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Non possiamo dimenticare quello che eravamo
Niente rimane. Tutto si perde.
Come si può rispondere a una domanda alla quale non c’è risposta?


La memoria è una lacrima che scende dalla “bianca palpebra” dello schermo di Lav Diaz, un elemento doloroso, sempre presente, perché «non si può dimenticare quello che eravamo». Il passato è uno specchio che si riflette nel presente, e quella palpebra si apre sulla realtà, il trenta giugno del 1997, nel giorno in cui termina il protettorato inglese a Hong Kong.


Le notizie scorrono sul fondo, un elemento marginale ma essenziale, la presenza della storia che irrompe nel movimento filmico, divenendo cinema.
La Storia ha un’importanza fondamentale nel cinema di Diaz, è parte del tessuto cinematografico, è la superficie sulla quale scorrono gli eventi, a volte muta e silenziosa, altre fragorosa e violenta, squarciando la trama narrativa. I tempi dilatati, la profondità di campo delle opere diaziane, cercano di portare sulla scena il più possibile, incorporando nel filmico la realtà, il tempo e gli spazi, con una continuità poco frammentata, come un occhio sempre aperto; così la camera fissa spesso si sofferma su inquadrature frontali, in un flusso in cui è la vita, intrecciata saldamente alla storia, ad accadere.

La volontà è quella di racchiudere nella scena filmata il mondo del regista filippino e la storia del suo Paese, in un bianco e nero ricco di sfumature, che in realtà contiene tutto lo spettro cromatico emozionale, dai toni più cupi, simbolo della sofferenza di un popolo, a quelli più lievi, dell’animo nobile della sua gente, di una donna che è la metafora della volontà di una resa impossibile, è quello squarcio sulla via di fuga.

Horacia Somorostro (Charo Santos-Concio, ex presidente e amministratrice delegata della ABS-Cbn) ha scontato trent’anni di carcere per un reato che non ha commesso, vive in un microcosmo tutto al femminile, rinchiusa ingiustamente dietro delle sbarre.

Diaz ritrae una donna forte che, nonostante gli eventi, non si perde d’animo, una piccola colonna in un mondo aspro e duro come quello del carcere. «Vivo in una stanza senza specchi, quasi senza finestre, quasi senza aria. […] come anime che cercano di liberarsi quando la terra morente pregna di umidità annaspa alla ricerca di un po’ d’aria» (Bahaghari Timog, La torre di Black). Un microcosmo che vive tra gli spazi della società, scivola tra le fenditure di realtà anguste, crimini e pene da scontare, ma la poesia ritaglia margini e bordi in cui prendono vita storie e favole, creando momenti di libertà immaginifica in cui la mente è libera di vagare, fuori da quella cattività forzata.

Horacia ha mille volti, dolce, materna, energica e generosa, si muove tra i reietti, le vittime di una società che ha dimenticato l’umanità, soprattutto quella più povera e debole, a favore di un’oligarchia ricca che sbrana avidamente ogni cosa nella frattura umana tra ricchezza e povertà. La fragilità e le miserie dell’uomo sono portate in scena con dignità, attraverso un linguaggio impregnato di metafore che si fa carne e assume diverse sembianze; sì, perché Horacia non è mai uguale a se stessa, di giorno lavora in una locanda e la notte si muove tra quell’umanità disprezzata e ripudiata.

Con le parole, i piccoli e i grandi gesti di conforto, è vicina alle persone che ama, ma anche, e soprattutto, a chi non ha più nulla e nessuno su cui contare, prostitute, povera gente, animali notturni abbandonati tra l’oscurità di una vita che lascia poche speranze, come il venditore di balut o la transessuale Hollanda. Presenze quasi fantasmiche che popolano la notte, ferite e calpestate, anime dimenticate, cui Horacia presta conforto e con le quali instaurerà veri e propri rapporti familiari, di sorellanza e di fratellanza, creando spazi emozionali dove riesce a (r)esistere un barlume di carità e benevolenza, perché, come cantano insieme le due donne, sulle note di Somewhere, di Tom Waits: «Somewhere there’s a place for us, a time and a place for us. Hold my hand and we’re half way there. Hold my hand and I’ll take you there, somehow, someday, somewhere».

