Ho curato personalmente tutti gli aspetti del suono e ci ho dedicato più di sei mesi di lavoro, perché insieme al montaggio è l’aspetto fondamentale, la chiave di questo film, sebbene poi sia l’immagine a tenere insieme il tutto. (Amir Naderi)
Nella vezzosa frescura di una terrazza veneziana fronte mare Amir Naderi mi spiega che l’idea di creare una «sinfonia di rumori» era inscritta sin dal principio in un nucleo ideativo risalente a più di una decina di anni fa, che, passato attraverso vari tentativi infruttuosi di realizzazione, oggi sboccia a definitiva epifania con questo Monte, di bellezza primeva e oscura, presentato fuori concorso alla 73° edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Un progetto, mi dice con quel suo modo pensoso e un po’ roco, che innanzitutto deve dar risposte pratiche alle urgenze dell’immaginatività, visto che la prima questione da risolvere era quella di immaginare il suono della vita e della natura di quei tempi (siamo in un ipotetico quanto astratto Medioevo) nella più completa irreperibilità di fonti di riferimento: «per aspetti come i costumi, per ricostruire il modo di vivere o conoscere la cultura di quel tempo ci sono molte fonti, i dipinti, i testi, ma per il suono, il suono della natura, il suono della città, della gente, le voci, il suono della vita, insomma, non c’è riferimento possibile, si trattava di creare tutto da zero».
E la ricerca di un suono adeguato per dare voce e vita al suo monte diventa centrale per Naderi, che passa ore e ore di notte e all’alba, di giorno e al vespro, registrando l’ululare del vento e il rombo del tuono, la civetta e il lupo, il muggire sommesso delle fronde e quello roboante del temporale e ogni altra possibile inflessione di quella che nel film sarebbe diventata in tutti i sensi la voce primordiale della Montagna, l’espressione acustica di quella forza oscura e immane, cioè, che fa da fulcro al film tutto, suo attante-oppositore principale, ambiente di tutte le vicende, nucleo tematico e metaforico portante.
Tanto più che non volevo utilizzare nulla di digitale, sintetizzatori e simili, ma solo i suoni reali della montagna, il vero suono del martello, la vera pietra e il vero vento eccetera e volevo utilizzarli come una sinfonia...una sinfonia rumorista. Ho ascoltato molte sinfonie per prepararmi, e in particolare Wagner, ho cercato di riprodurre nel mio suono i suoi crescendo, la sua dinamica. (Amir Naderi)
Così è stato, grazie ad una costruzione frequenziale per strati e condensazioni, un suono-somma, che accorpa e connatura le diversità spettroformofologiche del rumore minerale e del vegetale frusciante, dell’animale con i suoi ululati, righi, sbuffi e rantoli, con l’atmosferico tuonante o scrosciante, muggente o in pieno sibilo. Un rombo di terrestri viscere misto all’ululo cupo di venti furiosi, un tuono prolungato che sembra il grido di una voce abissale, un intreccio di versi animali e fragori geologici: il multiforme impasto sonoro emesso dai monti è difficile da descrivere proprio perché composto stratiforme di identità molteplici che, nel frastuono mascherante prodotto dalla somma, restano solo a tratti riconoscibili.
Dal punto di vista dell’uso drammaturgico, poi, questo roboante impasto è utilizzato come modalità vocale primaria del Monte considerato come personaggio del film. Lo si usa, cioè, esattamente come se ne fosse la voce, il ruggito o il richiamo, per cui all’apparire in immagine dei picchi montani corrisponde il manifestarsi simultaneo e sincrono di questa loro “voce” sul piano dell’ascolto. A livello della rappresentatività immaginativa lo spettatore tenderà a generare l’immagine unitaria di una entità che, essendo dotata di un corpo e di una voce, è più interpretabile come un “essere”, una unità vivente, sebbene in un corpo di pietra. «Senza quel suo ruggito il monte sarebbe solo un ambiente, così invece lo senti come personaggio, un personaggio terribile». Un mostro gigante, un Kaiju roccificato o un Moloch di rosselliniana e langhiana specie, fatto di zolle e minerali.
