altIl genere umano non può sopportare troppa realtà
(T. S. Eliot, Burnt Norton in Quattro quartetti)


Dice Capote che «la realtà riflessa è l’essenza della realtà, la verità vera». La realtà si offre sempre attraverso la mediazione di un’immagine. È un dato, da Platone in poi. Senza le immagini e i riflessi, dunque, non avremmo la realtà: magmatica, dilatata, questa esplode in una molteplicità di schegge; è l’immagine che, sottraendola dal caos originario, le dà una forma attraverso catene figurali via via più complesse ed elaborate. È sorprendente il potere posseduto dagli spettri, direbbe Derrida, di offrire la «visibilità dell’invisibile»; sono questi, per tornare a Capote, che ci permettono di cogliere, «in prismatica miniatura, l’intima atmosfera di un panorama troppo vasto per poter essere altrimenti abbracciato» (Capote in Mazzarella 2011, p. 16).


Quindi, solo mediante una spregiudicata riconfigurazione della realtà possiamo provare ad attribuire un senso a ciò che abbiamo vissuto con piena inconsapevolezza. Soltanto manipolando, ricreando, attraverso la trama di immagini che il nostro occhio, senza accorgersene, ha fotografato nel tempo, riusciamo a dare una consistenza al fluire caotico degli eventi; una consistenza però fragile, fatta di ombre che appaiono per guizzare subito via, per disperdersi senza mai durare.

Sono queste le suggestioni che scatena la visione di A House in Asia del collettivo catalano Agrupación Señor Serrano, un “western teatrale” che ritrae lo scenario contemporaneo, quello post 11 settembre, data d’inizio della “terza guerra mondiale”, conflitto combattuto “a pezzi” e differenti gradi d’intensità: se da una parte di mondo arrivano notizie apocalittiche e disturbanti che raccontano l’orrore nella dimensione quotidiana (bombardamenti, sgozzamenti e cecchinaggio), dall’altra si reagisce agli atti terroristici adottando misure di irreggimentazione esistenziale, accettando il sequestro compiuto da innumerevoli schermi di video-sorveglianza che assorbono il reale rendendolo ininterrottamente ipervisibile (ognuno è monitorato da un occhio meccanico che tutto inquadra con l’imperturbabile angoscia di una rappresentazione senza fine).

Un progetto teatrale ambizioso che rifiuta l’approccio cronachistico solito riprodurre una raffigurazione degli eventi limitata alla loro atomizzata singolarità; la cronaca del resto dà enfasi ai singoli fatti, non è in grado di gestire quella concatenazione di livelli, di nessi, non sempre visibili che invece questo spettacolo vuole riuscire a stabilire. Gli Agrupación Señor Serrano, dunque, concepiscono lo spazio scenico come un dispositivo plurimo che procede per metafore, simbolismi in una vertigine di tempi divergenti, convergenti e paralleli; un tessuto di combinazioni inesauribili entro il quale è possibile sperimentare nuove connessioni che non vanno negate solo perché sfuggono alla verifica angusta dell’evidenza sensibile.

Il collettivo catalano, là dove la rete dei fatti presenta smagliature e buchi, opera ardite suture, fino a proporre una ricostruzione globale degli eventi; nello specifico l’esistenza di tre case, situate in altrettante aree del pianeta (Pakistan; Carolina; Giordania), completamente identiche: la prima è quella in cui era nascosto “Geronimo”, ovvero Osama Bin Laden (questo il code name datogli dai Navy Seals); la seconda quella costruita dalla CIA per l’esercitazione dei Marines in vista della cattura del fondatore e leader di al-Qāʿida; la terza quella realizzata dalla casa di produzione di Zero Dark Thirty, film di Kathryn Bigelow incentrato sull’Operazione Geronimo.

altUno spettacolo A House in Asia che partendo dal libro No Easy Day (scritto, con lo pseudonimo di Mark Owen, da Matt Bissonette, il soldato che sparò a Bin Laden), rilegge, aggiornandola, l’epopea della frontiera, quindi del western, su cui si fonda la mitologia americana, e la lotta tra il bene e il male, filtrata attraverso le pagine di Moby Dick, l’allegoria melvilliana d’ispirazione biblica che racconta della caccia al nemico come di una forma di contagio («Sì, sì! E le darò la caccia oltre il Capo di Buona Speranza, al di là del grande Maelstrom di Norvegia, oltre le fiamme della perdizione, prima di abbandonarla. Ed è per questo che vi siete imbarcati, marinai! Per cacciare quella Balena Bianca in tutto il mondo, in ogni parte della terra, finché non sfiati sangue nero e si rivolti con le pinne all’aria» [Melville 2010, pp. 193-94]).

Lo spazio spettacolare, dove i testi si dispongono in maniera non lineare (e ibridandosi e muovendosi vorticosamente si rigenerano), diventa un organismo fatto di molteplici elementi eterogenei (riprese live, miniature, video, registrazioni audio e naturalmente manovratori) definiti innanzitutto dal disporsi come esperienza caratterizzata dall’interattività: un mondo aumentato nel quale i contenuti si sviluppano come ambienti narrativi in cui confluiscono data provenienti da diverse fonti. Un enorme videogame, come del resto viene preannunciato dal prologo affidato alle immagini di un simulatore di volo che schianta il proprio aereo sulle Twin Towers, a dimostrazione che la realtà, forse, possiamo afferrarla solo attraverso le sue copie.


Bibliografia

Arcagni A. (2016): Visioni digitali. Video, web e nuove tecnologie, Einaudi, Torino.

Mazzarella A. (2011): Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Bollati Boringhieri, Torino.

Melville H. (2010): Moby Dick o la Balena, Adelphi, Milano.

 


Titolo: A House in Asia
Ideazione:
Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal

Regia:
Barbara Bloin

Con:
Àlex Serrano, Ferran Dordal, Alberto Barberá
Produzione:
GREC 2014 Festival de Barcelona, Hexagone Scène Nationale Arts et Sciences – Meylan, Festival TNT – Terrassa Noves Tendències, Monty Kultuurfaktorij, La Fabrique du Théâtre – Province de Hainaut
Debutto:
10 luglio 2014 GREC 2014 Festival de Barcelona

Visto il 28 marzo 2017 al Teatro dell’Arte