Con L’infinita fabbrica del Duomo (2015) Massimo D’Anolfi e Martina Parenti assestano, per la seconda volta all’interno della propria filmografia, una sterzata, che è senza soluzione di continuità, conclusione di un percorso e virata verso un nuovo orizzonte progettuale.
Vertice e di nuovo primo passo di una scalata, sempre al rilancio del grado di difficoltà scopica.
Come Il castello (2011), dopo le opere prime Promessi sposi (2007) e Grandi speranze (2009), parve radicalizzare il disegno programmatico sin lì condotto, di indagare la faticosa praticabilità del contesto socioeconomico vissuto dal singolo cittadino, così L’infinita fabbrica del Duomo può dirsi, a posteriori, sublimazione del fil rouge, che con Il castello e Materia oscura (2013), s’insinuava nelle maglie e negli ingranaggi meno visibili e meno comprensibili dell’esercizio statale del potere, palesando nelle antinomie del tempo e dell’immagine, contraffazioni di memorie condivise.
Dunque, ancor prima di dichiararsi ufficialmente capitolo della tetralogia Spira Mirabilis (2016), sul concetto di immortalità degli elementi naturali rispetto alla caducità della vita umana, L’infinita fabbrica del Duomo si configura come approdo ad una investigazione cosmogonica (il riferimento alla famosa spirale logaritmica, presente nell’eternità di certe forme di natura) che non può affatto eludere dalla caducità della singola vita umana la sua inalienabile tensione di memorabilità, quale eterna negoziazione di immortalità della specie.
La memoria, quale materia prima del tempo, plasmata dall’uomo, artefice e compartecipe della trasmissione del patrimonio stesso d’umanità, in pensieri, parole, opere ed anche, si vedrà, imperdonabili omissioni.
Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sono, in questo senso, gli insoliti autori di un cinema molto più che d’osservazione, bensì di perlustrazione stratificata e comparata di certi, veri e propri cantieri sensibili, in cui le forze istituzionali, sotto l’egida indiscutibile della sicurezza, sperimentano costantemente il proprio esercizio di potere (termineranno mai le perquisizioni intercontinentali di frontiera? Mai le simulazioni d’uso delle armi militari? Mai il restauro di leggendari monumenti nazionali?).
Inchieste fattuali esposte ad interpretazioni di coscienza, per mezzo di una estetica dell’acquisizione visiva, che è aggiornamento del semplice resoconto del dato documentato, potenziato nel suo stato espressivo.
Cinema che racconta, smaschera, pensa, tesse considerazioni sul linguaggio stesso che sta dispiegando, codifica traiettorie tra obiettivo, realtà e partecipazione spettatoriale, ragionevole, vigile, paziente, ritemprata.
Ratio dell’arte tout court, agente resistente e critico del proprio tempo, D’Anolfi e Parenti hanno dichiarato d’aspirare a un cinema pienamente in grado di «confrontarsi ad armi pari con la politica, con il potere, con la bellezza» (D’Anolfi – Parenti 2014, p. 26). Cinema che sfida, in quanto è esso stesso fonte di potere, il potere delle immagini.
Impostando il proprio sguardo come squarcio su ciò che la realtà istituzionale nasconde (la sicurezza statale radicata all’insicurezza dei cittadini; la preclusione dell’opinione pubblica, se non come controparte dominata ed eterodiretta, vittima) i registi hanno sempre più affilato le visioni, sì da penetrare mondi, i cui codici segreti «non possono essere forzati, sfuggono alla mente e possono solo essere suggeriti dalla potenza delle immagini» (L’infinita fabbrica del Duomo, Note di regia – Pressbook). È il potere dell’arte. Il potere che scomoda, che s’offre con grazia a sconquassare il banale, varcare l’ignoto. Resettare il nostro apparato sensoriale, dalla retina alla ragione.
