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Il mondo è una scena, la vita è rappresentazione: entri, ti guardi intorno, te ne vai.
(Aforisma attribuito a Democrito)


Sulla scena del mondo si rappresenta la farsa della mondializzazione. Sul serio, c’è ancora qualcuno che crede alla favoletta di un mondo più equo o di un’umanità più felice grazie a pratiche aberranti come la delocalizzazione (eufemismo dietro cui si nasconde il vecchio e mai morto colonialismo) o a nuove forme di autosfruttamento che seguono i dettami della retorica del “sii manager di stesso” o della cosiddetta sharing economy? Toni Erdmann prende molto sul serio questa domanda, la radicalizza fino al punto che non può fare a meno di mettere in questione la rappresentazione stessa.


La nuova catena di montaggio è data dalla bacheca social: immagini seriali che producono identità fittizie mettendo a valore la rappresentazione del quotidiano; a crear valore sono la scelta del momento della quotidianità da condividere e la condivisione stessa (valore misurabile con reazioni e altre condivisioni da parte della web community). Ma dato che nei social ogni momento pare degno di essere condiviso, allora ogni momento ha potenzialmente in sé lo stesso valore di qualunque altro, indifferentemente: di contro, si potrebbe dire che per i social ogni momento è indifferente finché ce n’è un altro da condividere. Se la vita diventa questo tipo di rappresentazione, ovvero un indifferenziato e indifferente guardarsi attorno (o, nel caso del selfie, un guardare se stessi con un qualcosa di indifferenziato attorno), allora la timeline social viene a coincidere con la cronologia del nostro passaggio sulla terra, con due momenti realmente apicali, quello della nascita (o entrata nella scena del mondo, momento non indifferente perché non sostituibile con qualcosa che è accaduto prima) e quello della morte (o uscita di scena, dopo la quale non ci saranno più eventi da condividere).

In Toni Erdmann l’entrata e l’uscita di scena si alternano di continuo dinanzi a noi. Apparizione e sparizione sono gli unici due eventi ad aver valore. L’apparizione per essere tale deve essere notata e per questo deve infrangere la piatta serialità degli eventi. Una porta si apre, e con essa un’inaspettata gamma di possibilità: possono apparire un professore di mezza età, un erotomane appena uscito di galera, il tuo amante, una intellettuale borghese che ti introduce nel suo salotto pieno di intellettuali borghesi, una giovane donna nuda che ti invita a spogliarti a tua volta, la tua segretaria nuda, il tuo capo nudo, un mostro gigantesco e pelosissimo.

Tra un’entrata e un’uscita non si sa che fare, ci si guarda intorno spauriti, ci si sente a disagio, non si vede l’ora di sparire: si sente la necessità di avere un ruolo, di indirizzare le proprie azioni verso uno scopo. In questo lasso di tempo si consuma la vita, ridotta a classico gioco delle parti. Ecco allora che il travestitismo diventa una pratica di disvelamento, come se ci dicesse: mi travesto per mettere in chiaro che è tutta una farsa, che i veri clown siete voi che fate finta di credere che non sia tale. Paradossalmente, il travestimento riesce a mettere a nudo tutti i personaggi del film.

Il reiterarsi dell’alternanza fra entrate e uscite ci dà l’impressione che l’azione accada dinanzi a noi in quel momento: è la tradizionale illusione che il film avvenga in un immobile presente in nostra immota presenza, sebbene in noi ci sia latente la consapevolezza che il film è una registrazione di eventi accaduti nel passato. Ma cosa succederebbe se il nostro sguardo entrasse in scena con un attimo di ritardo rispetto all’entrata in scena del personaggio, in classica medias res? Per prima cosa avremmo la distinta percezione di avere uno sguardo, cosa non del tutto scontata: specie se siamo costantemente in rapporto con le immagini, il nostro vedere diventa qualcosa di simile al respirare, lo facciamo senza accorgercene.

altDopo, avvertiamo la sensazione di essere in scena e che lo sguardo possa muoversi dentro: vengono quindi a cadere sia l’illusione del presente (perché qualcosa è accaduto prima) che quella dell’immobilità dinanzi allo spettacolo. È quel che accade in Elle: il passato e i suoi rimossi ci chiamano in causa, ci smuovono dalla nostra apatica passività cui lo spettacolo massmediale contemporaneo ci ha assuefatti. La retorica della tecnologia pervasiva viene meno: essa ci dice che con i suoi mille occhi elettronici può riprendere tutto e in tempo reale; ma qualcosa manca sempre alla visione, e il tempo dell’immagine segue una dimensione sua propria, sfuggente e impalpabile, mai esattamente riconducibile alla realtà del “qui e ora”. Non possiamo dire di sapere neanche due o tre cose di Elle e della sua protagonista, dato che persino il suo corpo resta inattingibile. Il corpo del resto non è neanche più necessario: una volta che il suo calco immaginale si distacca da esso e inizia a circolare virale (finanche a mutare la sua forma nella virtualità), ecco che il corpo non serve più, e giace dimenticato al di qua dello schermo, come stampo inutile nell’officina dello spettacolo, come spettatore inerme che assiste impotente alla messa in scena di una vita che oramai non gli appartiene più.

Eppure Elle prova a smuoverci da tutto questo. Non è detto che ci riesca, ma sembra tentare di ricondurre l’immagine al corpo, di provare a creare almeno una improbabile fusione. Come Robocop era il nuovo Frankenstein risorto dalla fusione di umano e macchinico, così in Elle immagine virtuale e corpo tentano una riconciliazione, ovviamente fallimentare. È infatti impossibile ricondurre all’unicità del corpo le immagini che da esso sono proliferate durante tutta una vita: se il corpo muta nel tempo e insieme cambiano le percezioni che ha di sé e che ingenera negli altri corpi, di contro l’immagine ha l’aspirazione all’astrazione dal tempo, a porsi come immutabile e imperitura; si pone persino al di là di qualsiasi percezione. Ad esempio in Elle, un ragazzo è talmente ossessionato dall’immagine di sé come padre e marito che questa sua ossessione si sovrappone all’evidente percezione che il figlio, che la sua futura sposa mette al mondo, non è suo.

Non potendo quindi avere il controllo delle immagini che si proliferano dal corpo, possiamo almeno provare a riconciliarci con i nostri stessi corpi e con le pulsioni che da essi derivano, accettandole come uniche immagini veramente nostre, perché irrappresentabili e irriproducibili. Tutto il resto appartiene al flusso dello spettacolo, e scorre via; per i social, basta uno scroll down per scrollarsele di dosso.


Filmografia

Elle (Paul Verhoeven 2016)

Toni Erdmann (Vi presento Toni Erdmann) (Maren Ade 2016)