Il fatto poi che l’intento programmatico di Naderi sia quello di utilizzare questo repertorio sonoro «come una sinfonia», cioè come una composizione musicale, rivela l’approccio semantizzato ed espressionista con cui Naderi si accosta al materiale sonoro, che non investe di alcuna intenzionalità mimetica, quanto di quella caratura emozionale ed espressiva di tipo musicale, appunto, di cui solitamente si fa carico la musica extradiegetica, la cosiddetta colonna sonora. Sound-design come musica, nato per emozionare, per atterrire lo spettatore, in questo caso, perché pensato per essere «la voce del potere di questa natura che respinge l’uomo, l’invasore che ha voluto abitare e invadere il suo dominio, e che si difende scatenando tutta la sua forza ostile».
Un suono che si arricchisce di risonanze metafisiche quanto più viene sfruttato da Naderi con funzione indessicale di quell’altrove dell’esistere che è la montagna. Un suono-territorio, direbbe Chion, una marca sonora identificativa di un luogo specifico, che permette ogni volta allo spettatore di contestualizzare la narrazione, di identificare, in tutte le scene in cui ascolta il suono, il monte come ambiente entro cui collocare personaggi e vicenda, ma, allo stesso tempo, un suono-territorio che largamente trascende la determinazione puramente geografica, quella del monte come luogo fisico, per diventare espressione acustica di una ben precisa dimensione ontologica, La Montagna (con le maiuscole). Nel progetto di Naderi, infatti, all’identificazione geografica, il monte come luogo separato fisicamente dal resto perché sopra-elevato, sottoposto ad un regime climatico diverso, e a diverse possibilità alimentari, corrisponde sul piano valoriale un universo di senso separato, un’autonoma dimensione metafisica che impone regole diverse da quelle consuete al frugale esistere dell’uomo.
L’imponente ruggito del monte vicarizza sul piano del sonoro un’alterità malevola dell’esistenza, che secondo la credenza comune appesta anche i corpi e le anime di Agostino e famiglia, abitatori di quelle alte e oscure terre. Fatti di umana carne, nelle credenze della gente di pianura, ma invasi da un che di ultraterreno, da un potere nemico di Dio, al punto che vorranno esorcizzare la loro casa abbandonata disegnando su usci, finestre e pareti simboli cristiani ed alchemici, convocando quindi forze cristiane e pagane insieme, per sigillare quell’insano potere in perpetuum al suo interno e non farlo uscire mai più.
Il monte, configurazione orografica del negativo assoluto, domina dall’alto con il suo potere extra-ordinario e la sua regola selvaggia di vita, opponendosi all’esistenza ordinata e ordinaria all’interno del paese che, non a caso, sorge sotto la montagna.
Naderi chiarisce ulteriormente l’opposizione valoriale tra montagna e “normalità-umanità”, tra dimensione esistenziale nostra e dimensione esistenziale altra, appoggiandosi a una connotazione di tipo posizionale, che oppone l’alto, il male e l’ultramondano, al basso, a ciò che, collocato in pianura, mette in rappresentazione i valori positivi e l’humana societas, replicando, ma in maniera speculare ribaltata, l’antinomia alto\basso dell’ortodossia cattolica.
Parola, urlo, suono
Questa alterità ultramondana, questa ostilità ontologica, oserei dire, della montagna verso l’uomo, si esprime sul piano del sonoro anche nel confronto-opposizione tra il tracimante muggito del monte, espressione bruta delle forze della natura, e la voce intesa come parola, cioè come materia sonora organizzata secondo precise regole, linguistiche, semantiche, grammaticali, culturali, insomma. Questo suono sottoposto a modulazione culturale nell’economia simbolica del film rappresenta i valori che ci permettono di definire l’uomo culturale e la sua weltanschauung, il suo raziocinio e il suo sentire. Nelle scene in cui si trova a contrapporsi all’enorme frastuono del monte diventa letteralmente, inudibile, incomprensibile, una parola-cultura debole, cancellata, che nel confronto con la dimensione istintuale e animata da forze primigenie della montagna-natura, rivela tutta la precarietà di quell’uomo che simbolizza.
D’altronde Naderi stesso dichiara di aver cercato di «esprimere poco con i dialoghi», e di aver preferito l’astrazione di una «comunicazione più primitiva e universale rispetto a quella resa possibile dalla parola, la comunicazione della voce e del suono puri, precedenti alla musica e alla parola, un’espressività priva di regole culturali».
Il viaggio di Agostino e della famiglia, che non lo abbandonerà mai, è anche quello che da questa dimensione simbolica della parola li trascina verso una espressività del verso gutturale e dell’urlo, del vocalizzo amorfo e istintuale, al netto di ogni determinazione linguistica e culturale. In tutta la seconda metà del film i dialoghi praticamente spariscono e il panorama sonoro si riduce esclusivamente ai prolungati accordi di bassi dissonanti urlati dal monte, al contrappunto ritmico prodotto dal martellare incessante di Agostino e del figlio Giovanni sul fianco della montagna, e a quella sorta di assolo, di cantato animalesco, fatto di ringhi sofferenziali e amorfi gutturalismi di fatica, che i due emettono martellando. Vocalizzi non linguistici che comunicano non linguisticamente, ma per pura urgenza istintuale.
Il regista-demiurgo destina i suoi creati a un tragitto discendente che dalla razionalità e sentimentalità che definiscono la sfera dell’umano e che si esprimono nel verbo governato dalle regole della lingua, li trascina verso l’istintualità sfrenata, nell’abbrutimento concentrato del vocalizzo privo di forma definita, e dunque di intenzione razionale. Nella visione del regista questo percorso regressivo coincide con un recupero delle nostre radici, con un debito ridimensionamento dell’umano e di un suo ri-posizionamento al posto di animale, che gli spetta in quella natura che credeva di dominare. Solo quando l’umano si spoglia dei numerosi panneggi della culturalità che adduce a ragione della sua superiorità, e, animale ritrovato, torna istinto purissimo, verso gutturale e ringhio, riesce a misurarsi con la montagna. Natura contro natura, solo a queste condizioni è possibile il confronto-scontro per Naderi. D’altronde Agostino alla fine sconfigge questo monte, ma nel farlo perde la vita, perché sconfiggendo la natura sconfigge sé stesso.
Questa questione della minorità dell’umano, tra l’altro, si ribadisce continuamente anche a partire dalla grammatica dimensionale scelta da Naderi, che a livello di immagine innesca il raffronto tra i corpi degli uomini e l’enormità del “corpo” roccioso del monte e sul piano del sonoro porta sempre le voci, verbalizzate o meno che siano, a conflitto con il ciclopico urlo delle cime e dei burroni. L’assoluta preminenza mascherante e volumetrica con cui il grido della pietra sovrasta le minuscole voci, così come l’evidente sproporzione dimensionale tra le immagini minime dei corpi umani e l’enormità delle volute di granito, ci restituiscono l’idea di un uomo a dimensione microscopica, ridotto in minoranza assoluta da una natura che, ben al di là di ogni più pessimistica previsione leopardiana, e non più solo matrigna, s’è fatta addirittura megera malevola e ventre sterile, natura-mortifera.
Questa immagine e questo suono dell’enorme, in combinazione sincretica, creano una sproporzione dimensionale che diventa una previsione di aleatorietà sull’apparente dominio che l’uomo crede di esercitare sulla natura, ed esprimono un primitivismo panteista che sbaraglia ogni antropocentrismo possibile e ci pretende (di nuovo) vulnerabili. Eppure questo uomo dimidiato, ridotto ai minimi termini, Agostino, riuscirà ad abbattere la montagna permettendo finalmente al sole di illuminare la valle: il minuscolo uomo impone la propria volontà sulla natura, ed è qui lo scarto rispetto ad essa, grazie all’enorme forza della propria volontà, che lo spinge a non desistere ben al di là dei limiti umani ordinari.
L’uomo e solo l’uomo può mutare la natura, sconfiggere un’ombra che dura da milioni di anni, e potrà farlo solo grazie al proprio coraggio, e ancora di più grazie alla propria fede. Agostino non si ferma davanti a niente, persegue la sua idea anche quando a chiunque sembra impossibile. Tutta la storia del genere umano, che è cambiamento, divenire, è la storia fatta da uomini che hanno reso possibile ciò che fino ad allora era impossibile, superando i limiti, imponendo la propria volontà di farcela sulle avversità di ogni tipo. (Amir Naderi)
La forza di volontà, la fede di Agostino, è il caso di dirlo, è più dura della pietra e gli permetterà di abbattere la montagna. Se il confronto con la forza della natura, pur persa ogni remora di culturalità, fosse rimasto sul piano del puro istinto, l’umano, l’animale, avrebbe certamente perso, perché l’istinto, quello di sopravvivenza, avrebbe spinto Agostino a fermarsi prima di auto immolarsi nel tentativo di raggiungere uno scopo che sembra impossibile, mentre la volontà lo spinge oltre. L’istinto è umano, la volontà è super-umana, è ciò che permette all’uomo di «trasumanar», diceva Dante, di andare oltre i limiti impostigli dalla sua natura, e accostarsi, di un soffio, al divino.
Non è dunque la cultura, quella mediata dalla parola e dai dialoghi, a segnare la differenza uomo-natura, ma la volontà, quella corrente interiore che moltiplica le forze, che per Naderi è l’unica e vera molla dell’umanità, che rende possibile l’impossibile, anche il cinema, «perché la fede è tutto, quando vuoi fare qualcosa di impossibile, portare a compimento un’impresa estrema. Agostino, come Prometeo, rifiuta il destino che gli è imposto, pretende di determinarlo da sé, e su questa idea concentra ogni sua speranza e forza, dimenticando tutto il testo, la sua famiglia, la sua cultura, la sua stessa persona, perché crede ciecamente nel potercela fare. Quando faccio un film mi succede esattamente così».
In questo suo prometeico protendere all’auto determinazione il nostro montanaro sconfesserà ogni credo, non riuscirà a pregare entrato nella chiesetta, e ne fuggirà esacerbato, e allo stesso modo, distruggerà a martellate il talismano in odor di zolfo donatogli dalla fattucchiera del paese, perché nessuna volontà esterna alla sua, nessuna eterea autorità, celeste o infernale che sia, dovrà interferire con la determinazione del suo personalissimo fato.
è un discorso che riguarda il mio modo di fare cinema, così come di concepire la vita, che io credo debbano essere sempre animati da una volontà come la pietra, perché ogni volta è più difficile, più dura. Tutto il mio cinema in fondo ha sempre lavorato intorno a questo stesso tema: come posso spingere i miei personaggi, e insieme a loro me stesso, e i miei attori e la troupe, a farcela in condizioni estreme, a sopravvivere a situazioni impossibili? Il mio modo di fare i film rispecchia questa idea di volontà, perché ogni volta cerco di mettermi alla prova, di mettere alla prova la mia troupe, cercando condizioni sempre più difficili, estreme, che spingono a mollare chi non sia animato da una volontà di portare a termine il progetto che sia come il martellare di Agostino sulla roccia del monte. Ho spinto settantacinque persone a resistere quattro mesi a più di tremila metri, abbarbicati come capre su rocce aguzze e pareti a strapiombo, con condizioni climatiche davvero estreme. Sartoretti in certe scene doveva martellare così a lungo e furiosamente sulle rocce che perdeva completamente l’uso delle braccia, ma non si è mai lamentato neanche quando gli chiedevo di rigirare e io sono caduto due volte nei crepacci, perché ero distratto, e ho rischiato di morire tutte e due le volte. Mai fatto nulla di così estremo! (Amir Naderi)
Primoldial-Mente: la comunicazione del suono puro
Tornando alla oscura voce della montagna, che per il regista «è il solo mezzo che avevo per far capire la montagna in quanto personaggio, il suo carattere, l’atmosfera di morte che la avvolge», dovremo parlare di «comunicazione più primitiva della parola, ma più universale, la comunicazione del suono puro» nella misura in cui Naderi crea un oggetto sonoro in grado di interagire direttamente con i meccanismi basilari del nostro funzionamento psico-fisiologico primordiale. Quello che sfrutta qui, nella creazione di questa identità ipertrofica e malevola del monte, è un principio archetipico nelle modalità di esplorazione del mondo caratteristiche della nostra specie, che istintivamente tende a stabilire una relazione di proporzionalità diretta tra le dimensioni fisiche di un suono e quelle della fonte che lo emette. “Suono grande, emittente grande, suono piccolo, emittente piccolo” il principio che governa la relazione dimensionale suono/fonte sonora, a grandi linee è questo, ed opera tanto in situazione reale che in quella cinematografica.