CANTIERI DEL CINEMA
L’inclinazione e la destrezza a muoversi sul campo d’osservazione con occhio delicato, ma irreprensibile, espanso eppur essenziale, non può che avvincere. Un connubio di armonia e determinazione contraddistingue le narrazioni de Il castello, Materia oscura e L’infinita fabbrica del Duomo, mai esplicate sul piano della tesi a priori, bensì scandite ad orientare e sostenere l’autonomia di un dibattito in corso d’opera, prevedibilmente già in fase produttiva ed in modo esemplare in fase di montaggio.
L’arte di D’Anolfi e Parenti (documentaristi di formazione autodidatta, in perenne sfida coi traguardi raggiunti) è un talento di ricerca visuale prezioso nel panorama odierno, perché libero e virtuoso, sia nel trasporto creativo dell’inventio (nel senso proprio dell’etimo: trovare investigando) sia nella cifra stilistica rigorosa, ma logopatica nell’insieme, soprattutto quanto alla maestria della gestione sonora e della ricontestualizzazione dei materiali d’archivio nell’economia dei film.
L’equilibrio tra colonna musicale (spesso cornice di apertura e chiusura di capitoli dichiarati o commento a margine di snodi cruciali) e la colonna sonora d’ambiente, cuore pulsante per eccellenza, realizza un coinvolgimento senza smarrimento, una mappatura realistica, e nondimeno contemplativa del vissuto nell’immagine, che è sensorialità integrata, non meramente vista.
È questo un cinema ben più che documentario o della realtà, e non solo perché ormai emancipato dal genere propriamente detto in opposizione a quello di finzione nell’ordinamento della dittatura del mercato.
È l’arte esperanto, archetipo aporetico, che (ac)coglie e restituisce nell’impatto immediato della porzione di realtà raffigurata, il conflitto di suggestioni e contraddizioni contingenti al creato stesso.
L’estetica musicale ritorna spesso, come una sorta di distorsione melodica sulla partitura acustica naturale.
Dal radicale stacco al nero, o nell’andante di una nenia, muove la deflagrazione (il crollo della lastra di marmo in frantumi, come i boati delle esplosioni militari nei paesaggi desolati e silenti). Tale è la portata dei raccordi sonori interni alle sequenze, da tradurre una cava di marmo secolare in un ventre mitologico: striduli di carrucole su binari e pontili, tralicci, gru, cavi in tensione, sono modulati come echi siderali, imprigionati nelle viscere della terra.
Così l’udito affonda nell’inaccessibile, infattibile, lì dove la supremazia dell’occhio s’arresta alla superficie fotografica che, asservita alla storiografia ufficiale di competenza, rende conto dell’esattezza dell’evoluzione, ma non della sua profondità. È l’aura accecante di archivi riservati, inediti, inconfessati, per se stessi patrimonio da preservare coi guanti bianchi (lo sono già i circuiti chiusi di sorveglianza e i dossier – moloch telematici – di registrazione anagrafica aeroportuale, ripresi ne Il castello; come lo sono ancor più i repertori audiovisivi militari in Materia oscura o i reportage di lavorazione del marmo ne L’infinita fabbrica del Duomo).
Altra scelta programmatica investe invece i volti operosi (la polizia di frontiera, le unità dell’esercito militare, i braccianti, gli artigiani, i custodi della Veneranda Fabbrica del Duomo) per lo più celati o relegati fuori campo, per lasciare il primo piano all’atto delle mani, ai gesti tecnici del lavoro, all’azione scissa dall’agente. La prerogativa dei volti, margini di tensione e tormento, sarà solo degli umili e degli anonimi senza divisa d’appartenenza: il giovane trafficante di droga de Il castello e gli allevatori di Materia oscura.
Persino l’archivista, ricercatore storico de L’infinita fabbrica del Duomo, sarà limitato, schermato da vetrate, eco perso nei corridoi labirintici bibliotecari. Egli assolve alla funzione d’esplicazione storiografica, alla pari dell’inserzione di testi – cartelli narrativi di congiunzione - estratti dalla letteratura1, con lo scopo specifico di sottolineare il processo di trasfigurazione dell’uomo nella sua riduzione a qualità giuridica (i libri mastri delle oblazioni). Memoria giuridica imperitura, dal momento che i nomi si tramandano finché i beni, rispetto ai quali si qualificano, durano (Halbwachs 1987, p. 237).
