] L’ambizione di Luchino Visconti nell’accingersi a questo lavoro, è stata (se non mi sbaglio), la più ardua, sebbene la più felice, che possa ispirare un artista: di guardare, cioè, alla realtà umana e solo alla realtà con l’animo libero e attento di chi la guardasse per la prima volta […] Cercando d’intendere, attraverso questa semplice realtà studiata con amore, la prima ragione della storia o tragedia umana e dei suoi miti» (p. 119-20). Però, non si tratta, per la Morante, di un nuovo estetismo relegato nei limiti di un “crudo realismo”, bensì, in ispecie, per il film di Visconti, di un “poema cinematografico” che «si racconta da sé, anche senza spiegazioni»; e il suo motivo fondamentale «somiglia alla fantastica malinconia del paesaggio siciliano, immagine del destino misterioso e della umana speranza» (p. 122). L’acume della scrittrice in veste di critico cinematografico (che forse si avvicina di decenni perfino alla penetrante intuizione di Deleuze sul valore strategico della funzione del “tempo” nell’arte cinematografica) si manifesta infine, a proposito di questo film, là dove si trova a rovesciare come un guanto l’accusa di lentezza da parte di alcuni: essa è invece la sua sostanza, «ed ha valore di scoperta di un nuovo tempo cinematografico», aggiungendo nel paragone con l’Adagio di una sinfonia classica, che «da questo tempo – in Visconti – nascono le sue più straordinarie rivelazioni poetiche» (p. 17).

Ma, nella geniale conferenza del 1965 Pro o contro la bomba atomica (poi ripubblicata con altri scritti a cura di un ottimo Cesare Garboli da Adelphi, Milano 2003), la scrittrice dirà peraltro che «l’arte è il contrario della disintegrazione» (p. 101), dalla quale, nell’età atomica, e a cinema, ad esempio, nella sopravveniente ossessione dell’incomunicabilità, «si direbbe che l’umanità contemporanea prova l’occulta tentazione» (p. 99) di lasciarsi fatalmente attrarre. E che – provocando apertamente convinzioni consacrate – «se l’arte è un ritratto della realtà, chiamare con il titolo di arte, una qualche specie o prodotto, di disintegrazione (disintegrante o disintegrato), sarebbe perlomeno una contraddizione nei termini» (p. 102). Lo scrittore, invece, per Elsa Morante, «– se è tale veramente –, tende all’integrità (alla realtà) come all’unica condizione liberatoria, festosa della sua coscienza» (p. 103) (ponendo così un limite deciso purtroppo allo sviluppo di gran parte dell’arte contemporanea, fuori e dentro il cinema e richiamandosi in qualche modo a misure di classicità).

Fofi rileva dal suo canto come la Morante consideri a ragione «il film come strumento della cultura di massa, ma in una visione molto esigente della cultura di massa, che tratti in modo adulto le questioni che affronti, e che non si fossilizzi in “generi”» (p. XV). Tuttavia, a proposito dei caratteri di alcuni capolavori del neorealismo colti da Elsa Morante addirittura nel loro “qualunquismo” (e Fofi sembra condividere), o nel “materialismo” e nel “sentimentalismo” (per questo secondo, vedasi particolarmente Roma città aperta di Rossellini), il critico scrive, in evidente, specifico disaccordo: «Ma Germania anno zero? E Europa ’51? Elsa avrebbe dovuto sentir vicine alla sua sensibilità queste opere quantomeno la seconda per la comune folgorazione della scoperta di Simone Weil, condivisa al tempo da pochissimi. Mi rincresce non averne mai parlato con lei, anche perché negli anni Sessanta e Settanta, la forza di Rossellini si era assai esaurita e i suoi compromessi lo avevano reso, per molti di noi più distante. Si parlò spesso di Simone Weil, e molti di quei discorsi li ho ritrovati nella figura del Davide di La Storia, un romanzo di cui ho avuto la fortuna di seguire la stesura ma anche di subire le tensioni che ne conseguivano, settimana per settimana» (p. XVII). E sull’“effimero” e la “superficialità”, talora lamentate dalla scrittrice nel salvaguardare i capolavori della letteratura da disinvolte volgarizzazioni, Fofi giustamente avverte: «Un cinema che scava e che cerca, un cinema d’autore come quello che si sarebbe affermato non molti anni dopo che Elsa ebbe scritto le sue recensioni radiofoniche, era ancora raro [...]. Saper riconoscere, quando c’era, l’originalità del linguaggio di un film era un’operazione più delicata e difficile di quanto non lo sia oggi, proprio perché il concetto di “cinema d’autore”, o pasolinianamente di “cinema di poesia”, sarebbe arrivato solo con le nouvelles vagues con la conquista, da parte dei registi che volevano essere Autori, di un potere e di un’autonomia inusitati, e di una coerenza tra l’ideazione e la realizzazione del film» (p. XIII-XIV). Però, nelle recensioni morantiane, la «solidità dei suoi gusti» e la «pregnanza delle sue intuizioni» salvano, ad esempio, emblematicamente la «forza genuina» di un regista americano universale come Orson Welles (particolarmente in Citizen Kane), almeno, per lui, fino a quando non si fosse lasciato coinvolgere dalle trasposizioni di testi letterari (come nel caso di Macbeth). Per il vero, Fofi sembra propendere a dare via libera alle riserve della Morante, pur essendo le sue motivazioni di altra natura (si pensi alla critica cinematografica che anche per lui fiorisce all’ombra della passione del 1968), mentre prevale la positiva considerazione, oggi, ai suoi occhi, per «un letterato al cinema» come la Morante, in fondo fecondamente umorale. E capace di confrontarsi con autori come Ford e Minnelli, De Sica e Germi, Clouzot e Cukor, e diversi altri ancora, non amando tuttavia la gente del cinema e sapendo essere coraggiosamente, pur con una sorta di esagerazione, addirittura antizavattiniana. «Una Morante non seriosa o condizionata dalle mode – è l’opinione d’appoggio di Fofi – non poteva che essere critica nei confronti del cinema italiano più “portato” dalla cultura di sinistra e “progressista” –alla quale sapeva comunque di appartenere, seppur nella sua anarchica marginalità– che era quello del neorealismo» (p. XVI).

Ma l’esercizio critico si libera di ogni (scandalosa?) spregiudicatezza, ed è riportato direttamente alla originalissima poetica della scrittrice, quando essa affronta in particolare il fondamentale rapporto tra arte (cinema) e religione; e con esso, assai favorevolmente, il rapporto con il controverso Pasolini. Fofi apprezza: ma l’apprezzamento è, per lui, senza condizioni per l’intrinseco valore dell’ultimo grande poeta del Novecento? Non ne sarei troppo sicuro. Egli comunque pone, al riguardo, quasi in epigrafe della sua bella introduzione, questa illuminante conclusione della scrittrice in una paginetta ritrovata postuma tra le sue carte: «Impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita significa, poi, religione. Giacché, evidentemente, la realtà della vita non consiste nella povera convenzione del tempo e dello spazio in cui si muove la nostra singola esistenza individuale; ma nella ragione ultima delle cose, fuori dallo spazio e dal tempo e da ogni individuale interesse pratico […] fra i pochi films che vado a vedere senza ripugnanza, io metto, naturalmente, ai primi posti i films di Pasolini. E questo non certo per l’amicizia fraterna che mi lega a questo autore (amicizia che considero uno dei massimi onori a me toccati nella vita); ma perché, fuori da ogni mio affetto personale, in tutta la sua opera Pasolini si rivela come uno fra le pochissime persone viventi nel nostro tempo dotate di sentimento religioso. Anzi in lui sembra addirittura incarnarsi il dramma della coscienza religiosa contemporanea» (pp. XX-XXI, e poi anche pp. 116-17).

Che è anche una riflessa confessione del modo con cui la sua anima si apre, anche attraverso il sortilegio del cinema, alla forza estrema del soprannaturale, senza mai abbandonare la complessa, pesante verità del reale e del suo contrario, la menzogna.


Filmografia

Europa ’51 (Roberto Rossellini 1952)

Germania anno zero (Roberto Rossellini 1948)

La terra trema (Luchino Visconti 1948)

Macbeth (Orson Welles 1948)

Miracolo a Milano (Vittorio De Sica 1951)

Quarto potere (Citizen Kane) (Orson Welles 1951)

Roma città aperta (Roberto Rossellini 1945)



 

Titolo: La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951
Anno: 2017
Durata: 147 pagine
Genere: SAGGIO 
Specifiche tecniche: 20 euro
Produzione: Einaudi

Regia: Elsa Morante, Goffredo Fofi (a cura di)

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