Questa qualità che permetteva ai nostri antenati preistorici di discriminare anticipatamente le dimensioni di una preda o di un predatore dalle dimensioni di un ruggito lontano, ci appartiene da tempi immemorabili e fornisce una informazione comprensibile ben al di là dei contesti culturali e linguistici. Il cinema, e questo Naderi sembra saperlo bene, ha imparato a farne un uso strategico ed espressivo sia nella creazione di effetti audiovisiogeni che riguardano la percezione della massa, del peso e della consistenza materica di corpi e oggetti, sia nella sottolineatura dell’importanza drammaturgica o emozionale di eventi, azioni, e personaggi, che normalmente producono un suono tanto più prominente e staccato dal restante contesto sonoro, quanto maggiore è l’importanza drammatica, narrativa o emotiva che hanno nel progetto del regista. Il colpo fatale che determina la caduta del cattivo, l’esplosione finale, l’evento tragico o terrorizzante, il gesto o il dettaglio minimo che innescano o risolvono definitivamente la trama, i momenti di maggiore importanza “strutturale”, possono avere al cinema – parliamo sempre e solo di una possibilità offerta dal linguaggio filmico, non di una regola ineludibile – un suono diverso, sovradimensionato, percepibile isolatamente dal resto e proporzionato a loro valore.
Quelli che sopra abbiamo definito “effetti audiovisiogeni di massa, materia e peso”, sono addirittura uno dei fondamenti del linguaggio cinematografico, che esprimendosi nell’alfabeto incorporeo della luce e dei colori solo acusticamente potrà rappresentare l’informazione relativa al peso, alla massa, o alla costituzione materica dei corpi. Le scene in cui le dimensioni fisiche, la spropositata massa pesante del Godzilla o del King Kong di turno, e dunque anche le dimensioni della minaccia che rappresenta per i “buoni”, sono pre-annunciate dal tonfo sordo di passi gargantueschi in lontananza, sono un grande classico di genere e Naderi non fa che creare il suo “Godzilla di pietra”, un Kaiju, un Moloch immoto e minerale, che ulula e ringhia in ragione proporzionale alla propria entità fisica. Al cinema possiamo far sembrare un corpo più pesante, forte, persino più grande e dunque più pericoloso e minaccioso, in certi contesti narrativi, semplicemente accrescendo le “dimensioni” e le caratteristiche timbriche dei rumori prodotti dai suoi passi e dai suoi movimenti corporei, come nel caso dei corpi virtuali e inconsistenti dei robot della serie Transformers, che lo spettatore percepisce come pesantissimi e metallici unicamente in ragione dell’ampiezza e delle qualità (indizi sonori materializzanti) “metalliche” dei rumori che producono i loro passi e movimenti corporei.
Naderi, per volontà, intuito o sorte realizza un composto sonoro che sintetizza tutte queste possibilità della comunicazione sonora, e dunque dota il proprio Kaiju-Moloch di un ruggito-richiamo in grado di comunicarne senza bisogno di mediazione linguistica tanto l’entità fisica, la massa imponderabile e pietrificata, quanto la centralità tematica e drammaturgica, di renderlo contesto ossessionante, di costituirne l’identità in quanto antagonista principale.
Le ragioni che fondano l’efficacia espressiva e comunicativa dei suoi costrutti audio-visuali vanno ricercate proprio nella sua capacità di costruire l’ipertrofica e spaventevole identità del personaggio-monte e il sistema di relazioni di forza che intesse con l’identità-uomo, proprio a partire da meccanismi di significazione corpo-cognitivi basilari, primordiali e dunque condivisibili in ragione di semplici meccanismi psico-fisiologici universali, comprensibili pre-linguisticamente, pre-razionalmente e, ma è ovvio, pre-cinematograficamente.