Nel corpus d’opere considerate, la questione del vaglio documentale senza filtri ed esposto in dettaglio, è quasi una sorta di inquisizione del dispositivo visibile (cartaceo, video, fotografico, radiografico) che non risparmia neppure i negativi, sovverte i contrappesi di bianco/nero, per inchiodare la verità percettibile ai propri fantasmi. Impenetrabilità, occultamento e impassibilità sono gli spettri stanati ad infestare i cicli di natura, le requisitorie dell’identità e le declinazioni di paralisi del tempo, al servizio della strategica evanescenza delle forze egemoniche. Non sono i volti, né tanto meno i nomi, bensì i reiterati meccanismi, cui questi prestano maschera occasionale e che vi soggiacciono (impossibile, con le dovute distanze formali, non ripensare alle tre fiere antropomorfe sugli scanni de Il potere di Augusto Tretti)2 a interessare e tessere i lavori di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti:
Il castello o dell’impenetrabilità. Le logiche e le strategie della massima allerta di controllo su e di contro un’umanità che è corpo in transito, scomposizione identitaria e traffico sospetto per principio. Smascherare, scovare (tra le partite di genere alimentare o tra la fauna da cacciare sulle piste di decollo) sono gli imperativi. È questo lo scandaglio di un potere come monade spaziale, l’aeroporto intercontinentale di Malpensa e della sua sospensione arbitraria del tempo, in una perenne attesa dell’avverso, che potrebbe rivelarsi la più grande falla in seno (una donna e il suo personale The Terminal spielbierghiano)3 se non monitorata e filmata con l’estrema responsabilità del documentabile.
Materia oscura o dell’occultamento. Tra le province di Cagliari e Nuoro, logore insegne attestano l’esistenza del Poligono interforze sperimentale di Salto di Quirra: dal 1956 la più grande area di sperimentazione bellica d’Europa. Qui, anche la stasi temporale è simulazione, copertura di un countdown verso l’annullamento, l’inarrestabile brutale espropriazione della civiltà contadina. È l’agonia di una terra, raccontata affatto come immortale, indifferente e impassibile. La sequenza di contrappunto didascalico tra la vivisezione della cavia e l’allarmante statistica tumorale dei territori, impressiona decisamente più dell’ostentazione del patrimonio audiovisivo militare: boati ed esplosioni che non producono significazione.
L’Infinita fabbrica del Duomo o dell’imperturbabilità. Come Alexandr Sokurov si è chiesto quanto poté pesare la minaccia di una Parigi senza il Louvre4, così D’Anolfi e Parenti si sono chiesti quanto gravi su Milano l’incombenza (proprio nel senso di incarico da svolgere) della conservazione del Duomo. La gravità intesa è l’illusione di imperturbabilità all’azione del tempo, non certo sul singolo uomo finito, ma sulla sua spiritualità, evocazione universale, se non del credo religioso, senz’altro dell’umanità come specie dominante (s’è detto a metà, tra gli angeli e gli animali) in natura, ma non sulla natura. L’illusione è quella di eternizzare l’identità della comunità, che si riconosce simbolicamente nell’opera di magnificenza; l’illusione di confluire nella perpetuazione della memoria collettiva, trascendendo persino l’altrettanta deperibilità del marmo, ché per quanto secolare, usura secolare sarà. Pertanto, l’ostentazione di un perpetuo cantiere aperto, che ha impegnato svariati secoli di generazioni e generazioni di mano d’opera, fa il paio con antichi calendari delle opere e libri mastri delle donazioni testamentarie, illustri e meno illustri. Un popolo unito nella causa della costruzione, senza distinzione di rango e ceto, perché, pena e premio l’uguaglianza dinanzi al giudizio divino, la preservazione dell’opera votiva è imperativo categorico. L’immortalità, in definitiva, come un investimento prima immaginifico e poi patrimoniale. L’infinito restauro dello sguardo di chi verrà a contemplare.
CANTIERI DI MEMORIE
Nell’opera miliare della sociologia, La memoria collettiva di Maurice Halbwachs, si ipotizza che se le città, nonostante le guerre, sembrano attraversare i secoli inalterate, lo si deve al fatto che nessun tumulto sostanzialmente inficia la familiarità che lega luoghi e abitanti (cfr. Halbwachs 1987, p. 219) e interrogandosi retoricamente sull’impassibilità delle pietre rispetto alle rivoluzioni e le crisi che scombussolano gli assetti sociali, giunge ad affermare la lampante verità:
se le pietre si lasciano trasportare, non è altrettanto facile modificare i rapporti che si sono stabiliti fra le pietre e gli uomini. Pietre e materiali non resisteranno, ma resisteranno le comunità con la resistenza stessa se non delle pietre delle loro antiche disposizioni. […] L’immagine del luogo dura materialmente nel pensiero e non si conserva che nello spirito degli uomini che se ne ricordano. (ivi, p. 222)
Allora, una digressione intertestuale urge s’affronti, preliminarmente, ancora prima di esporre come L’infinita fabbrica del Duomo, si presti esemplarmente al postulato di Halbwachs (si pensi al trasferimento, in stretta soggettiva, delle statue patristiche verso il cantiere di restauro e la loro rimessa, o meno, in posa).
Quando un monumento storico e artistico, bene culturale, cade in stato di abbandono e degrado non sarà soltanto perché la collettività che l’aveva eretto ha smesso di investire simbolicamente in questo simulacro di imponenza e splendore; perché ha semplicemente smesso di proiettarvi il proprio riconoscimento di identità e profusione di spirito. Ferma restando proprio la manifestazione del potere scolpito nella pietra, potrà solo essere mutata la prerogativa della finalità dello sguardo del gruppo dominante, che ne fa arma e simbolo sistemico di ricatto, corruzione morale e saccheggio ambientale dei luoghi.
Coincidenza o miasma dei tempi, hanno voluto che nella medesima edizione del 68° Festival del Film di Locarno, cui è stato presentato L’infinita fabbrica del Duomo, facesse altrettanto notevole e apprezzato capolino un’altra prova del miglior cinema contemporaneo (nostrano?), un’opera quanto mai agli antipodi, eppure speculare nella sostanza di contraddizione: Bella e perduta (2015) di Pietro Marcello.
Qui, una realtà dall’innegabile prestigioso passato, il real sito borbonico settecentesco di Carditello nel casertano, è mostrata come quanto di peggio possa concepire la speculazione operata dal potere, il potere-ombra della mafia, che lavora per distruzione, su cantieri di consunzione del valore paesaggistico e culturale, sino all’espropriazione nominale: “terra dei fuochi” oramai.
A dirci di una disfatta e di una rivalità di memorie, giocate ad armi impari, ma giocate sul medesimo piano di lotta alla sopravvivenza. Un’opera che certo non può che apparire comunque vicina al solco tracciato da D’Anolfi e Parenti, se la si pensa congiuntamente anche a Materia oscura.
L’attinenza più evidente è certo racchiusa nella similare parabola dell’agonia cosciente dell’animale, traslazione non solo del mondo contadino violato (il vitellino nato malformato e già moribondo di Materia oscura, non restituisce certo meno del bufalotto Sarchiapone, cui Marcello conferisce fiabescamente voce interiore, la metafora della dannazione della terra) ma anche della perdita irrimediabile di aggregazione e identità sociale, unico patrimonio trasmissibile.
Se ne L’infinita fabbrica del Duomo, il proposito è quello di rinsaldare alle continue fasi di restauro architettonico della basilica, l’elevazione memoriale di secolari frammenti di vite, che vi dedicarono fatica, voti e sogni di gloria terrena (l’accelerazione del compimento della facciata, in tempo per l’incoronazione nel 1805 di Napoleone Bonaparte Re d’Italia, su tutti) in Bella e perduta l’immolazione dell’arco di una sola breve vita, quella dell’agricoltore Tommaso Castrone, difensore senza arte né parte, della reggia di Carditello, del valore evocativo del suo animus loci, assurge ad esemplare figura di quest’epica umile d’antropologia edificante. Sia Pietro Marcello, sia la coppia D’Anolfi e Parenti, operano nel solco di prospettive inedite su realtà insondabili, si dirà tangenti e di rimando le une alle altre: il primo elabora una sorta di mitologia, quel pulcinella – maschera dell’oltraggio e del riscatto della natura sul singolo uomo e il suo tempo contingente, che ogni volta, di nascita in nascita, forgia simulacri del proprio desiderio dominante; i secondi mettono a punto un’elegia del pedinamento, storiografico e pragmatico, dello scavo e del lustro del marmo, in funzione dell’epifania dell’immagine – effigie scolpita, venuta al mondo in profusione della magnificente spiritualità umana, ma mai davvero estirpata dalla terra stessa, come sancisce l’iconizzarsi del leggendario olmo5, primigenio nume tutelare del Duomo di Milano.
Nella buona e nella cattiva sorte:
Una radicata illusione fa considerare come identici il marmo ancora non resecato da una cava e quello che è divenuto statua. Fra il suo esistere come carbonato di calcio e il suo essere immagine si è aperta una incolmabile discontinuità, la storicizzazione per dato e fatto dell’opera dell’uomo. (Brandi 2000, p. 12)
Note:
1 Testi adattati da Milano in Mano di Guido Lopez e Silvestro Severgnini; Storia della Veneranda Fabbrica di Carlo Ferrari da Passano.↑
2 Il Potere (1972), presentato alla 33ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è l’opera di genere comico – grottesco, con cui il regista Augusto Tretti inscena una strampalata, eppure lucida, ricostruzione della Storia della civiltà. I capitoli evolutivi, dalla preistoria all’età contemporanea, vengono scritti dalle convenienze e dalle connivenze di tre avide fiere antropomorfe, sedute su seggi regali a rappresentare i poteri militare, economico e agrario.↑
3 Il capitolo “Estate – Attesa” del film Il castello si concentra sul pedinamento di una donna di mezza età, che occupa indisturbata gli spazi pubblici della toilette dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, per sbrigare la cura personale (cucinare, lavare i panni, tingersi i capelli) potendo liberamente usufruire della predisposizione di adeguati servizi come fossero privati (grandi lavandini, numerose prese di corrente, potenti erogatori d’aria calda) e senza che alcun controllo o divieto interferisca con la sua arbitraria e prolungata presa di possesso degli ambienti.↑
4 Cfr. Francofonia, Commenti di A. Sokurov – Pressbook.↑
5 «Questo è l’olmo più antico d’Italia, fu piantato nel 1386, nello stesso anno, dalla montagna sovrastante l’albero veniva estratto il primo blocco di marmo con cui sarebbe stato edificato il Duomo di Milano […]. La leggenda dice che finché l’olmo vivrà anche la cattedrale rimarrà in piedi». Sono le note che aprono e chiudono il film.↑
Bibliografia:
Brandi C. (2000): Teoria del restauro, Einaudi Editore, Torino.
Halbwachs M. (1987): La memoria collettiva, Ed. Unicopli, Milano.
Sitografia:
D’Anolfi M. – Parenti M. (2014): Gli occhi del futuro. Conversazioni, «Sentieri selvaggi magazine» n. 10, Dicembre 2013/Gennaio 2014.
Filmografia di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti:
Promessi sposi (2007)
Grandi speranze (2009)
Il castello (2011)
Materia oscura (2013)
L’infinita fabbrica del Duomo (2015)
Spira Mirabilis (2016)
Filmografia:
Bella e perduta (Pietro Marcello 2015)
Il potere (Augusto Tretti 1972)
Francofonia (Aleksandr Sokurov 2015)
The Terminal (Steven Spielberg 2004)