Decisa a vendicarsi del marito, Rodrigo, che l’ha tradita ed ingannata, ed è l’artefice della sua ingiusta reclusione dietro le sbarre, Horacia compie un percorso che segnerà la sua (ri)nascita.

Il regista si spinge oltre, al di là dei limiti della macchina cinema e dell’uomo, in una tensione continua, alla ricerca dell’essenza umana, nel tentativo di aprire nuove strade, di liberare lo sguardo dalla palpebra, di andare oltre lo schermo, nella totale adesione al reale, in una nuova percezione del cinema.
Attraverso una partitura elegiaca, tra il bianco e il nero della lirica diaziana, il regista dipinge il reale allargando all’estremo le sue inquadrature, donando loro profondità e dipanando il tessuto narrativo in un tempo dilatato, che da sempre distingue lo stile dell’autore filippino, nella coerenza dell’immagine, in un estremo atto di fedeltà alla storia del suo Paese. In un momento delicato di transizione come quello nel racconto filmico, la fine degli anni novanta, in cui la violenza era la reazione a quel cambiamento radicale, in cui i rapimenti delle donne erano tangibile realtà quotidiana, la ferocia dell’umanità assumeva vari volti, ma era, ed è, la rappresentazione della complessità delle Filippine.

Lav Diaz si affida alla rappresentazione del reale per raccontare le sue storie e le storie della realtà in cui vive. La monumentale impellenza del dire e dell’aderenza al tangibile, rendono la regia di Diaz un linguaggio ricco ed al contempo stratificato. La necessità di riprendere la realtà per quella che è, di farne tessuto filmico, la si avverte dalla posizione spesso statica ed orizzontale dello sguardo del regista, affidato ad una mdp ferma su piani sequenza che catturano l’occhio osservante, rendendolo partecipe e presente allo svolgersi dell’azione nel suo divenire, nel suo farsi. «Le unità di luogo e di tempo sono sempre state imperative nel mio cinema. Questa è la ragione per cui, se ne posso farne a meno, non ci sono stacchi o controcampi, solo un’inquadratura, una ripresa, di solito fissa. La macchina da presa la sposto solo se ne sorge la necessità» (Lav Diaz in conversazione con Giona A. Nazzaro 2016, p. 55).

Ang babaeng humayo (The Woman Who Left, 2016), presentata a Venezia 73 e vincitrice del Leone d’Oro, è un’opera che assume una forma inedita rispetto alla profusione verbale dei precedenti lavori di Diaz, non solo per la compattezza, ma anche per la costruzione narrativa più agile e fluida, ma resta una lirica struggente e affascinante tesa a raccontare la realtà politica filippina attraverso la bellezza delle immagini, tipica del cinema di Diaz.

Il modo in cui io mi rapporto al cinema è sempre dominato da curiosità pura e da un attaccamento istintivo al mezzo, che spesso oscurano la ragione critica o alcuni dei pregiudizi estetici che io posso avere. Il cinema, inclusi lavori migliori o peggiori, ha la qualità di rispecchiare in qualche modo, magari a livello subliminale, norme e strutture sociali, eventi e azioni che hanno modellato la società nel passato o nel presente. (ivi, p. 52)

Un percorso salvifico, di redenzione e la vendetta, per quanto folle e accecante, è vissuta come esigenza per raggiungere la libertà; come un’ellissi, il racconto si chiude tornando alle parole che lo avevano aperto, a La torre di Black, di Bahaghari Timog:

…ha la coscienza in fiamme, è parte del suo sogno lucido? Sta perdendo la testa? La sua coscienza si sta allontanando dal mondo, alla fine? E se questo lo porterà alla follia è li che vorrà stare per sempre. E che ne sarà delle sue scuse? Dei giorni passati a chiedere la verità? Egli capisce che solo questo purificherà la sua anima. Questo soltanto salverà la sua anima. E tutt’a un tratto, si rende conto che è la sua ultima occasione. È il momento di ritirarsi, è il momento di scappare, è il momento di essere liberi.


Bibliografia

Nazzaro G.A. (2016): Cambiare il cinema per cambiare la storia, in «MicroMega. Almanacco del cinema», IX, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma.